In ordine alla responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di privata assistenza o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono, a livello normativo, gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria.

Trib. Bari Sez. stralcio, Sent., 06-07-2016


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Bari – sezione stralcio di Rutigliano nella persona del giudice Marisa Attollino, ha pronunciato la seguente

Sentenza

nella causa civile iscritta al n. 96000099 r.g.a.c. dell’anno 2008

tra

S.S. ((…)), rappresentato e difeso dal prof. avv. Giacomo Porcelli e dall’avv. Antonio Fortunato, il primo domiciliatario, giusta procura a margine della citazione

– attore –

e

ISTITUTO DI RICOVERO E CURA A CARATTERE SCIENTIFICO “S.D.B.”, in persona del legale rappresentante p.t. (P.I. (…)), rappresentato e difeso dall’avv. Angela Cistulli, domiciliataria, giusta mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta

– convenuto –

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La presente sentenza è redatta in conformità al canone normativo dettato dal n. 4) del secondo comma dell’art. 132 c.p.c. e dalla norma attuativa contenuta nell’art. 118 disp. att. c.p.c., che, a seguito dell’immediata entrata in vigore anche per i giudizi pendenti dell’art. 45 co. 17 della L. 18 giugno 2009, n. 69, dispongono che la motivazione debba limitarsi ad una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, e specificano, in particolare, che tale esposizione, da riferirsi ai fatti rilevanti della causa ed alle ragioni giuridiche della decisione, debba altresì essere succinta e possa fondarsi su precedenti conformi.

S.S. ha agito nei confronti dell’ Istituto di Cura a Carattere Scientifico “S.D.B.” per ottenere il ristoro dei danni fisici, morali, materiali, patrimoniali, di quello biologico (da ITA, ITP ed IP) ed alla vita di relazione, del danno esistenziale, di quello alla sfera sessuale ed alla serenità familiare, asseritamente patiti per la negligenza, l’imperizia e l’imprudenza dei sanitari che lo ebbero in cui presso il ridetto istituto in occasione del ricovero del 1 ottobre 2004, quanto giunse nel reparto di Medicina dell’ente convenuto, trasferito dall’Ospedale di Massafra per colecistite litisiaca accertata ecograficamente ed ittero ostruttivo.

All’accoglimento della domanda si è opposto il convenuto, chiedendone il rigetto, sicché espletata la c.t.u. del dott. Vito Giuseppe Romano ed escussi i testi, la causa è giunta all’udienza del 16 marzo 2016 per la precisazione delle conclusioni e trattenuta in decisione con concessione alle parti dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusive.

Al fine di inquadrare compiutamente la vicenda per cui è causa, occorre richiamare i risultati raggiunti dalla dottrina e dalla giurisprudenza in ordine all’inquadramento dogmatico della responsabilità dell’ente gestore della struttura sanitaria. È stato più volte affermato che “la responsabilità dell’ente ospedaliero, gestore di un servizio pubblico sanitario . . . inserendosi nell’ambito del rapporto giuridico pubblico tra l’ente gestore ed il privato che ha richiesto ed usufruito del servizio, ha natura contrattuale …. Ne consegue che la responsabilità diretta dell’ente e quella del medico, inserito organicamente nell’organizzazione del servizio, sono disciplinate in via analogica dalle norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto di opera professionale”, poiché “la responsabilità extracontrattuale ricorre solo allorquando la pretesa risarcitoria venga formulata nei confronti di un soggetto autore di un danno ingiusto non legato all’attore da alcun rapporto giuridico precedente, o comunque indipendentemente da tale eventuale rapporto, mentre, se a fondamento della pretesa venga enunciato l’inadempimento di un’obbligazione volontariamente contratta, ovvero anche derivante dalla legge, è ipotizzabile unicamente una responsabilità contrattuale” Cass. Sez. 3 n. 10743/2009; Cass. Sez. 3, n. 24759/2007; Cass. 22390/06; Cass. 12362/06; Cass. 9085/06; Cass. 1698/06; Cass. civ. sez. III 4.03.2004 n. 4400; Cass. civ. sez. III 8.05.2001 n. 6386; Cass. 1.09.1999 n. 9198; Cass. civ. sez. III 7.10.1998 n. 9911).

Le prestazioni sanitarie da parte di una struttura ospedaliera (o altra struttura) deputata a fornire assistenza sanitaria avvengono, infatti, sulla base di un contratto tra il paziente ed il soggetto che gestisce la struttura, avente ad oggetto una prestazione complessa, a favore dell’ammalato, definibile sinteticamente di “assistenza sanitaria”, ovvero contratto di spedalità, ove assumono primario rilievo le prestazioni di cura medica, ma nel quale si possono rinvenire anche prestazioni diverse quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché obbligazioni accessorie cosiddette di sicurezza e/o protezione. L’adempimento di tale contratto, per quanto riguarda le prestazioni di natura sanitaria, è regolato dalle norme che disciplinano la corrispondente attività del medico nell’ambito del contratto di prestazione d’opera professionale. Il soggetto gestore della struttura sanitaria (pubblico o privato) risponde, perciò, per i danni che siano derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, alla stregua delle norme dettate dagli artt. 1176, secondo comma, e 2236 c.c., che, nei casi di prestazioni particolarmente difficili, limitano la responsabilità del medico per imperizia e, di conseguenza, quella della struttura sanitaria, al dolo ed alla colpa grave.

Al fine di giustificare la conclusione sopra esposta in ordine alla responsabilità della struttura sanitaria, la dottrina e la giurisprudenza hanno fatto riferimento, a seconda dei casi (di regola in relazione alla natura privata o pubblica del soggetto gestore della struttura sanitaria) , alla fattispecie prevista dall’art. 1228 c.c., per cui il debitore della prestazione, che si sia avvalso dell’opera di ausiliari, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di questi, ovvero al principio di immedesimazione organica, per cui l’operato del personale dipendente di qualsiasi ente pubblico ed inserito nell’organizzazione del servizio determina la responsabilità diretta dell’ente medesimo, ai sensi dell’art. 28 Cost., essendo attribuibile all’ente stesso l’attività del suo personale (Cass. civ. sez. III 11.08.2000 n. 10719; Cass. civ. 1.09.1999 n. 9198) .

Quanto al regime della prova, trattandosi di responsabilità contrattuale, il danneggiato è tenuto a provare il contratto e ad allegare la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta improntata alla dovuta diligenza, mentre al debitore, presunta la colpa, incombe l’onere di provare che l’inesattezza della prestazione dipende da causa a lui non imputabile, e cioè la prova del fatto impeditivo (v. Cass., 13.04.2007, n. 8826; Cass., 28.05.2004, n. 10297; Cass., 21,06.2004, n. 11488; Cass., Sez. Un., 30.10.2001, n. 13533) .

Inoltre il termine prescrizionale non è quello quinquennale da fatto illecito aquiliano ex art. 2947 c.c., ma quello ordinario decennale previsto dall’art. 2946 c.c.

Va inoltre sottolineato che, secondo la tradizionale elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzo e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo. Seguendo tale ricostruzione, la mancata realizzazione dello scopo pratico del committente non costituisce inadempimento se non dipende da erroneità o inadeguatezza della soluzione dei problemi tecnici demandati al professionista, distinguendosi tra risultato inteso quale scopo finale in vista del quale la prestazione è stata richiesta, ossia realizzazione dell’intendimento del committente, che resta estraneo al contratto d’opera professionale quantomeno nella sua configurazione normale, e risultato inteso, invece, come opera intellettuale che il professionista è tenuto per contratto a produrre in funzione del fine perseguito dal committente, identificandosi in quest’ultima accezione con i mezzi tecnici astrattamente idonei per consentire al committente la possibilità di soddisfare le proprie aspirazioni.

Sulla base di tali premesse si è affermato per lungo tempo che l’inadempimento del professionista non può essere desunto senz’altro dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale ed in particolare del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio tradizionale della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176, comma 2, c.c., il quale deve essere commisurato alla natura dell’attività esercitata. In particolare, la diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento della sua attività è quella media, cioè la diligenza posta nell’esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione medie, a meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto non involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso la responsabilità del professionista per imperizia è attenuata, configurandosi, secondo l’espresso disposto dell’art. 2236 c.c., solo nel caso di dolo o colpa grave, da valutare, però, anche in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore professionale (vedi, tra le tante, Cass. civ. sez. II, 8 agosto 2000, n. 10431; Cass. civ. sez. III, 15 gennaio 2001, n. 499; Cass. civ. sez. III, 26 febbraio 2002, n. 2836; Cass. 19133/04; Cass. 4400/04) .

Parte della dottrina ha, però, criticato tale impianto dogmatico, sottolineando che con riferimento alle prestazioni professionali non possono rinvenirsi differenze nell’atteggiarsi della responsabilità, ma solo nel contenuto del rapporto obbligatorio, sicché la distinzione tra obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato non indicherebbe due tipi di rapporti diversamente regolati, ma solo due tipi di prestazione e tenderebbe a sottolineare l’aleatorietà del risultato che caratterizza le prestazioni professionali che non incide, comunque, sulla nozione di esatto adempimento, ma solo sulla individuazione della causa non imputabile. Tale conclusione è stata recepita dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. civ. sez. unite, 28.07.2005, n. 15781), che hanno esaminato funditus la distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato e, superando i contrastanti orientamenti, hanno affermato che “il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell’onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato”.

In sostanza la particolarità della responsabilità medica non sta tanto nella possibilità di conseguire il risultato sperato, ossia la guarigione, ma l’affermata natura contrattuale della stessa, come affermato delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione, le quali con la ormai notissima sentenza del gennaio 2008 n. 577 hanno prestato sostanziale adesione a tale opzione ermeneutica, chiarendo che, “per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria” (cfr. Cass. 25.2.2005, n. 4058).

In definitiva, secondo i più recenti arresti giurisprudenziali, quando vengano provati dal paziente la sussistenza ed il contenuto del contratto, incombe sulla struttura sanitaria la prova che la prestazione dell’attività abbia raggiunto il risultato normalmente ottenibile in relazione alle circostanze concrete del caso o, in caso contrario, che quel risultato non sia stato conseguito per il verificarsi di un evento imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza, mentre laddove tale prova non riesca a dare, secondo la regola generale ex articoli 1218 e 2697 c.c., il medesimo rimane soccombente (Cass. civ. 14.02.2008 n. 3520).

In applicazione di tutti i suesposti principi va, dunque, esaminata la domanda spiegata dall’attore, tenendo conto che era onere dello stesso provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) – invero incontestato e documentato dalla cartella clinica – ed allegare l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato, rimanendo a carico della struttura sanitaria dimostrare che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato causa del danno.

Nel caso di specie, per valutare correttamente l’an ed il quantum della pretesa risarcitoria avanzata dal S. non può non farsi riferimento all’esauriente, ampiamente motivata ed in conclusione totalmente condivisibile CTU espletata dal dott. Romano il cui ausilio è stato dirimente.

Ebbene dal complesso dell’istruttoria espletata ed in particolare dalla dettagliata consulenza medica espletata, sintetizzata nell’elaborato depositato il 2 giugno 2011, è emerso che all’ingresso nell’istituto sanitario, i valori di bilirubinemia totale del S. erano di 16,28 mg% e quelli di bilirubinemia diretta di 10,53 mg%, sicché il 7 ottobre del 2004, per l’ulteriore incremento dei valori di bilirubinemia (totale 26,05 mg%, diretta 15,57 mg%), fu sottoposto a colangiografia retrograda endoscopica (E.R.C.P.) che evidenziò la calcolosi della via biliare principale e del dotto cistico lungo ed a basso impianto.

Fu così effettuata d’urgenza sfinterotomia endoscopica seguita dall’eliminazione spontanea dei calcoli e fu posizionato un sondino naso biliare nella via biliare principale.

Il 9 ottobre 2004 il S. fu trasferito nel reparto di Chirurgia per il completamento delle cure, ma solo dopo tre giorni, per il persistere di elevati valori di bilirubinemia e di dolori epigastrici, fu eseguito un controllo colangiografico attraverso il sondino naso biliare posizionato nella via biliare principale, esame che evidenziò la presenza di ulteriori piccoli calcoli nel coledoco distale con molta probabilità scesi dalla colecisti dopo la colangiografia retrograda endoscopica eseguita il 7 ottobre nel reparto di Medicina.

I sanitari decisero, dunque, di procedere all’intervento di colecistectomia e non anche di effettuare di una ulteriore bonifica endoscopica della via biliare principale, che avrebbe comportato il rischio di migrazione di altri calcoli in corso di colecistectomia.

Il 19 ottobre il S. fu sottoposto a videolaparocolecistectomia (scelta terapeutica che il consulente dott. Romano definisce corretta), ove fu riscontrato, attraverso l’esplorazione della cavità addominale, che la colecisti risultava ricoperta da aderenze omentali, probabile esito di pregresso episodio di colecistite, con pareti ispessite ed edematose. L’edema si estendeva anche al legamento epatoduodenale, ed era tale da ostacolare la visualizzazione della via biliare principale. Il dotto cistico veniva identificato, isolato e sezionato immediatamente a ridosso dell’infundibolo della colecisti. Dal sondino naso biliare posizionato nella via biliare principale sin dal 7 ottobre, quando fu eseguita l’E.R.C.P., fu iniettato un colorante vitale per la verifica dell’ermeticità della chiusura del moncone cistico, la persistenza di micro calcoli nella via biliare principale – che invero già precedentemente erano stati individuati dalla colangiografia eseguita il 12 ottobre – e l’eventuale migrazione di altri calcoli durante le manovre della colecistectomia, e fu eseguita una Rx Colangiografia attraverso il sondino naso biliare, esame che evidenziò una dislocazione del sondino nel duodeno.

Come rilevato dal consulente, la descrizione abbastanza analitica dell’atto operatorio dà conto di tutte le fasi in cui esso si articolò e nella sua esecuzione non sono da rilevare errori o omissioni.

Il decorso post operatorio fu regolare, con asportazione del sondino, assenza di febbre e rialimentazione per bocca con dieta liquida.

L’esame istologico eseguito sulla colecisti asportata chirurgicamente confermò la diagnosi clinica di colecistite litiasica con fenomeni di acuzie.

Il 21 ottobre, come pure previsto prima dell’intervento chirurgico, si decise di eseguire una colangiografia retrograda endoscopica per la definitiva eliminazione dei calcoli residui del coledoco.

Dall’esame però fu evidenziato che vi era uno stop completo a livello del terzo distale della via biliare principale e mancata visualizzazione delle vie biliari a monte.

Al termine della procedura endoscopica, sospettando una lesione iatrogena della via biliare principale, il S. fu sottoposto ad intervento chirurgico in laparotomia che evidenziò al livello dei II medio del peduncolo epatico, una struttura canalare su cui erano applicate n. 3 clips metalliche che, per sede, sembrava corrispondere all’epatocoledoco. L’atto tecnico si sostanziò dunque nella riparazione della “lesione iatrogena dell’epatocoledoco” e fu seguito dal monitoraggio del paziente presso il centro di Rianimazione e Terapia Intensiva del medesimo istituto sino al giorno successivo all’intervento, quando il S. fu riportato presso l’Unità Operativa di Chirurgia e lì seguito con esami strumentali e di laboratorio.

Il 3 novembre, ossia in quindicesima giornata postoperatoria, all’improvviso l’attore presentò shock emorragico con rapida e massiva fuoriuscita di sangue dal tubo di drenaggio addominale in posizione sottoepatica. Immediatamente riportato in sala operatoria, fu sottoposto a laparotomia esplorativa, nel corso della quale si evidenziò una emorragia arteriosa in atto a livello del peduncolo epatico (verosimilmente riconducibile ad un ramo dell’arteria epatica destra) coperto dall’ansa digiunale impiegata per l’anastomosi biliodigestiva, verosimilmente dovuta all’azione di pressione del drenaggio applicato nel corso del precedente intervento.

Dopo l’intervento l’attore fu nuovamente trasferito nel reparto di Terapia Intensiva per il monitoraggio postoperatorio. Il decorso postoperatorio in Terapia Intensiva fu caratterizzato dalla comparsa di una fistola biliare dimostrata dalla transitoria fuoriuscita di bile dal drenaggio tubulare sottoepatico risoltasi spontaneamente dopo qualche giorno.

Per il ripresentarsi di episodi febbrili il 17 novembre fu sottoposto ad Rx Torace che evidenziò recidiva di versamento pleurico destro di grado moderato per cui il giorno successivo veniva sottoposto a toracentesi destra con evacuazione di 600 cc circa di liquido pleurico. Due Rx Torace effettuati il 18 e il 19/11/04 dimostrarono la riduzione del versamento pleurico destro, ma con persistenza di una discreta quota di versamento. Per tale motivo il paziente fu sottoposto il due giorni dopo a TC torace che evidenziò pneumotorace destro verosimilmente da ricondursi alla precedente toracentesi destra effettuata nei giorni precedenti, con modesto versamento pleurico. Per questo fu sottoposto a svuotamento del pneumotorace destro con immediata e pressochè completa riespansione del polmone destro. Due giorni dopo, per la ricomparsa di pneumotorace destro, fu sottoposto a drenaggio pleurico destro con definitiva riespansione del polmone.

L’attore fu dimesso il 29 novembre, richiamandosi nella diagnosi definitiva un “ittero ostruttivo da calcolosi del coledoco”, una “colecistite lisiatica”, una “lesione iatrogena dell’epatocoledoco”, una “emorragia postoperatoria”, un “versamento pleurico destro” ed un “pneumotorace destro iatrogeno”, oltre ad ipertensione arteriosa.

Così descritta la lunga degenza del S., l’unico condotta imperita da addebitare ai sanitari che lo ebbero in cura presso l’Istituto convenuto è la lesione iatrogena dell’epatocoledoco prodottasi nel corso della videolaparocolesticectomia del 19 ottobre 2004, trattandosi di evento prevedibile ed evitabile, e che fu emendato con l’intervento chirurgico in laparotomia del 21 ottobre.

Tutte le altre complicanze hanno carattere di accidentalità e non possono ascriversi alla condotta dei sanitari.

Quantificando in termini percentuali il danno arrecato, nella determinazione del Danno Biologico Permanente, tale lesione può quantificarsi nella misura del 18 – 20%, oltre a 40 (quaranta) giorni di ITT e 190 giorni di ITP al 25%.

Ciò detto, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale del quale l’attore invoca il ristoro occorre avere riguardo alle tabelle elaborate nel 2009, cosi come aggiornate nel 2014, dall’Osservatorio per la Giustizia Civile del Tribunale di Milano, tenuto conto che laddove l’art. 3, co. 3 del D.L. 13 settembre 2012, a 158 coordinato con la L. n. 189 del 2012 (cd. Decreto Balduzzi) prescrive la liquidazione sulla base delle tabelle previste agli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni (D.L. n. 209 del 2005), deve ritenersi applicabile ad una situazione invalidante minimale o comunque contenuta nei limiti del 9%, mentre là dove vi sia una situazione invalidante maggiore tale criterio non può trovare applicazione, dovendosi comunque considerare il soggetto leso nella sua unica complessità biologica e esistenziale.

La Suprema Corte ha più volte sottolineato come le tabelle in uso presso il Tribunale di Milano risultino essere quelle statisticamente più collaudate e pertanto le più idonee ad essere assunte quale criterio generale per una valutazione che, con l’apporto dei necessari ed opportuni correttivi ai fini della c.d. personalizzazione del risto- ro, consenta di pervenire alla relativa determinazione in termini maggiormente congrui, sia sul piano dell’effettività del ristoro dei pregiudizio che di quello della relativa perequazione – nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi concreti – sul territorio nazionale (cfr. Cass., sentenza 14402/2011; Cass., sentenza n. 15760/2006).

Preso atto che le tabelle di Milano sono andate nel tempo assumendo e palesando una “vocazione nazionale”, in quanto recanti i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre) – al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali – ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini di violazione dell’art. 3 Cost., comma 2, la Suprema Corte è pervenuta a ritenere le tabelle in questione valido criterio di riferimento ai fini della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. (Cass., sentenza n. 12408/2011).

Le summenzionate tabelle sono state redatte nel pieno rispetto dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nel 2008, con le quali è stata riconosciuto il carattere monolitico alla figura del danno non patrimoniale.

In ossequio a tale autorevole dictum giurisprudenziale, l’osservatorio ha rilevato l’esigenza di una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale biologico e di ogni altro danno non patrimoniale connesso alla lesione della salute, proponendo quindi la liquidazione congiunta:

– del danno non patrimoniale conseguente a “lesione permanente dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico – legale”, sia nei suoi risvolti anatomo – funzionali e relazionali, medi ovvero peculiari;

– del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di dolore o sofferenza soggettiva, in via di presunzione con riferimento ad un dato tipo di lesione.

In sintesi, in base alle suesposte indicazioni occorre procedere alla liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di danno biologico “standard” e di danno morale.

Tenuto conto delle risultanze della perizia e valutata l’incidenza della lesione procurata sulle comuni attività quotidiane del S., docente di scuola nonché marito e padre, si ritiene di poter liquidare il danno in misura pari al 20% nella misura di Euro 80.000,00 includendo la personalizzazione per l’indubbia incidenza invalidante del danno sofferto.

Quanto all’invalidità temporanea, in base agli stessi principi enucleati nelle sentenze sopra richiamate occorre procedere alla liquidazione congiunta dell’intero danno non patrimoniale “temporaneo” derivante dalla lesione della salute.

Anche in questo caso è quindi necessario fare riferimento ai parametri individuati dall’Osservatorio per la Giustizia Civile di Milano, che in ossequio a detta esigenza (nonché a quella di consentire l’adeguamento del risarcimento alle caratteristiche del caso concreto) ha elaborato una forbice di valori monetari “onnicomprensivi” (da Euro 96,00 ad Euro 145,00) .

Appare equo adottare come base di calcolo la somma di Euro 100,00 atteso che il paziente ha sì subito una lunga degenza, ma la stessa è stata perlopiù causata, per un verso, dalla patologia sofferta, e, per altro, da fattori accidentali .

Ciò posto, il danno da invalidità temporanea deve essere liquidato come segue:

40 gg. x Euro 100,00 – Euro 4.000,00 (invalidità temporanea totale);

190 gg. X Euro 25,00 – Euro 4.750,00 (invalidità temporanea parziale calcolata al 50%).

Nulla va riconosciuto a titolo di danno patrimoniale mancando la prova del fatto che le eventuali spese sostenute ed i mancati guadagni siano conseguenza immediata e diretta dell’errore medico indicato.

Sommando i tre importi liquidati a titolo di danno non patrimoniale “permanente” e “temporaneo” si perviene alla somma complessiva, già rivalutata in applicazione delle Tabelle 2014, di Euro 88.750,00.

Alla complessiva somma liquidata in conto capitale deve essere, inoltre, aggiunto, a titolo di risarcimento del danno da lucro cessante un ulteriore importo, per il mancato godimento della stessa.

Quanto al calcolo degli interessi compensativi, appare congruo applicare il criterio messo a punto nella nota sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite 17.2.1995 n. 1712, secondo il quale gli interessi sui debiti di valore vanno calcolati sulla somma corrispondente al valore della somma al momento dell’illecito, via via rivalutata anno per anno sulla base dei citati indici ISTAT.

In applicazione di tale criterio, al fine del calcolo degli interessi, la somma capitale come sopra determinata deve essere devalutata dalla data della pubblicazione della sentenza alla data dell’illecito (ottobre 2004), e sulla somma così ottenuta, progressivamente rivalutata anno per anno in base agli indici ISTAT fino alla data della pubblicazione della sentenza, devono calcolarsi gli interessi al tasso legale.

Sull’intera somma liquidata per sorte capitale e lucro cessante decorrono gli interessi legali dal giorno della pubblicazione della sentenza al saldo ex art. 1282 c.c.

La domanda attorea va, dunque, definitivamente accolta nei termini indicati con condanna del convenuto al pagamento in favore del S. della somma complessiva di Euro 88.750,00, oltre interessi così come sopra indicati.

Le spese, compresi gli oneri di c.t.u., seguono la soccombenza, sicché vanno poste in capo al convenuto e liquidate in dispositivo secondo il criterio di cui al D.M. n. 55 del 2014, applicabile alla fattispecie in ossequio a quanto statuito da Cass. SS.UU. 12 ottobre 2012 n. 17405.

In relazione all’effettivo valore e alla complessità della controversia, al numero, all’importanza e complessità delle questioni trattate, la liquidazione è misurata sui compensi medi.

P.Q.M.

il Giudice del Tribunale di Bari – articolazione stralcio di Rutigliano, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta con atto di citazione notificato il 25 febbraio 2008 da S.S. nei confronti dell’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico “S.D.B.”, in persona del legale rappresentante p.t., ogni contraria istanza ed eccezione disattesa, così provvede:

1. accoglie, per quanto di ragione, la domanda proposta dal S. e per l’effetto condanna l’Istituto convenuto al pagamento in favore dell’attore della somma di Euro 88.750,00 oltre interessi calcolati secondo quando indicato in parte motiva;

2. condanna il medesimo convenuto al pagamento in favore dell’attore delle spese processuali, che si liquidano in complessivi Euro 13.430,00 oltre Euro 2.014,50 per spese generali, Euro 834,42 per esborsi, C.P.A. ed I.V.A. come per legge;

3. pone definitivamente le spese della consulenza tecnica d’ufficio già liquidate con decreto del 28 giugno – 12 luglio 2011 a carico del convenuto con obbligo di rimborso in favore della controparte di quanto a tale titolo eventualmente già versato al consulente.

Così deciso in Rutigliano, il 5 luglio 2016.

Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2016.