la Corte d’Appello confermava la sentenza resa dal Tribunale dichiarativa della illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al dirigente medico per aver consentito presso la sala parto del presidio ospedaliero, che una ostetrica effettuasse, con l’assistenza del medico, un intervento chirurgico di taglio cesareo e nell’aver eseguito un altro intervento chirurgico di taglio cesareo sempre con l’assistenza dell’ostetrica quale secondo operatore.

L’azienda ricorrendo per la cassazione della sentenza d’appello aveva sostenuto la violazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 36, comma 2 del CCNL 5 dicembre 1996, osservando che la manifesta violazione delle regole della scienza medica e del regolamento ospedaliero relativo al reparto di ostetricia e ginecologia (che non consentivano di delegare funzioni proprie del personale medico ad altri e diversi ausiliari, a ciò non autorizzati, in assenza di particolari situazioni di urgenza, nel caso insussistenti) risultava essere di entità tale da legittimare il recesso per giusta causa.

La Cassazione ha affermato che deve ritenersi l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che implica la grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, allorchè il dipendente violi disposizioni legali e regolamentari che regolano l’esecuzione della prestazione e che sono volte a garantire la qualità e l’affidabilità del servizio erogato dal datore di lavoro e a proteggere il diritto alla salute degli utenti del servizio stesso.

Cassazione Civile – Sez. Lavoro, Sent. n. 8458 del 13.04.2011

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 13.4/4.5.2007 la Corte di appello di Firenze confermava la sentenza resa dal Tribunale di Firenze il 23.7.2005, impugnata dalla Azienda USL n. X.  di Firenze, che dichiarava l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato a C.L., dirigente medico di primo livello, “per avere consentito in data 1/3/2002, presso la sala parto del presidio ospedaliero X. , che l’ostetrica B.R. effettuasse, con l’assistenza del dr. C., un intervento chirurgico di taglio cesareo alla paziente L.P.M. e nell’aver eseguito un altro intervento chirurgico di taglio cesareo alla sig.ra F.V. con l’assistenza della soprannominata ostetrica come secondo operatore”. Osservava in sintesi la corte territoriale che l’istruttoria aveva confermato la violazione da parte del sanitario delle norme dettate nella materia e che, nondimeno, per le concrete modalità di svolgimento dei fatti, non si poteva ritenere che si fosse trattato di un fatto di tale gravità da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario che deve intercorrere fra il lavoratore ed il datore di lavoro, e, quindi, proporzionato alla sanzione applicata, tenuto conto della particolare attenzione profusa nel seguire lo svolgimento dell’applicazione dell’ostetrica all’intervento, idonea ad evitare cause di danno e a consentire, al tempo stesso, l’impratichimento di una dipendente chiamata, seppure in situazioni di emergenza, a porre in essere quelle pratiche sanitarie.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’Azienda USL n. X.  di Firenze affidandolo a quattro motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso C.L..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 la ricorrente lamenta violazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 36, comma 2 del CCNL 5 dicembre 1996, osservando che la manifesta violazione delle regole della scienza medica e del regolamento ospedaliero relativo al reparto di ostetricia e ginecologia (che non consentivano di delegare funzioni proprie del personale medico ad altri e diversi ausiliari, a ciò non autorizzati, in assenza di particolari situazioni di urgenza, nel caso insussistenti) risultava essere di entità tale da legittimare il recesso per giusta causa, di talchè illegittima appariva la valutazione operata dai giudici di merito.

Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 la ricorrente denuncia contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rilevando, fra l’altro, che la corte territoriale aveva fornito una inadeguata valutazione della dichiarazione della teste Pa., che nessun contrasto era emerso fra l’addebito mosso al dirigente e le risultanze dell’istruttoria, che era stato valutata come una prassi del tutto normale che si affidassero le funzioni di “secondo operatore” ad una ostetrica, pur essendo presente il competente personale medico.

Con il terzo motivo l’Azienda lamenta ancora vizio di motivazione, rilevando come erroneamente fosse stata posta a fondamento della decisione la prova formatasi nel procedimento penale, con contestuale sottovalutazione delle risultanze istruttorie dedotte nel giudizio, che confermavano “l’atteggiamento di assoluta superficialità” del dirigente sanitario, oltre che la violazione delle regole di prudenza e diligenza proprie dell’arte medica.

Con l’ultimo mezzo di ricorso, infine, l’Azienda lamenta la mancanza di pronuncia in ordine al motivo di appello con il quale aveva dedotto l’insussistenza del diritto all’indennità supplementare prevista dall’art. 37 del CCNL 5.12.1996, non avendo il C. esperito la procedura di conciliazione ivi stabilita.

2. Il primo motivo è fondato.

Deve, al riguardo, preliminarmente rilevarsi che, diversamente da quanto deduce l’intimato, il quesito di diritto in parte qua prospettato (“Dica la Suprema Corte di cassazione adita se il principio di diritto contenuto nella sentenza della Corte di appello di Firenze…secondo il quale “Non costituisce giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro…il comportamento del medico chirurgo volto ad autorizzare che un’ostetrica, al di fuori delle ipotesi previste nel D.M. n. 740 del 1994, effettui un intervento chirurgico di taglio cesareo e assuma funzioni di “secondo operatore” durante altro parto cesareo”, abbia violato quanto disciplinato dall’art. 2119 c.c. e dall’art. 36, comma 2 del CCNL, sottoscritto in data 5.12.1996…”) corrisponde, in termini sostanziali, alla prescrizione dell’art. 366 bis c.p.c..

Sebbene, infatti, il quesito sia stato articolato facendo riferimento ad un principio di diritto che la corte territoriale non ha, in realtà, formulato nei termini letterali trascritti, non pare dubbio che lo stesso consente, comunque, di individuare con certezza la soluzione giuridica della questione controversa che si prospetta come giuridicamente corretta, a fronte di quella in concreto adottata, che si assume contraria al diritto, ed il cui accoglimento condurrebbe ad un esito difforme della controversia.

Ed, infatti, anche in tale ipotesi si riscontrano positivamente i requisiti essenziali della fattispecie normativa, che impongono, per come si è già precisato da questa Suprema Corte (v. ad es SU n. 3519/2008), che il quesito sia esplicito e collocato in una parte del ricorso a ciò specificatamente deputata e che lo stesso si risolva in una sintesi logico giuridica della questione che ha determinato l’instaurazione del giudizio, con l’individuazione, immediatamente percepibile da parte del giudice di legittimità, dell’errore di diritto che si assume compiuto e della diversa regola che si sarebbe dovuta applicare, realizzandosi, attraverso la risposta al quesito, quel collegamento fra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione di un principio giuridico generale, in assenza del quale l’investitura stessa del giudice di legittimità deve ritenersi inadeguata.

2. Ciò premesso, deve rilevarsi, con riferimento al principio di necessaria proporzionalità fra fatto addebitato e recesso (che costituisce il tema controverso essenziale della presente controversia), come la giurisprudenza di questa Suprema Corte abbia da tempo individuato l’inadempimento idoneo a giustificare il licenziamento in ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali (cfr. per tutte Cass. n. 14551/2000; Cass. n. 16260/2004; Cass. n. 4586/2009), sicché quel che appare veramente decisivo, ai fini della valutazione della proporzionalità fra addebito e sanzione, è l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, sia suscettibile dì porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, tenuto conto, fra l’altro, del grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni dal medesimo svolte.

Ne deriva che la proporzionalità della sanzione non può essere valutata solo in conformità alla funzione dissuasiva che la stessa sia destinata ad esercitare sul comportamento degli altri dipendenti, dal momento che il principio di proporzionalità implica un giudizio di adeguatezza eminentemente soggettivo, e cioè calibrato sulla gravità della colpa e sull’intensità della violazione della buona fede contrattuale che esprimano i fatti contestati, alla luce di ogni circostanza utile (in termini soggettivi ed oggettivi) ad apprezzarne l’effettivo disvalore ai fini della prosecuzione del rapporto contrattuale.

In tal contesto, e con specifico riferimento alla lesione dell’elemento fiduciario, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito che l’esistenza di una giusta causa di licenziamento implica, in particolare, la grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, per come desumibile dalla natura dei fatti addebitati al lavoratore, con riferimento ad ogni componente, soggettiva ed oggettiva dei medesimi, e dal grado di affidamento richiesto dai compiti disimpegnati dal dipendente in relazione alla realizzazione degli scopi perseguiti dal datore di lavoro.

3. Nel caso in esame, è incontroverso che il dottore C. ebbe a consentire alla ostetrica B.R. di effettuare, con la sua assistenza, un intervento chirurgico di taglio cesareo e che lo stesso ebbe ad eseguire un analogo ulteriore intervento con l’assistenza della B. quale secondo operatore. Ha osservato la corte territoriale che tale comportamento “si pose oltre i limiti normativi”, in quanto non consentito dalle disposizioni di legge che regolano la materia, oltre che dal regolamento ospedaliero del reparto di ginecologia dell’Azienda ricorrente e comportò di fatto – si deve soggiungere- la delega di funzioni proprie del personale medico ad ausiliari a ciò non autorizzati dalla legge.

Ricordano, infatti, i giudici di appello che il D.M. n. 740 del 1994, che regola la professione di ostetrica, delimita rigorosamente le competenze di tali operatori, prevedendo che “L’ostetrica, per quanto di sua competenza, partecipa: b) alla preparazione psicoprofilattica al parto; c) alla preparazione e all’assistenza ad interventi ginecologici…” (art. 1, comma 2) e che la stessa “è in grado di individuare situazioni potenzialmente patologiche che richiedono intervento medico e di praticare, ove occorra, le relative misure di particolare emergenza” (art. 1, comma 5). Ne deriva de plano che non è ascrivibile alla competenza di tale profilo professionale l’esecuzione di interventi chirurgici e che, comunque, interventi medici possono essere praticati solo nei limiti delle “misure di particolare emergenza” richieste da situazioni in tal senso qualificabili.

Ritiene questa Corte che, sulla base di tali presupposti, a ragione l’Azienda ricorrente lamenta che nel comportamento del dipendente non si sia ravvisata la violazione di elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare dell’elemento fiduciario, per come emergente dalla gravità dei fatti addebitati alla luce del grado di affidamento richiesto dalle mansioni e dal ruolo rivestito dal sanitario, che imponevano la scrupolosa osservanza di norme primarie, poste a garanzia della qualità del servizio e a protezione della salute dei pazienti.

A fronte, infatti, della palese violazione delle prescrizioni di competenza stabilite dalla legge e della pacifica assenza di alcuna situazione di “particolare emergenza”, non risultavano, infatti, evidenziabili, in esito all’istruttoria svolta, elementi che, con plausibilità logica, consentissero di attenuare il disvalore dei fatti contestati, rendendo inappropriata, in relazione alla natura dei fatti addebitati e al relativo contesto di riferimento, la sanzione applicata.

In particolare non può in tal senso richiamarsi nè che l’ostetrica “si limitò” ad eseguire “il taglio cesareo” (con l’incisione della cute e dell’addome), e non anche le ulteriori fasi del parto, essendosi, comunque, trattato di un vero e proprio intervento chirurgico da parte di un operatore sprovvisto delle prescritte abilitazioni legali; nè che il dottore C., per come avverte la corte toscana, fu attento e solerte nel seguire l’intervento;

“puntuale attenzione e solerzia…idonee certamente… a scongiurare un malagurato danno”.

Se si considera che proprio l’eventualità del realizzarsi di un danno doveva sconsigliare il sanitario dal consentire l’intervento e che l’accettazione di un rischio, per quanto solo potenziale, in tal senso doveva, in realtà, apprezzarsi quale sintomo, particolarmente grave, della violazione dei doveri connessi alla sua posizione funzionale.

Nè tantomeno può affermarsi che l’intimato “offrì ad una giovane ostetrica solo una opportunità di ulteriore impratichimento, così svolgendo un ruolo didattico…”, dal momento che non è dato comprendere chi avesse autorizzato a tale compito il dottore C., il quale, pur confidando sulla propria esperienza professionale, non poteva non rappresentarsi che le funzioni di formazione professionale sono di competenza dell’azienda ospedaliera e non possono, in ogni caso, stravolgere, sulla base di iniziative puramente personali, le regole di competenza che presidiano al corretto svolgimento degli interventi sanitari, al fine di garantire la salute degli utenti e l’affidabilità delle strutture erogatrici dei relativi servizi.

Così come appare illogico asserire (con riferimento agli ulteriori fatti contestati, e precisamente alla presenza della B., quale secondo operatore, ad un ulteriore parto, in luogo del medico addetto alla struttura e presente in sala operatoria) che ciò fu conseguenza di una “scelta arbitraria” della Pa. (secondo medico), laddove, in realtà, dalla deposizione di quest’ultima (e sulle quale si fonda in parte qua la decisione impugnata) emerge che fu proprio il dottore C. a riferirle “che l’equipe sarebbe stata composta da lui e dalla B. e, pertanto, la mia presenza era inutile…”.

Il primo motivo va, pertanto, accolto alla luce del seguente principio di diritto: “Deve ritenersi l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che implica la grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, per come desumibile dalla natura dei fatti addebitati al lavoratore, con riferimento ad ogni componente, soggettiva ed oggetti va dei medesimi, e dal grado di affidamento richiesto dai compiti dallo stesso disimpegnati in relazione alla realizzazione degli scopi perseguiti dal datore di lavoro, allorchè il dipendente violi disposizioni legali e regolamentari che regolano l’esecuzione della prestazione e che sono volte a garantire la qualità e l’affidabilità del servizio erogato dal datore di lavoro e a proteggere il diritto alla salute degli utenti del servizio stesso”. Restano assorbiti gli ulteriori motivi.

4. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata e, non apparendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa decisa nel merito, con il rigetto delle domande proposte da C.L. nei confronti dell’Azienda USL n. X.  di Firenze. Sussistono giusti motivi, in considerazione della peculiarità fattuale del caso e dell’esito dei precedenti gradi del giudizio, per compensare le spese della fase di merito, seguendo quelle del presente giudizio la regola della soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le domande proposte da C.L. nei confronti dell’Azienda USL n. X.  di Firenze; compensa le spese della fase di merito; condanna il resistente al pagamento in favore dell’Azienda ricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 45,00 per esborsi ed in Euro 3000,00 per onorari di avvocato, oltre ad accessori di legge.