la dipendente di una struttura ospedaliera conveniva dinanzi al tribunale il datore di lavoro asserendo di essere stata oggetto di comportamenti “mobbizzanti”, consistenti in continue vessazioni da parte dei colleghi e superiori nel corso della attività lavorativa e sul luogo di lavoro, nonché di essere stata demansionata. A causa di tali condotte, la lavoratrice era caduta in uno stato di prostrazione (sindrome ansioso-depressiva) ed aveva richiesto la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni conseguenti.

La Corte di Cassazione ha tuttavia confermato la sentenza d’appello che a sua volta aveva respinto le domande di condanna.
Pur non negandosi il clima di conflitto che si era determinato all’interno della azienda nei vari reparti in cui la ricorrente aveva operato, la portata – secondo i giudici – andava ridimensionata attribuendone la responsabilità soprattutto a problemi caratteriali e di rapporto della dipendente stessa. [Avv. Ennio Grassini – http://www.dirittosanitario.net]/

Cassazione Civile – Sez. Lavoro; Sent. n. 9477del 21.04.2009

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Milano, quale giudice del lavoro, depositato il 4 giugno 2002, T.M., infermiera dipendente della Fondazione X.  dal mese di febbraio 1986, esponendo di essere stata oggetto, a far tempo dal 1996, di continue vessazioni da parte di colleghi e superiori nel corso dell’attività lavorativa e sul luogo di lavoro nonché di essere stata demansionata e deducendo che, a causa di tali condotte, imputabili anche alla datrice di lavoro (ex artt. 2087, 2043, 2049, 1175, 1375, 2103, 1218 e 1223 cod. civ. e D. Lgs. n. 626/94), ella era caduta in uno stato di prostrazione (sindrome ansioso-depressiva), aveva chiesto la condanna della Fondazione a risarcirle i danni conseguenti, alla professionalità (Euro 51.645,69) nonché i danni biologico psichico (Euro 35.317,44), morale (Euro 17.658,72) ed esistenziale (Euro 25.822,84).
Le domande della T.M. sono state respinte nei due gradi del giudizio di merito, da ultimo con la sentenza depositata il 5 maggio 2006, con la quale la Corte d’appello di Milano aveva rilevato la tardività di alcune deduzioni in fatto e soprattutto e comunque, pur accertando l’esistenza di una situazione di conflittualità tra l’appellante e suoi colleghi e superiori diretti, ha escluso che si fossero verificati episodi di vessazione ai danni della prima, attribuendo la conflittualità a problemi caratteriali della ricorrente e quindi ad un suo disagio esistenziale ovvero ad una sua condizione psicologica alterata.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione T.M., affidato a tre motivi, illustrati quindi con memoria ex art. 378 c.p.c..
La Fondazione resiste alle domande della ricorrente con un proprio rituale controricorso.

Motivi della decisione

  • Col primo motivo di ricorso, la difesa della T.M. deduce l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in ordine all’esame e alla valutazione dei fatti e delle risultanze istruttorie emerse in corso di causa.
    In proposito, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale, contrariamente a quanto sarebbe stato necessario in una materia, come quella del mobbing, che oggettivamente si presenta di difficile accertamento diretto, abbia proceduto all’esame delle risultanze istruttorie con estrema superficialità, senza valorizzare adeguatamente le indicazioni da esse provenienti, nel loro complesso univocamente orientate a confermare la effettività della situazione di persecuzione e di dequalificazione denunciata.
    In proposito, la difesa della ricorrente analizza una serie di risultanze istruttorie per rilevare come la Corte territoriale ne avesse trascurate alcune, avesse deformato il significato di altre e assunto sovente conclusioni in netta contraddizione con l’evidenza, infine senza rilevare che, nel clima di conflitto, di ostracismo e di vessazioni nei confronti della ricorrente, la direzione aziendale era rimasta colpevolmente inerte, senza porre a ciò sostanzialmente rimedio con le modeste iniziative inutilmente assunte per normalizzare la situazione attraverso gli interventi del responsabile del personale e della responsabile del servizio infermieristico descritte nella sentenza.
    Da ciò e dalla sostanziale rinuncia dei giudici di merito ad utilizzare tutti i mezzi istruttori disponibili, in particolare quelli presuntivi di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ., sarebbe derivata l’impossibilità di ricostruire l’iter logico seguito dai giudicanti nel pervenire alle conclusioni censurate e quindi di esercitare un controllo su di esso.
  • Le conclusioni assunte col primo motivo costituiscono altresì la premessa per l’enunciazione del secondo motivo di ricorso, col quale viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 nonché dell’art. 2087 cod. civ..
    Il motivo conclude con la formulazione di due quesiti di diritto, con i quali si chiede alla Corte a) in via generale, se il giudice del lavoro, nella valutazione degli elementi integranti del mobbing e dunque anche nel caso in esame debba utilizzare tutti i poteri istruttori previsti dall’ordinamento processuale ivi comprese – più diffusamente che nelle altre fattispecie – le presunzioni; b) ancora in via generale, se il giudice del lavoro investito della questione della violazione dell’art. 2087 c.c. debba valutare se il datore di lavoro abbia concretamente posto in essere le condotte volte a tutelare la salute psicofisica dei dipendenti, senza limitarsi a ritenere sufficienti mere dichiarazioni di intenti o generiche raccomandazioni, come accaduto nel caso di specie.
  • Col terzo motivo di ricorso, la ricorrente censura la sentenza impugnata per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa il rigetto delle istanze istruttorie formulate e/o reiterate dalla ricorrente in grado di appello.
    In proposito, la ricorrente lamenta che la Corte d’appello non abbia neppure preso in considerazione, senza alcuna motivazione, la richiesta dell’appellante di ammissione di tutte le istanze istruttorie avanzate in primo grado e non accolte dal giudice. In particolare richiama la richiesta di C.T.U. medica, lamenta che la teste D. non sia stata sentita su di un determinato capitolo di prova (n. 16) e ricorda che il giudice di primo grado, nonostante le richieste della difesa della ricorrente, aveva escusso solo due dei venti testi indicati, ritenendo quindi la causa matura per la decisione.
    Il ricorso conclude pertanto chiedendo la cassazione della sentenza impugnata, con ogni conseguenza di legge.
    I primi due motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi.
    Va infatti rilevato che, nonostante che il secondo di essi denunci la violazione di norme di diritto da parte della Corte territoriale, le relative censure attengono in realtà alla motivazione della sentenza.
    Questa viene infatti valutata come carente in quanto non avrebbe desunto dalle risultanze istruttorie, anche attraverso l’utilizzazione delle presunzioni emerse in giudizio, i significati ritenuti dalla ricorrente evidenti o comunque desumibili dalle stesse, anziché quelli di fatto da esse tratti e avrebbe ritenuto erroneamente sufficienti le iniziative intraprese dalla direzione aziendale per sedare il clima conflittuale che si era determinato tra la ricorrente e colleghi e superiori.
    Controprova del fatto che il secondo motivo non attiene propriamente alla violazione di legge, si rinviene nell’analisi del contenuto dei due quesiti con i quali esso si conclude e che, riguardati come quesiti di diritto, sarebbero infatti inammissibili.
    Ciò non perché il motivo venga in tal modo frammentato in una pluralità di quesiti (come tuttavia ritenuto non consentito da Cass. 29 gennaio 2008 n. 1906 e 29 febbraio 2008 n. 5471), in quanto tale frammentazione di per sé potrebbe non comportare rischi di equivocità (Cass. 21 settembre 2007 n. 19560), quanto piuttosto in ragione del fatto che tali quesiti si risolvono nel caso di specie nella mera istanza di una decisione in ordine alla esistenza della regula iuris da applicare nel tipo di giudizi cui è riconducibile quello censurato.
    Viceversa, il quesito di diritto deve essere formulato in maniera tale che la Corte di legittimità possa comprendere dalla lettura dello stesso, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamene compiuto dal giudice di merito nel caso in esame e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. S.U. 14 febbraio 2008 n. 3515).
    In proposito, a fini indicativi, le sezioni unite di questa Corte (S.U. ord. 5 febbraio 2008 n. 2658) hanno recentemente affermato che “potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata”, le ragioni della cui erroneità sono state adeguatamente illustrate nel motivo.
    Nel caso in esame viceversa l’esistenza di una erronea regula iuris applicata dai giudici è meramente presupposta e la sua affermazione appare unicamente funzionale a censurare i modi con i quali la Corte territoriale ha proceduto alla valutazione delle prove e quindi ad una valutazione di fatto, costituente il reale oggetto di ambedue i motivi di ricorso.
    Le censure di vizio di motivazione contenute nel primo e nel secondo motivo di ricorso sono infondate.
    Va anzitutto ribadito, come premessa all’esame delle stesse, che il controllo di legittimità sulla motivazione delle sentenze riguarda unicamente (attraverso il filtro delle censure mosse con il ricorso) il profilo della coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte, in base all’individuazione, che compete esclusivamente al giudice di merito, delle fonti del proprio convincimento, raggiunto attraverso la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, scegliendo tra di esse quelle ritenute idonee a sostenerlo all’interno di un quadro valutativo complessivo privo di errori, di contraddizioni e di evidenti fratture sul piano logico, nel suo interno tessuto ricostruttivo della vicenda (cfr., per tutte, Cass. S.U. 11 giugno 1998 n. 5802 e, più recentemente, Cass., sez. lav. 6 marzo 2006 n. 4770 e Cass. sez. 1ª, 26 gennaio 2007 n. 1754).
    Né appare sufficiente, sul piano considerato, a contrastare le valutazioni del giudice di merito il fatto che alcuni elementi emergenti nel processo e invocati dal ricorrente siano in contrasto con alcuni accertamenti e valutazioni del giudice o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti.
    Ogni giudizio implica infatti l’analisi di una più o meno ampia mole di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra di loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, compete al giudice nei due gradi di merito in cui si articola la giurisdizione.
    Il controllo in sede di legittimità sul giudizio di fatto del giudice di merito non può infatti spingersi fino alla rielaborazione dello stesso alla ricerca di una soluzione alternativa rispetto a quella ragionevolmente raggiunta, da sovrapporre, quasi a formare un terzo grado di giudizio di merito, a quella operata nei due gradi precedenti, magari perché ritenuta la migliore possibile, dovendosi viceversa muovere esclusivamente nei limiti segnati dall’art. 360, n. 5 c.p.c. (cfr., da ultimo, Cass. 6 marzo 2008 n. 6064).
    Occorre pertanto che gli specifici dati della controversia, dedotti per invalidare la motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante o determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (in proposito, cfr., di recente, Cass. sez. 3ª, 21 novembre 2006 n. 24744 e sez. lav. 3 agosto 2007 n. 17076).
    Ciò premesso in via di principio, va dato atto che la Corte d’appello di Milano, valutando l’intero materiale probatorio acquisito, valorizzandone i significati da esso provenienti e ritenuti come quelli che meglio rappresentino o siano indicativi della realtà versata in giudizio, ha escluso la tempestività della deduzione di determinate circostanze di fatto, in quanto proposte solo in sede di appello, rilevando altresì la contraddittorietà di esse rispetto alle deduzioni proposte in primo grado (in materia di demansionamento), ha indicato ripetutamente il corretto significato di mero doveroso richiamo da parte dei superiori gerarchici della ricorrente in occasione di suoi errori professionali ed ha ridimensionato la portata, il significato e la responsabilità degli altri episodi denunciati di vessazioni da parte di colleghi e superiori, sviluppando un percorso argomentativo privo di cadute sul piano logico.
    Sulla base di ciò, la Corte territoriale ha pertanto concluso non negando il clima di conflitto che si era determinato all’interno della azienda nei vari reparti in cui la ricorrente aveva operato, ma ridimensionandone la portata e attribuendone la responsabilità soprattutto a problemi caratteriali e di rapporto della T.M..
    In tale quadro di riferimento, la Corte ha comunque valorizzato il tentativo di superare la situazione conflittuale creatasi tra la ricorrente e le proprie colleghe col trasferimento della stessa ad altro reparto, in adesione a quanto richiesto o comunque suggerito dalla stessa T.M. e ha infine escluso una possibile responsabilità del datore di lavoro – comunque valutata come solo confusamente e genericamente dedotta dall’appellante -, in ragione del fatto che il responsabile del personale, come la responsabile del servizio infermieristico, si erano adeguatamente attivati, sia pure inutilmente, per risolvere la situazione.
    Ancorché sotto la forma di una contestazione della valutazione o della omessa valutazione del possibile significato di specifiche risultanze processuali, la ricorrente tenta nella sostanza di operare una ricostruzione alternativa della vicenda dedotta, attraverso un diverso apprezzamento dei fatti e delle prove, con l’attribuire un possibile significato alternativo, soggettivamente ritenuto certo, a determinati fatti, col valorizzare elementi indiziari ritenuti dai giudici di merito di scarso o trascurabile rilievo, col denunciare come contrastanti con l’evidenza accertamenti dei giudici, in realtà diversi da quelli effettivi oppure aventi la sostanza di valutazioni contrastanti con le proprie.
    Come già rilevato in via di principio, la richiesta di una siffatta operazione di rivalutazione del complesso dei fatti e delle risultanze istruttorie alla ricerca di una soluzione alternativa a quella ragionevolmente adottata dai giudici di merito non appare ammissibile in sede di legittimità. Ne consegue l’infondatezza dei due motivi esaminati.
    Anche tale terzo motivo è infondato.

La ricorrente, pur riproducendo nelle conclusioni del ricorso le deduzioni probatorie originariamente formulate, non specifica infatti quale di esse assumerebbe carattere decisivo (tenuto anche conto della posizione di ciascun teste in rapporto alla conoscenza dei singoli fatti dedotti a prova) con riferimento allo sviluppo argomentativo della sentenza impugnata.
Al riguardo, deve del resto ritenersi che la Corte d’appello, confermando la decisione del giudice di primo grado quanto alla mancata audizione della teste D. sul cap. 16 della prova testimoniale e alla decisione di dare ingresso alla discussione finale dopo l’esame di due soli testi di parte attrice, ha implicitament
ma evidentemente condiviso la valutazione di questi di irrilevanza del capitolo indicato e di ininfluenza quanto all’audizione degli ulteriori testimoni.
Con riferimento, infine, al richiesto accoglimento dell’istanza di consulenza medica per accertare le condizioni di salute della ricorrente, la conferma del relativo rigetto da parte della Corte territoriale ha rappresentato la necessaria conseguenza della ritenuta inesistenza dei fatti indicati come causativi della malattia da accertare con detta C.T.U..
Concludendo, sulla base delle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla convenuta le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 45,00 ed Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA.