La c.d. liberalizzazione della pubblicità (ex decreto Bersani 2006) non ha effetto sul tipo di propaganda che i professionisti possono fare; di conseguenza i Consigli degli Ordini possono ancora intervenire, nel caso, con l’irrogazione di sanzioni disciplinari.

I giudici di legittimità, in sostanza, pur riconoscendo il fatto che la legge Bersani ha abrogato le disposizioni legislative che prevedevano il divieto di svolgere pubblicità informativa (per le attività libero – professionali) ha, altresì, sottolineato che, nella fattispecie, quello che veniva contestato agli avvocati erano le modalità ed il contenuto della pubblicità posta in essere e giudicata troppo suggestiva.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 26 ottobre – 18 novembre 2010, n. 23287

(Presidente Vittoria – Relatore Segreto)

Svolgimento del processo

Motivi della decisione

1. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.

Va, quindi, esaminato il ricorso proposto dall’avv. C. Massimo C..

Questi con il primo motivo di ricorso lamenta la violazione dell’art. 38 l. prof., e , quindi, l’incompetenza territoriale del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Brescia (eccezione tempestivamente proposta), assumendo che erroneamente la decisione impugnata abbia ritenuto sussistente tale competenza per effetto della connessione del procedimento a carico del C. con quello a carico della P., non operando tale figura nel procedimento disciplinare.

A tal fine il ricorrente si riporta ad una decisione del 1996 del CNF, in contrasto con quella del 2001 richiamata nel provvedimento impugnato.

2. Il motivo è fondato.

Osserva preliminarmente questa Corte che nella giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense vi è contrasto sull’applicabilità della connessione da cumulo soggettivo (nell’ipotesi che si proceda contro due o più iscritti all’ordine) ai fini della determinazione della competenza territoriale.

Secondo un orientamento più risalente, fatto proprio dal ricorrente, la competenza territoriale disciplinare è determinata dal luogo dell’iscrizione dell’incolpato ovvero dal luogo in cui si sono verificati i fatti oggetto di incolpazione. Non sono invece applicabili ai procedimenti disciplinari né il principio della connessione oggettiva proprio del processo penale (perché non richiamato dalla normativa disciplinare), né le regole sulla competenza per ragioni di connessione previste nel processo civile, in quanto ogni procedimento disciplinare deve ritenersi autonomo rispetto a quello contro altri incolpati (Cons. Naz. Forense 06-11-1996, n. 151).

Secondo altro orientamento, fatto proprio dalla decisione impugnata, la competenza territoriale disciplinare è determinata dal luogo dell’iscrizione dell’incolpato, ovvero dal luogo in cui si sono verificati i fatti oggetto di incolpazione, secondo il principio della prevenzione, e la competenza è attribuita al C.d.O. che per primo abbia dato inizio al procedimento. Tale competenza può essere derogata, in caso di connessione di illeciti disciplinari consumati da più iscritti, sulla base dei principi in tema di cumulo soggettivo fissati dal codice di procedura civile (Cons. Naz. Forense 13-07-2001, n. 159).

3.1. Osserva preliminarmente questa Corte (riportandosi ad un principio già espresso, per quanto risalente, di queste S.U. – sent. 13/04/1981, n. 2176 -) che, data anche la natura amministrativa della fase procedimentale davanti al Consiglio dell’Ordine Locale, nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati e procuratori, si devono seguire, quanto alla procedura, le norme particolari che sono dettate dalla legge professionale per ogni singolo istituto ovvero, qualora manchino disposizioni specifiche si deve far ricorso alle norme del codice di procedura civile. Trovano applicazione le norme del codice di procedura penale invece, quando la legge professionale ne faccia espresso rinvio ovvero quando siano da applicare istituti, quali l’amnistia e l’indulto, che trovano la loro regolamentazione solo in detto codice.

3.2. L’art. 38 del r.d.l. n. 1578/1933 statuisce, per quanto qui interessa, che: “Salvo quanto è stabilito negli artt. 130, 131 e 132 del codice di procedura penale e salve le disposizioni relative alla polizia delle udienze, gli avvocati ed i procuratori che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale sono sottoposti a procedimento disciplinare.

La competenza a procedere disciplinarmente appartiene tanto al Consiglio dell’ordine che ha la custodia dell’albo in cui il professionista è iscritto, quanto al Consiglio nella giurisdizione del quale è avvenuto il fatto per cui si procede: ed è determinata, volta per volta, dalla prevenzione. Il Consiglio dell’ordine che ha la custodia dell’albo nel quale il professionista è iscritto è tenuto a dare esecuzione alla deliberazione dell’altro Consiglio”.

L’art. 1 del d.lgtcps. n. 597/1947 statuisce che “La competenza a procedere disciplinarmente in confronto dell’avvocato o del procuratore che è componente del Consiglio dell’ordine, appartiene al Consiglio costituito nella sede della Corte d’appello. Se egli appartiene a quest’ultimo, è giudicato dal Consiglio costituito nella sede della Corte d’appello più vicina”.

3.3. Ne consegue che la materia della competenza territoriale è delineata completamente da disposizioni specifiche interne al procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati.

Pertanto non è possibile procedere all’applicazione a questo procedimento di norme relative al processo civile, in tema di modifica della competenza per ragioni di connessione, ed a maggior ragione di norme del procedimento penale, in assenza di un qualunque rinvio operato dalle norme specifiche che trattano della competenza nel procedimento disciplinare contro un avvocato.

3.4. In ogni caso, a parte il suddetto principio dell’inapplicabilità nel procedimento disciplinare delle deroghe alla competenza territoriale per ragioni di connessione, va rilevato che nella fattispecie l’unica ipotesi di connessione, che potrebbe essere operante tra quelle previste dagli artt. 31 e segg. c.p.c. è quella di cui all’art. 33 attinente al cumulo soggettivo. Sennonché anche per la struttura interna alla stessa norma di cui all’art. 33 c.p.c. sulla competenza in caso di cumulo soggettivo, non si sarebbe mai potuta affermare la competenza del Consiglio dell’ordine di Brescia anche in relazione al procedimento instaurato contro l’avv. C. Massimo C., essendo tale competenza affermata nei confronti dell’avv. P., in quanto consigliere dell’Ordine degli avvocati di Milano, e quindi a norma dell’art. 1 del d.lgtcps. n. 597/1947.

Infatti la modificazione della competenza per territorio, nel caso di cumulo soggettivo di cause connesse per l’oggetto o per il titolo, incide, per espressa previsione normativa (art. 33 cod. proc. civ.), non suscettiva di interpretazione estensiva, soltanto sul foro generale delle persone fisiche o delle persone giuridiche (rispettivamente, art. 18 c.p.c. e art. 19 cod. proc. civ.), nel senso che consente l’attrazione soltanto a favore di uno dei suindicati fori generali e non anche a favore di altri fori, come i fori facoltativi operanti nei riguardi di una delle parti convenute (Cass. 11/01/2001, n. 313; Cass. 01/03/2007, n. 4862), ovvero, a maggior ragione, a favore di fori speciali operanti nei riguardi di una delle parti convenute, per ragioni soggettive (Cass. 13/07/2004, n. 12974; Cass. 17/06/2004, n. 11387).

3.5. Nella fattispecie la competenza territoriale disciplinare del Consiglio di Brescia era individuata nei confronti di uno degli incolpati (avv. P.), quale foro speciale dello stesso, perché consigliere presso l’ordine di Milano, con la conseguenza che, già a norma dell’art. 33 c.p.c. non si sarebbe potuta avere alcuna vis actractiva di questo foro speciale nei confronti di quelli propri dell’avv. C. (dei quali peraltro solo quello relativo all’albo di iscrizione potrebbe ritenersi come foro generale, sia pure con interpretazione estensiva, tendenzialmente da evitare in sede di determinazione di competenza).

3.6. Ovviamente, per le ragioni già esposte, neppure possono applicarsi i principi di cui agli artt. 12, lett. a) e 16 c.p.p. in tema di competenza per connessione in materia penale “allorché il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso…”.

A parte il rilievo che, come già detto, la norma procedurale penale è invocabile in siffatto procedimento disciplinare solo quando espressamente prevista e che nella fattispecie non lo è, va in ogni caso osservato che in siffatta ipotesi di connessione l’art. 16 c.p.p., coordinato con l’art. 8 c.p.p., statuisce che la competenza territoriale si appartiene al giudice del luogo ove si è verificato l’evento.

Sennonché tanto coincide anche con uno dei due fori alternativi previsti dall’art. 38 del r.d.l. n. 1578/1933, per cui competente al procedimento disciplinare è, oltre al Consiglio dell’ordine di iscrizione del professionista, quello nella cui giurisdizione è avvenuto il fatto.

Al di fuori di tale ipotesi di determinazione della competenza per unicità del fatto, non sono ravvisabili altre competenze territoriali da connessione, fondate sulla vis actractiva di un foro speciale di un incolpato.

Peraltro, l’eventuale accertamento in modo difforme del fatto storico non dà luogo ad un contrasto pratico di giudicati, ma soltanto ad un contrasto logico. (cfr. Cass. civ. n. 13514/2007).

3.7. L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento degli altri motivi di censura mossi dall’avv. C..

4. Con l’unico motivo di ricorso l’avv. F. P. lamenta la nullità della decisione per violazione e falsa applicazione dell’art. 2 d.l. n. 223/2006, conv. con l. n. 248/2006 (c.d. legge Bersani). Nullità della decisione per violazione e falsa applicazione dell’art. 38, c. 1, d.d.l. n. 1578/1933, con riferimento al codice deontologico forense conseguente controllo di ragionevolezza in sede di legittimità della concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (concreta antigiuridicità della condotta ascritta).

Assume la ricorrente che con l’art. 2 della l. n. 248/2006 sono state abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che disponevano divieti, anche parziali, di pubblicità informativa relativa ad attività libero-professionale; che l’art. 17, modificato a seguito di questa norme, del codice deontologico forense prevede che l’avvocato può dare informazioni sulla propria attività professionale, che l’art. 17 bis cod. deontologico statuisce le modalità dell’informazione; che l’art. 19 vieta l’acquisizione di clientela con modi non conformi a correttezza ed al decoro.

Lamenta la ricorrente che la censura sia stata irrogata su tre circostanze: a) l’utilizzo dell’acronimo ALT; b) l’utilizzo dello slogan “Assistenza Legale per tutti”; c) l’utilizzo dello slogan “prima consulenza gratuita”.

Ritiene la ricorrente che nel valutare tali comportamenti la decisione impugnata è caduta in evidente errore interpretativo e sistematico, in quanto l’acronimo non compariva mai da solo, essendo accompagnato dalla scritta “Assistenza legale per tutti”, per cui non rappresentava uno slogan suggestivo contrario alla dignità ed al decoro professionale. Secondo la ricorrente né il nome dello studio (A.L.T.) né l’indicazione “prima consulenza gratuita” possono essere considerati mezzi illeciti per un’attività accaparratoria di clientela.

5.1. Il motivo è infondato.

L’esame di tale motivo rende necessaria l’esposizione di alcuni principi regolatori della responsabilità disciplinare degli esercenti la professione forense e del controllo delle Sezioni Unite sulla motivazione delle decisioni rese dal Consiglio Nazionale Forense in tale materia.

Vi è da premettere che, come affermato dalla costante giurisprudenza della Sezioni Unite (ex multis 16/11/2004, n. 21633) l’art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, il quale prevede che siano sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati “che si rendano colpevoli di abusi o di mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale”, non contiene una specifica tipizzazione di ipotesi d’illecito.

La ragione di tale scelta di formulazione normativa, al pari di quanto avviene per altre categorie, viene generalmente ravvisata nel fine di evitare che violazioni dei doveri anche gravi possano sfuggire alla sanzione disciplinare. Pertanto, per un’esatta ricostruzione del controllo di legittimità sull’interpretazione ed applicazione di tale norma, occorre prendere le mosse dalla premessa che la stessa descrive fattispecie d’illecito disciplinare, non mediante un catalogo di ipotesi tipiche, ma mediante clausole generali o concetti giuridici indeterminati.

Ciò comporta anzitutto che tale norma non si presta ad una definitiva ed esaustiva individuazione di ipotesi tipiche sul piano astratto, sia pure da parte dell’organo deputato alla sussunzione del fatto nella norma generale. Il che, sotto il profilo attuativo, significa che il perimetro di tale norma generale, preposta alla tutela del decoro e della dignità professionale, non è esaurito dalle fattispecie tipiche lesive che possano rinvenirsi nel codice deontologico professionale.

5.2. L’applicazione di norme di tale specie può dar luogo a valutazioni che – pur rimanendo distinte dal campo della discrezionalità, intesa come ponderazione comparativa d’interessi – finiscono con l’attribuire all’organo decidente un margine di apprezzamento non controllabile in cassazione.

Il sindacato del giudice di legittimità sull’applicazione di un concetto giuridico indeterminato deve essere, quindi, rispettoso dei limiti che il legislatore gli ha posto, utilizzando una simile tecnica di formulazione normativa, che attribuisce al giudice del merito uno spazio di libera valutazione ed apprezzamento. Il controllo della Corte di Cassazione sulla corretta interpretazione ed applicazione del citato art. 38 non può prescindere dal fatto che detta norma contiene, per la definizione delle condotte sanzionabili, concetti giuridici indeterminati.

5.3. Non fornendo la norma, per sua intrinseca natura, elementi tassativi per la definizione delle condotte disciplinarmente illecite, il sindacato di legittimità deve tener conto del fatto che la categoria normativa impiegata finisce con l’attribuire agli organi disciplinari forensi un compito di individuazione delle condotte sanzionabili, nel quale non può ammettersi una sostituzione da parte dal giudice di legittimità, consistente nella riformulazione o ridefinizione di tali condotte.

Il dibattito sul controllo di legittimità dell’applicazione di concetti giuridici indeterminati effettuata dal giudice di merito non è certo recente, né esclusivo della tradizione giuridica italiana, ma risale ad oltre un secolo e mezzo fa.

Limitando l’esame all’esperienza applicativa della Corte, è certo che, almeno nella sua teorica enunciazione, quando il giudice del merito è chiamato ad applicare concetti giuridici indeterminati, il compito del controllo di legittimità può essere soltanto quello di verificare la ragionevolezza della sussunzione del fatto.

La Corte non può, pertanto, sostituirsi al giudice di merito nell’attività di riempimento dei concetti indeterminati contenuti nel citato art. 38.

Tale è la linea che si ricava dalla costante giurisprudenza della Corte e, in particolare, dalle pronunce delle Sezioni Unite in tema di sindacato di legittimità sulle decisioni del Consiglio Nazionale Forense.

Pertanto, anche nell’individuazione di condotte costituenti illecito disciplinare degli esercenti la professione forense, essendo le stesse definite dalla legge mediante una clausola generale, il controllo di legittimità sull’applicazione di tale norma non consente alla Corte di Cassazione di sostituirsi agli organi forensi nell’enunciazione di ipotesi d’illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza (Cass. S.U. 27.1.2004, n. 1414).

5.4. Ciò che va posto in risalto è che in questa attività di individuazione dell’ipotesi concreta di illecito disciplinare, quale modo di porsi della norma generale per il caso concreto, l’organo professionale (prima ancora di effettuare una valutazione dei fatti storici) concretizza la norma al caso specifico, individuando un precetto per esso.

Il precetto della norma generale di cui all’art. 38 del d.d.l. n. 1578/1933, è: “non commettere fatti non conformi al decoro ed alla dignità professionale”.

Da tale precetto generale, il Consiglio dell’ordine è giunto alla tipizzazione di un precetto per il caso specifico, sia pure – come ogni precetto – ancora in astratto: “non effettuare alcuna forma di pubblicità con slogans evocativi e suggestivi, privi di contenuto informativo professionale, e quindi lesivi del decoro ed alla dignità professionale”.

Ne consegue che in questa fase la ragionevolezza cui deve attenersi l’organo professionale disciplinare non è quella relativa alla motivazione sulla ricostruzione dei fatti (che è un momento successivo ed attiene all’accertamento degli avvenimenti fattuali), ma quella relativa alla “concretizzazione” della norma generale nella fattispecie in esame, come ipotesi di illecito disciplinare ascritto all’incolpato.

Per l’effetto l’attività di sindacato della Corte di legittimità sulla ragionevolezza in questo tipo di attività dell’organo disciplinare, quale risulta dal provvedimento impugnato, non attiene ad un giudizio di congruità logica della motivazione adottata, a norma dell’art. 360 n. 5 c.p.c. Non si versa in ipotesi di dubbio sulla ragionevolezza della motivazione sulla ricostruzione fattuale.

Qui la ragionevolezza attiene all’individuazione del precetto formulato per l’ipotesi specifica considerata, come concretizzazione del più ampio precetto della norma generale (nella fattispecie l’art. 38 l.f.).

Il sindacato sulla ragionevolezza è quindi non relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica (sia pure in questa fase ancora in astratto) nella norma generale, quale sua concretizzazione.

Il sindacato da parte della Corte di legittimità sulla ragionevolezza di tale concretizzazione della norma generale è quindi un sindacato su vizio di violazione di norma di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c., ben lontano da quello di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c..

6.1. Il secondo aspetto concerne i limiti del sindacato sulla motivazione propri dello speciale giudizio di legittimità previsto in materia disciplinare per gli esercenti la professione forense.

Si deve premettere che le decisioni del Consiglio Nazionale Forense sono impugnabili soltanto per i motivi previsti dagli articoli 56, terzo comma, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 e 68, primo comma, del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 (incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge).

Fino all’entrata in vigore dell’art. 2 del d.lgs. n. 40/2006, secondo quanto previsto dall’art. 27 dello stesso d.l., doveva, quindi, escludersi un sindacato della Corte di Cassazione secondo il canone di cui all’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., e cioè esteso alla sufficienza della motivazione, limitandosi il controllo di legittimità ai casi in cui il vizio si traduca in violazione di legge (art. 111 Cost.).

6.2. Per effetto della sostituzione dell’art. 360 c.p.c., disposta dall’art. 2 del d. lgs. n. 40/2006, a norma dell’ultimo comma dell’art. 360 c.p.c. la decisione del CNF, essendo impugnabile per violazione di legge, lo può essere anche per vizio di motivazione a norma dell’art. 360 n. 5 c.p.c..

Va solo ribadito, in generale e secondo il costante orientamento, che il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 n.5 cod. proc. civ., sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della “ratio decidendi”, e cioè l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte.

7. Nella fattispecie non sussistono le lamentate violazioni di legge.

È vero infatti, che l’art. 2 del d.l. n. 223/2006, conv. con l. n. 248/2006, ha abrogato le disposizioni legislative che prevedevano, per le attività libero-professionali, divieti anche parziali di svolgere pubblicità informativa.

Sennonché diversa questione dal diritto a poter fare pubblicità informativa della propria attività professionale è quella che le modalità ed il contenuto di tale pubblicità non possono ledere la dignità e al decoro professionale, in quanto i fatti lesivi di tali valori integrano l’illecito disciplinare di cui all’art. 38, c. 1, r.d.l. n. 1578/1933.

Lo stesso art. 17 del regolamento deontologico forense dispone che sussiste la libertà di informazione da parte dell’avvocato sulla propria attività professionale, ma che tale informazione, quanto alla forma ed alle modalità deve “rispettare la dignità ed il decoro della professione” e non deve assumere i connotati della “pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa”. L’art. 17 bis del cod. deontologico stabilisce le modalità specifiche dell’informazione e l’art. 19 fa divieto di acquisizione della clientela con “modi non conformi alla correttezza e al decoro”.

Ne consegue che sotto il profilo delle lamentate violazioni di legge, esse non sussistono poiché non è illegittimo per l’organo professionale procedente individuare una forma di illecito disciplinare (non certamente nella pubblicità in sé perfettamente legittima nel suo aspetto informativo ma) nelle modalità e nel contenuto della pubblicità stessa, in quanto lesivi del decoro e della dignità della professione, e non nell’attività di acquisizione di clientela in sé, ma negli strumenti usati, allorché essi siano non conformi alla correttezza ed al decoro professionale.

Non vi è, quindi, nel caso in esame irragionevolezza nel precetto deontologico individuato dall’organo professionale, quale fattispecie sanzionabile in sede disciplinare.

8. Quanto al preteso vizio motivazionale, lo stesso non sussiste negli stretti limiti in cui esso può essere fatto valere in questa sede di sindacato di legittimità, come sopra detto.

La sentenza impugnata ha infatti ritenuto che ALT (sia pure puntato) fosse un messaggio non di informazione, ma di suggestione, poiché induce a ritenere, in modo emotivo ed irriflessivo, che valga la pena di visitare quello che appare uno studio legale aperto ed accessibile senza le formalità tipiche dello stereotipo legale; che la locuzione “prima consulenza gratuita” era un’informazione equivoca perché non chiariva se era effettivamente una consulenza organica e completa o un inquadramento generico del problema, come colloquio di orientamento, per prassi gratuito; che lo stesso ricorso agli “slogans” era poco idoneo all’informazione, risultando evidente lo scopo di attrarre e stabilire un contatto, così acquisendo un vantaggio competitivo sugli altri professionisti, con macroscopia di tali scritte rispetto a quelle descrittive. La decisione impugnata riteneva quindi che la scorrettezza del messaggio competitivo stava nel fatto che i messaggi non rendevano pubbliche le effettive caratteristiche dei servizi offerti e della personalità professionale dell’offerente, ma miravano a persuadere il possibile cliente con un motto privo di contenuto informativo, e pieno di capacità emozionale evocativa, eccedente l’ambito informativo completo, concreto e razionale.

Trattasi di una valutazione degli elementi fattuali, la quale non è né apparente, né insufficiente né contraddittoria, e pertanto non è censurabile da questa Corte che non può sostituire il proprio apprezzamento nella rilevanza dei fatti rispetto alle incolpazioni, appartenendo ciò all’esclusiva competenza degli organi disciplinari forensi (Cass. S.U. 18 ottobre 1994, n. 8482; 10 febbraio 1998, n. 1342; 6 aprile 2001, n. 150).

9. Pertanto va accolto il primo motivo di ricorso proposto dall’avv. C. C., assorbiti i restanti. Va cassata l’impugnata sentenza e dichiarata la competenza territoriale del Consiglio dell’Ordine di Milano.

Va, invece, rigettato il ricorso dell’avv. F. P..

Vanno compensate tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione, per l’esistenza di giusti motivi. Essi sono costituiti, quanto al ricorso del C., per il contrasto esistente tra le decisioni del CNF, in tema di deroga della competenza per connessione, e, quanto al ricorso della P., per la mancanza di precedenti arresti giurisprudenziali in tema di pubblicità da parte di studi legali che potessero costituire un precedente orientativo, in presenza della novità normativa sia a livello legislativo che di codice deontologico.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi. Accoglie il primo motivo di ricorso proposto dall’avv. C. C., assorbiti i restanti. Cassa l’impugnata sentenza e dichiara la competenza territoriale del Consiglio dell’Ordine di Milano. Rigetta il ricorso dell’avv. F. P.. Compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.