il termine quinquennale di prescrizione dell’azione disciplinare nei confronti dei sanitari non decorre nel caso in cui sia iniziato, a carico dell’incolpato, un procedimento penale, e tale effetto interruttivo permane per tutto il tempo in cui il procedimento penale abbia corso.

Diversamente opinando, difatti, da un canto, considerati i tempi del procedimento penale, l’azione disciplinare sarebbe il più delle volte già prescritta prima ancora della sua materiale proposizione, e, dall’altro, la norma di cui al D.P.R. n. 221/1950, art. 44, risulterebbe del tutto inapplicabile, poiché essa impone all’organo amministrativo di attendere l’esito e le valutazioni del Giudice penale, così subordinando l’azione disciplinare alla conclusione del procedimento penale.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione confermava l’applicazione della sanzione disciplinare consistente nella radiazione dalla professione come conseguenza del grave reato commesso.  Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net

Cassazione Civile – Sez. III, Sent. n. 10517del 07.05.2009

Svolgimento del processo

In data 16 giugno 1995 il Consiglio direttivo dell’ Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri di X. ha deliberato la sospensione del dott. T.L. – detenuto per i reati di cui agli artt. 81, 110 e 317 c.p.c., – dall’esercizio della professione con provvedimento revocato il successivo X. contestualmente alla apertura e sospensione – in attesa dell’esito del procedimento penale a carico dello stesso – del procedimento disciplinare.

Successivamente, con sentenza 11 giugno 2002, divenuta irrevocabile il 21 gennaio 2005, il tribunale penale di Lecce ha condannato il T. alla pena della reclusione per cinque anni e dieci mesi, nonché alla pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici e alla interdizione legale durante la pena per i reati di cui agli artt. 81, 110 e 317 c.p.c., concussione in concorso continuata perché nella sua qualità di componente della Commissione medica periferica, operando per il tramite e con la intermediazione di certo A. (infermiere ospedaliere) aveva chiesto somme di danaro ai pazienti che avevano presentato istanza per il riconoscimento della invalidità, promettendo il buon esito della pratica stessa.

Preso atto di quanto sopra, il Consiglio direttivo dell’ordine ha deliberato in data 2 luglio 2005 la sospensione del T. dall’esercizio della professione, e, quindi, riaperto il procedimento disciplinare, con decisione 19 settembre 2005, ha ritenuto lo stesso responsabile della infrazione contestatagli e lo ha condannato alla sanzione disciplinare della radiazione dalla professione, in applicazione del D.P.R. 5 aprile 1950, n. 221, art. 41.

Gravato tale provvedimento dal T., la Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, con sentenza 12 novembre 2007 – 1 aprile 2008 ha rigettato il ricorso.

Per la cassazione di tale ultima decisione ha proposto ricorso, con atto 17 giugno 2008, T.L., affidato a 3^ motivi e illustrato da memoria.

Resiste, con controricorso illustrato da memoria, l’Ordine dei medici di X..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui questa ha affermato essere infondato l’assunto secondo cui la determinazione della Commissione di disciplina non sarebbe stata preceduta dalla verifica della legittimità della seduta.

Denunzia, in particolare, il ricorrente “violazione e falsa applicazione dei principi dettati in materia di nullità e segnatamente di nullità delle sentenze dagli artt. 157, 161 c.p.c. e art. 214 bis c.p.c., u.c., con riferimento alla costituzione e composizione della Commissione di Disciplina e all’accertamento della sua regolarità – Omessa o quanto meno insufficiente motivazione in ordine al punto costituito dalla insussistenza d’una qualunque individuazione o anche mera indicazione della sua composizione, dalla non individuabilità dei suoi componenti attraverso l’esame del documento recante il provvedimento adottato e proponente solo le firme illeggibili dei presenti e dal mancato controllo della sussistenza d’una qualsiasi formale traccia di invito agli assenti a partecipare alla seduta e alla deliberazione (art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5)”.

Si osserva, infatti, che con il ricorso avverso la determinazione della Commissione di Disciplina dell’Ordine di Lecce la difesa del ricorrente aveva sottolineato la mancata verifica da parte della Commissione stessa delle circostanze relative alla propria costituzione, non accompagnata nè seguita, e comunque non corredata minimamente, se non a mezzo di equivoche clausole di mero stile, da alcuno degli adempimenti, che nel quotidiano inducono l’interessato ad acquietarsi in ordine quantomeno alla regolare costituzione del giudice.

Ed aveva anche osservato come la ridotta partecipazione dei componenti della Commissione, e quindi l’acquisizione non già della unanimità dei loro consensi ma di una, per di più non individuata, maggioranza (dei pollici-verso sui pollici-recto) raggiunta dal Collegio nella votazione sulla determinazione successivamente adottata dovesse ritenersi di per sè sola capace di suscitare, in una situazione delicata e grave come quella prevedibilmente destinata a concludersi con una pronuncia ostracizzante, quanto meno qualche perplessità in ordine alla correttezza delle operazioni procedimentali e, in relazione alle stesse, provocare e far risultare la indicazione almeno, se non la prova documentale, di un disposto ed effettuato controllo della regolarità della costituzione.

Ai sensi dell’art. 366 – bis c.p.c., il ricorrente formula, in relazione al riassunto motivo di censura, i seguenti quesiti di diritto:

– se il giudice ordinario o speciale, e più in generale, l’Autorità preposta, come la CCEPS, alla soluzione in contenzioso di problemi come quelli attinenti l’iscrizione d’un professionista in un Albo e la sua radiazione, possa condizionare l’accertamento della propria regolare costituzione alla proposizione di formale apposita istanza dell’interessato e non debba invece provvedere d’ufficio e indipendentemente da una qualsiasi istanza della parte;

– se l’istanza dell’interessato, ove ritenuta imprescindibile, possa ritenersi ricevibile ed ammissibile solo se proposta in limine e comunque prima che una qualsiasi decisione sia stata adottata nel merito;

– se l’omessa individuazione dei componenti presenti (e quindi di quelli assenti) da parte del provvedimento adottato e l’assoluta loro inindividuabilità attraverso il suo esame possano ritenersi incapaci di determinare la nullità della determinazione giudiziale J adottata o, quanto meno, la necessità d’un accertamento della costituzione del collegio.

2. Il motivo, per alcuni aspetti inammissibile, per altri manifestamente infondato non può trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

2.1. In primis si osserva che la Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie ha rigettato il primo motivo del ricorso proposto dal T. – quanto alla mancata verifica della legittimità della seduta della Commissione di disciplina nel corso della quale è stata disposta a carico del T. la sanzione disciplinare della radiazione dall’albo professionale – sulla base di molteplici, autonome, rationes decidendi, ognuna sufficiente, ex se, a sorreggere il suo dictum.

Ha affermato, infatti, la Commissione:

– da un lato, che “il ricorrente non produce prove alcune in merito alla asserita mancata verifica della regolare costituzione della commissione … ovvero circa la ipotizzata mancata convocazione di alcuni suoi componenti assenti ..” (prima ratio decidendi);

– dall’altro, che l’interessato “non ha eccepito in limine del procedimento .. siffatta eccezione, svolgendola per la prima volta nel ricorso innanzi a questa Commissione (seconda ratio decidendi);

– da ultimo che “è infondata la presunta violazione del giusto procedimento e del diritto di difesa, in quanto la commissione di disciplina non è da considerarsi un collegio perfetto …” (terza ratio decidendi).

Pacifico quanto precede si osserva che parte ricorrente censura unicamente la seconda e la terza, delle sopra ricordate rationes decidendi e ciò importa – alla luce di quanto assolutamente pacifico presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice – la inammissibilità del motivo.

Deve ribadirsi, infatti che ove una sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario – per giungere alla cassazione della pronunzia – non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo stesso della impugnazione.

Questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza in toto, o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano.

È sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perchè il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni (In tale senso, ad esempio, tra le tantissime, Cass. 5 marzo 2007, n. 5051; Cass. 11 gennaio 2007, n. 389; Cass. 18 settembre 2006, n. 20118; Cass. 24 maggio 2006, n. 12372).

2.2. Per completezza di esposizione, comunque, si osserva che la deduzione in esame oltre che inammissibile alla luce delle considerazioni svolte sopra è anche, manifestamente infondata.

Almeno sotto due, concorrenti, profili.

2.2.1. Sotto un primo profilo si osserva – contrariamente a quanto – del tutto apoditticamente – invoca la difesa del ricorrente, che il procedimento disciplinare, nei confronti dei sanitari, che si svolge innanzi all’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri locali ha – diversamente a quello innanzi alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie – natura amministrativa (cfr. Cass. 16 gennaio 2007, n. 835; Cass. 15 gennaio 2007, n. 636; Cass. 2 marzo 2006, n. 4657).

Deriva da quanto precede, pertanto, che sono inapplicabili al procedimento de quo, le disposizioni dettate dal codice di rito con riguardo ai procedimenti che si svolgono innanzi a organi giurisdizionali.

Trattandosi di procedimenti che si svolgono innanzi all’autorità amministrativi e si concludono, pertanto, con un provvedimento amministrativo, tutti gli atti compiuti nel corso del procedimento, in assenza di specifica contestazione – da parte del soggetto interessato – devono ritenersi posti in essere nel rispetto delle regole che disciplinano il procedimento (cfr. Cass. 29 novembre 2007, n. 24930).

Tali atti – in particolare – sono assistiti dalla presunzione di legittimità propria di tutti gli atti amministrativi, che può venir meno solo di fronte a contestazioni precise e puntuali che individuino il vizio da cui l’atto in considerazione sarebbe affetto e offrano contestualmente di provarne il fondamento (cfr. Cass. 15 ottobre 2007, n. 21540).

In altri termini sussistendo, nei confronti degli atti amministrativi la presunzione della loro legittimità, questa non può essere messa in discussione in sede giudiziaria, ove, in precedenza, non sia sorta alcuna contestazione al riguardo (cfr. Cass. 25 maggio 2007, n. 12264).

2.2.2. In secondo luogo, anche a prescindere da quanto precede, si osserva che le verifica della rituale convocazione del Consiglio dell’ordine per la seduta del 19 settembre 2005 doveva risultare e, in effetti, risulta, come da produzioni, già nel giudizio innanzi alla Commissione centrale, della parte odierna controricorrente dal “verbale della seduta del 19 settembre 2005”, autonomo, sia rispetto al provvedimento sanzionatorio adottato, nel corso di tale seduta, a carico del T., sia – ancora – rispetto a “il foglio consegnato al termine della seduta” all’interessato, contenente unicamente un estratto sommario del verbale della seduta.

E’ palese, pertanto, che la eventuale violazione – da parte del Consiglio dell’ordine – delle norme sulla convocazione della Commissione di disciplina e sulla sua costituzione doveva essere denunziata alla luce delle risultanze di tale “verbale” eventualmente impugnate con querela di falso ove attestanti circostanze non vere e non – come è avvenuto – in termini assolutamente generici e apodittici sulla base di “documenti” (il provvedimento sanzionatorio e l’estratto del verbale) dai quali nulla emerge – in concreto – circa le modalità con cui si è svolta la più volte ricordata seduta del 19 settembre 2005. 3. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia “violazione e falsa applicazione dei principi e delle regole dettate dal sistema in tema di prescrizione e, particolarmente, di interruzione e sospensione della prescrizione nonché di durata massima della medesima e segnatamente violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 221 del 1950, art. 51, alla luce e nella considerazione dei principi dettati nella materia (tra gli altri) dagli artt. 2935 e 2945 c.c., art. 160 c.p., art. 75 c.p.p., con riferimento alla ritenuta decorrenza del termine quinquennale previsto dall’art. 51 del D.P.R. per il procedimento disciplinare dal passaggio in giudicato della sentenza e non dal promuovimento dell’azione penale (comunque individuato) – Difetto di motivazione sul punto della controversia costituito dalla totale omissione, da parte della Commissione di Disciplina, delle iniziative sanzionatorie a lei proprie consentitele, ed anzi, secondo le circostanze, imposte dalla autonomia d’azione prevista dal novellato art. 75 c.p.p. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”.

Si assume, infatti, che – stante il tempo trascorso tra l’epoca dei fatti commessi e accertati in esito al giudizio penale e la data in cui si è svolto il procedimento penale conclusosi con il provvedimento impugnato era decorso il termine di prescrizione di 5 anni di cui al D.P.R. n. 221 del 1950, art. 51.

In ordine al secondo motivo sono proposti – a norma dell’art. 366 – bis c.p.c., – i seguenti quesiti:

– 1. se il promuovimento dell’azione penale per gli stessi fatti peri quali sia stato promosso, o venga successivamente promosso, il procedimento disciplinare determini interruzione della prescrizione propria della azione disciplinare con effetti permanenti e per la intera durata del procedimento penale ovvero con effetti istantanei e quindi determinando la decorrenza, dallo stesso promuovimento, se successivo, di ulteriore termine di prescrizione ex art. 51 Ce restando ininfluente, ai fini della prescrizione dell’azione disciplinare, ove questa segua a quella penale);

– 2. se possa ritenersi ininfluente, ai fini della verifica della legittimità d’una sospensione sine die del procedimento disciplinare, l’autonomia prevista tra azione amministrativa e azione penale e la riconosciuta ammissibilità, per il Giudice disciplinare, non solo di separate iniziative, ma anche dei poteri d’indagine e d’accertamento più estesi;

– 3. se, del pari ai fini della verifica della legittimità della ipotizzabile sospensione sine die del procedimento disciplinare, possa ritenersi ininfluente il contrasto che la norma presupposta proporrebbe nei confronti del potere – dovere civico e sociale di rendere la prestazione lavorativa cui si sia ritenuti capaci.

4. Il motivo è manifestamente infondato.

Prevede il D.P.R. 5 aprile 1950, n. 221, art. 44, che “fuori dei casi di radiazione, previsti dall’art. 42, il sanitario a carico del quale abbia avuto luogo procedimento penale è sottoposto a giudizio disciplinare per il medesimo fatto imputatogli, purchè egli non sia stato prosciolto per la non sussistenza del fatto o per non averlo commesso”.

“E’ altresì sottoposto a procedimento disciplinare, indipendentemente dalla sospensione di cui all’articolo precedente, il sanitario a carico del quale siano state applicate una misura di sicurezza o il confino di polizia o l’ammonizione”.

Il successivo art. 51 dello stesso testo normativo statuisce, ancora, che “l’azione disciplinare si prescrive in cinque anni”.

Osserva questa Corte – ribadendo una consolidata propria giurisprudenza – che il termine quinquennale di prescrizione dell’azione disciplinare nei confronti dei sanitari non decorre nel caso in cui sia iniziato, a carico dell’incolpato, un procedimento penale, e tale effetto interruttivo permane per tutto il tempo in cui il procedimento penale abbia corso.

Diversamente opinando, difatti, da un canto, considerati i tempi del procedimento penale, l’azione disciplinare sarebbe il più delle volte già prescritta prima ancora della sua materiale proposizione, e, dall’altro, la norma di cui al D.P.R. n. 221 cit., art. 44, risulterebbe del tutto inapplicabile, poichè essa impone, in concreto, all’organo amministrativo di attendere l’esito e le valutazioni del Giudice penale, così subordinando l’azione disciplinare alla conclusione del procedimento penale (Cass. 2 marzo 2006, n. 4658; Cass. 15 novembre 2000, n. 14811).

L’obbligo dell’organo disciplinare di attendere l’esito e le valutazioni del giudice penale, nonché la subordinazione dell’esercizio dell’azione disciplinare alla conclusione del procedimento penale – ovviamente – si riferiscono naturalmente all’ipotesi che sia stata promossa l’azione penale, prima che sia già decorso dall’evento il termine quinquennale di prescrizione, in quanto, costituendo il procedimento penale atto interruttivo della prescrizione, ove essa sia già maturata al momento in cui sorge tale atto, nessuna interruzione della prescrizione può più realizzarsi (Cass. 2 marzo 2006, n. 4658, cit.).

Certo che nella specie il procedimento penale a carico del T. è stato promosso anteriormente al decorso del quinquennio in questione è palese che correttamente la Commissione centrale ha escluso la prescrizione dell’azione disciplinare.

Poichè, come accennato, nell’ipotesi in cui vi sia stata l’interruzione della prescrizione per effetto del procedimento penale essa ha effetto permanente fino all’esito del procedimento stesso, il nuovo termine prescrizionale quinquennale decorre dalla data in cui la sentenza penale è divenuta definitiva (Cass. 2 marzo 2006, n. 4658, cit.) e poiché nella specie la sentenza penale è divenuta definitiva il 21 gennaio 2005 è palese – anche sotto tale profilo – che alla data in cui è stata disposta la sanzione disciplinare di cui si discute (19 settembre 2005) il termine prescrizionale dell’azione disciplinare non era decorso.

Specie nel corso dell’udienza di discussione il difensore di parte ricorrente ha sottolineato che erroneamente nella specie è stato fatto riferimento – dalla decisione impugnata – alla norma sopravvenuta di cui alla L. 27 marzo 2001, n. 97 che, in tema di “efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare”, ha inserito (con l’art. 1), nell’art. 653 c.p. il comma I-bis secondo cui “la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso”.

Si assume, infatti, che la disposizione della L. 27 marzo 2001, n. 97, siccome successiva ai fatti per cui è controversia – il procedimento disciplinare è stato promosso a carico del T. nel X. e nell’anno X. sospeso in attesa dalla definizione del processo penale, per gli stessi fatti, già instaurato contro lo stesso T. – non può trovare applicazione retroattiva.

L’assunto è manifestamente infondato, attesa – a tacer d’altro – quanto al regime transitorio della norma sopravvenuta, la non equivoca formulazione della stessa L. n. 97 del 2001, art. 10, comma 1, da cui totalmente prescindono le argomentazioni svolte dalla difesa del ricorrente: “le disposizioni della presente legge si applicano ai procedimenti penali, ai giudizi civili e amministrativi e ai procedimenti disciplinari in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa”.

Certo che alla data di entrata in vigore della legge n. 97 del 2001 erano in corso – a carico del T. – sia il procedimento penale, sia il procedimento disciplinare (ancorchè quest’ultimo fosse sospeso in attesa della definizione del primo) è palese – anche sotto tale profilo – che correttamente la sentenza impugnata ha escluso la intervenuta prescrizione della azione disciplinare.

5. Con il terzo, e ultimo motivo il ricorrente denunzia la sentenza impugnata lamentando “violazione e falsa applicazione dei principi e delle regole dettate in tema di motivazione delle sentenze e, più in generale, delle decisioni adottate dall’Autorità, soprattutto se di natura giurisdizionale e, segnatamente, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 221 del 1950, art. 41, con riferimento alla sostanziale applicazione, del soppresso successivo art. 42 del D.P.R. realizzata dalla Commissione con la immotivata applicazione della radiazione in relazione consequenziale solo alla intervenuta condanna per concussione ambientale. Difetto assoluto di motivazione sul punto della insussistenza,nella decisione della Commissione Disciplinare d’una qualunque motivazione e, comunque, per quel che fosse occorso, di una qualsiasi valutazione delle circostanze, sottolineate dal ricorrente col ricorso alla Commissione Centrale, tutte pur integranti una serie di non preteribili elementi di valutazione che la Commissione Disciplinare non avrebbe dovuto mancare di tener presenti (art. 360 c.p.c., n. 3 e 5)” Formula il ricorrente, ai sensi dell’art. 366 – bis c.p.c., il secondo quesito: se possa ritenersi effettivamente motivata una decisione di radiazione all’albo dei Medici adottata, per di più del D.P.R. n. 221 del 1950, ex art. 41, con riferimento soltanto ad intervenuta condanna ex artt. 81, 110 e 317. 6. Il motivo, per alcuni aspetti inammissibile, per altri manifestamente infondato, non può trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

6. 1. Contrariamente a quanto assume la difesa della parte controricorrente deve escludersi la inammissibilità della censura sopra riassunta sotto il profilo che il ricorso ex art. 111 Cost., è inammissibile per carenza, o, comunque, vizi di motivazione.

Si osserva, infatti, che successivamente alle numerose pronunce di questa Corte regolatrice ricordate in controricorso è sopravvenuto il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, che – all’art. 2 – nel sostituire con una nuova formulazione l’art. 360 c.p.c., ha previsto, espressamente, all’ultimo comma di quest’ultima disposizione, che “le disposizioni di cui al primo comma quanto ai motivi di ricorso per cassazione … si applicano alle sentenze e ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge”.

A seguito della disposizione sopravvenuta, pertanto salvo che per quanto riguarda le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, avverso le quali il ricorso per cassazione è ammesso “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione” giusta la espressa disposizione dell’art. 111 Cost., u.c., non derogabile, quindi, dal legislatore ordinario tutti i provvedimenti per i quali è consentito – ex art. 111 Cost., comma 7, – il ricorso per cassazione possono essere impugnati non solo “per violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3” come nel passato, ma per tutti i motivi per i quali il novellato art. 360 c.p.c., consente la proposizione del ricorso per cassazione.

6.2. Pur se ammissibile sotto il profilo di cui sopra – il ricorso è stato proposto per impugnare una decisione pubblicata il 1 aprile 2008 si che devono trovare applicazione le disposizioni transitorie contenute nell’art. 27, comma 2, del ricordato D.Lgs. n. 40 del 2006, – il motivo, comunque, è inammissibile sotto altro profilo.

Il motivo – in particolare – deve essere dichiarato inammissibile, nella parte in cui denunzia la sentenza impugnata sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per violazione dell’art. 366 – bis c.p.c..

Prevede tale ultima disposizione (art. 366 – bis c.p.c.) – per quanto rilevante a questo punto della esposizione, che nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Pacifico in diritto quanto sopra osserva il collegio che il ricorrente non ha adempiuto all’onere previsto dal ricordato art. 366 – bis c.p.c., e, che, pertanto, il proposto ricorso deve essere dichiarato inammissibile anche sotto il profilo in questione.

Come si ricava dalla stessa letterale formulazione dell’art. 366 – bis c.p.c., e come – del resto – precisa una giurisprudenza consolidata di questa Corte regolatrice, la chiara indicazione del fatto controverso voluta dal più volte ricordato art. 366 bis c.p.c., richiede che:

– allorché nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito a un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto, ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente – imposto dall’art. 366 – bis c.p.c., – deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo e che consenta al giudice di valutare immediatamente la ammissibilità del ricorso (in termini, ad esempio, Cass. 7 aprile 2008, n. 8897);

– qualora si denunzi, con ricorso per cassazione, la sentenza impugnata per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, la illustrazione di ciascun motivo deve contenere – a pena di inammissibilità – un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto, nella eventualità il motivo sia proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass. sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603);

– il requisito previsto dall’art. 366 – bis c.p.c., nella eventualità motivo sia dedotto sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e non riassuntivamente destinata, di modo che non è possibile ritenerlo rispettato allorchè solo la completata lettura della complessiva illustrazione del motivo rilevi, all’esito di una attività di interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da parte del ricorrente, deputata all’osservanza del requisito del citato art. 366 – bis che il motivo stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria o insufficiente la motivazione e si indichino quali sono le ragioni per cui la motivazione è conseguentemente inidonea a sorreggere la decisione (Cass. 18 luglio 2007 n. 16002).

Pacifico, in diritto, quanto precede è palese come anticipato, la inammissibilità del ricorso ora in esame, essendo nella specie assente la indicazione de qua.

La norma positiva richiede – infatti – espressamente che ogni motivo del ricorso per cassazione contenga:

– da un lato, la rubrica del motivo stesso, con la puntuale indicazione della ragione per cui il ricorso è proposto (cioè – stante la tassatività dei motivi del ricorso per cassazione – il motivo tra quelli espressamente previsti dall’art. 360 c.p.c., alla luce del quale il motivo è proposto);

– dall’altro, la illustrazione del motivo (cioè, la esposizione degli argomenti invocati dalla sentenza impugnata per giungere a una certa criticata conclusione, e la analitica precisazione delle considerazioni in relazione al motivo espressamente indicato nella rubrica che giustificano – almeno a parere della parte ricorrente – la cassazione della sentenza dei giudici del merito;

– da ultimo, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, infine, un momento di sintesi contenente la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Certo che nella specie fa totalmente difetto detta ultima parte, è evidente, come anticipato, la inammissibilità del ricorso (sotto il profilo in esame).

6.3. Quanto, da ultimo, alla “violazione e falsa applicazione dei principi e delle regole dettate in tema di motivazione delle sentenze”, per non avere, né il collegio locale, né la Commissione centrale motivato il provvedimento sanzionatorio adottato, essendosi limitati a fare acritico riferimento alla sentenza penale di condanna, la deduzione è manifestamente infondata.

I giudici del merito, infatti, dopo avere accertato – sulla base della sentenza penale di condanna (avente, nel giudizio per responsabilità disciplinare, a norma dell’art. 653 c.p.p., comma 1 bis, efficacia di giudicato) – che il T. ha posto in essere la condotta per la quale è stato penalmente e disciplinarmente perseguito, e che tale condotta integra un illecito penale, ha autonomamente valutato tale condotta ai fini della responsabilità disciplinare, giungendo alla conclusione che nella specie “si ritiene congrua e corretta l’applicazione della sanzione della radiazione de quo”.

Al riguardo i giudici di secondo grado hanno evidenziato, in particolare, da un lato, la rilevante gravità dei fatti contestati, dall’altro, che il T. è stato condannato alla pena della reclusione per cinque anni e dieci mesi per il reato di concussione (delitto che prevede come pena edittale la reclusione da quattro a dodici anni), uno tra i reati più gravi contro la Pubblica Amministrazione, da ultimo, che lo stesso T. ha riportato, tra le pene accessorie, la interdizione perpetua dai pubblici uffici e che tali elementi fanno ritenere congrua l’applicazione della sanzione disciplinare della radiazione.

È palese, per l’effetto, concludendo sul punto, che – contrariamente a quanto del tutto apoditticamente invocato in ricorso – la pronunzia della Commissione centrale contiene una adeguata, e logica (nonché giuridicamente corretta), motivazione in punto sanzione in concreto applicata a carico del T., si che non è configurabile alcuna violazione, da parte della Commissione centrale, del disposto di cui al D.P.R. 5 aprile 1950, n. 221, art. 41. 7.

Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso, in conclusione, deve rigettarsi con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte:

Rigetta il ricorso;

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 100,00, oltre Euro 9.000,00, per onorari, e oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 aprile 2009.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2009