Nel corso di un intervento chirurgico è stata causata la lacerazione ed apertura della trachea con la conseguente necessità di un nuovo trattamento. L’anestesista, assolto nel procedimento penale, è stato condannato al risarcimento nel giudizio civile.

Il tribunale dopo aver ampiamente motivato in relazione agli effetti della sentenza penale di assoluzione dell’imputato nell’ambito di un giudizio civile per il risarcimento del danno determinato dagli stessi accadimenti, ha osservato che nello specifico la responsabilità non poteva che essere attribuita al chirurgo anch’esso chiamato in causa ma , appunto, all’anestesista.

A differenza delle conclusioni raggiunte nel giudizio penale, pur a fronte di una conformazione della trachea – “pars membranacea” particolarmente sottile rispetto alla norma, deve essere affermato comunque il rilievo causale della condotta dell’anestesista nella produzione del danno, poiché appare “più probabile che non” che la lesione sia stata causata quanto meno anche dalla manovra di intubazione, ancorché condotta su un soggetto avente una fisiologia molto fragile, perché non è dimostrato, al contrario, che per il solo fatto di tale condizione di fragilità, consegua sempre e comunque una rottura tracheale, quali che siano gli accorgimenti adottabili e adottati dall’anestesista

Tribunale di Foggia – Sez. I; Sent. del 23.05.2013

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Considerato che parte attrice ha agito in giudizio per vedersi risarcire il danno subito a seguito di un intervento chirurgico al quale era stata sottoposta presso la Società X. X., dove era stata operata dal DR. B., e l’anestesista era stato il dr. T., intervento nel corso del quale l’intubazione aveva causato una lacerazione con conseguente apertura di vari centimetri della trachea, e che l’aveva costretta a sottoporsi ad altro intervento chirurgico;

considerato che l’azione civile è stata proposta dopo che la richiesta di costituzione di parte civile, nel giudizio penale instaurato a carico di T.A., era stata disattesa, perché l’atto di costituzione non era stato redatto nelle forme di legge;

considerato che B.U. ha negato la propria responsabilità, e ha chiamato in garanzia la CARIGE Spa;

considerato che gli altri convenuti hanno a loro volta negato qualunque responsabilità, e la X. X. ha anche chiamato in causa la MILANO Assicurazioni;

considerato che la CARIGE ha sollevato alcune eccezioni contrattuali nei confronti del B., ha negato la responsabilità del proprio chiamante, e ha concluso come in atti;

considerato che la MILANO Assicurazioni ha chiesto, per quanto ancora rileva, il rigetto della domanda;

letti gli atti, e considerato che dall’istruttoria è emerso che il B. ha eseguito l’intervento, senza che nel corso dello stesso emergessero situazioni di criticità (teste D.G., che ha partecipato all’intervento in qualità di Aiuto, e teste M., strumentista), laddove a seguito dello stesso, e quando la paziente era stata accompagnata nella sua stanza, erano stati riscontrati problemi respiratori e un edema al collo, in relazione ai quali era stato chiamato l’anestesista dr. T., che l’aveva presa in carico, nel senso che era stato lui a dare da quel momento le direttive terapeutiche, rispetto alle quali nessuno aveva avuto obiezioni (teste D.G.);

considerato, d’altra parte, che la situazione della F., al rientro nella stanza di degenza, è stata confermata anche dal marito (D.S.A.), e dalla cognata (D.S.V.), i quali hanno ricordato che la loro congiunta avesse, al rientro, un gonfiore al viso e al collo;

considerato che il ruolo del dr. T., a seguito del riscontro post-operatorio, è stato confermato anche dalla teste M., la quale ha ricordato che era stato lui, all’esito della visita, a disporre il monitoraggio della situazione;

considerato che le complicazioni subite dalla F., ed oggetto del presente giudizio, sono state valutate nell’ambito della CTU disposta, e sono state indicate come consistenti in un “quadro di pneumotorace a sinistra e di pneumomediastino” (pag. 43 della relazione), a loro volta discendenti da una rottura tracheale insorta a seguito della procedura anestesiologica di intubazione (cfr. pag. 44 della richiamata relazione);

considerato che a sostegno delle proprie conclusioni, il CTU ha evidenziato come il tubo utilizzato fosse inusuale rispetto alla costituzione del soggetto, essendo stato fatto ricorso ad un tubo di dimensioni 8.5 invece che di dimensioni 7, o massimo 7.5 (pag. 53), e che le conseguenze lesive potrebbero essere dipese a) dal fatto che il tubo, di dimensioni eccessive, sia stato posizionato “in avanti” rispetto al normale posizionamento endotracheale, b) dal fatto che il tubo, posizionato probabilmente (e stranamente) a sinistra, di solito scivola in avanti, laddove di norma dovrebbe rimanere 1-2 cm. sopra la carena e al centro della trachea, c ) dal fatto che la cuffia risultava comunque eccessivamente grande per le dimensioni della trachea della paziente (pag. 58, 59), sicché era derivata la comparsa delle complicazioni richiamate;

considerato, in ragione di tanto, che il CTU ha fatto riferimento all’errore dell’operatore anestesista, dovuto non tanto alla manualità, ma alla scelta delle dimensioni del tubo, al verosimile malposizionamento del tubo, e alle conseguenze di una eccessiva pressione della cuffia sulla mucosa tracheale, in particolare sulla pars membranacea (pag. 62, 63), anche in ragione del fatto che non era risultata, nei controlli eseguiti, una possibile “minoris resistentiae della pars membranacea tracheale” della F. (pag. 63);

considerato, sotto altro profilo, che il CTU ha concluso anche nel senso che nella specie non vi fossero elementi tali da rendere particolarmente disagevole o difficoltosa la manovra da eseguire, e che a seguito di tanto la paziente aveva dovuto sottoporsi ad un ulteriore intervento chirurgico di toracotomia (pag. 66), e ha rilevato come la condotta dei medici nel periodo post-operatorio non avesse presentato aspetti di perplessità (pag. 67), come pure era stato per la condotta dei sanitari che avevano poi eseguito l’intervento ulteriore sulla F. (pag. 73);

considerato che il CTU ha concluso anche per l’assenza di responsabilità del chirurgo autore del primo intervento sulla persona della F. (pag. 76);

ritenuto, alla stregua di tanto, che la domanda spiegata nei confronti del convenuto DR. B. sia infondata, dal momento che all’esito degli accertamenti tecnici eseguiti in corso di causa, nessuna responsabilità è emersa in capo allo stesso, e deve pertanto escludersi che la sua condotta, consistita nell’effettuazione del primo intervento chirurgico sulla persona della F., abbia avuto un nesso di causalità sulle successive conseguenze lesive patite dalla attrice;

ritenuto che la domanda spiegata nei confronti del B. debba essere pertanto rigettata, con le conseguenze di legge in tema di spese in conseguenza della soccombenza;

ritenuto che anche la domanda di garanzia del B., nei confronti della CARIGE, debba essere rigettata, e che le spese in favore della chiamata in causa debbano essere poste a carico della parte attrice, soccombente rispetto al B., avendo la Suprema Corte (Cass., sez. III, nr. 7674 del 21.3.2008, Rv 602543), già affermato che “le spese sostenute dal terzo chiamato in causa su istanza di parte o d’ufficio, quando non ricorrano giusti motivi per la compensazione, sono legittimamente poste a carico dell’attore soccombente, a nulla rilevando che questi non abbia formulato domanda alcuna nei confronti dello stesso terzo evocato in giudizio”;

ritenuto, quanto alla posizione del T., che l’eccezione sollevata in giudizio, e relativa all’effetto del giudicato penale nel frattempo intervenuto, non sia meritevole di accoglimento;

considerato, sul punto, che il T., sottoposto a procedimento penale per i fatti che qui interessano, è stato assolto con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste, ai sensi dell’art. 530 comma 2;

letti gli artt. 75 comma 2 e 652 comma 1 c.p.p., e ritenuto che nel caso in esame il giudicato penale di assoluzione non faccia stato nel presente procedimento;

evidenziato come non si disconosca che, sul punto, la Suprema Corte abbia già avuto modo di affermare, trattando dell’interesse dell’imputato assolto ai sensi del capoverso dell’art. 530 c.p.p., all’impugnazione finalizzata ad ottenere una assoluzione ai sensi del comma 1 di tale norma, che “nel vigente codice il dubbio non ha valenza processuale esterna, essendo stata piuttosto sancita la regola della necessaria adozione della formula assolutoria senza ulteriori qualificazioni, anche in presenza della insufficienza del materiale probatorio di accusa. Ne discende che anche l’eventuale accoglimento della impugnazione non varrebbe a mutare la formula finale della assoluzione. Inoltre, l’art. 652 c.p.p., rende evidente che identico effetto di giudicato, nei giudizi amministrativi o civili, producono la sentenza di assoluzione basata sulla esclusione di prove a carico e quella sul dubbio. Nello stesso senso si esprime la maggioranza delle decisioni di questa Corte secondo le quali non sussiste l’interesse dell’imputato, assolto per non aver commesso il fatto ai sensi dell’art. 530 cod. proc. pen., comma 2, a proporre impugnazione, atteso che tale formulazione – relativa alla mancanza, alla insufficienza o alla contraddittorietà della prova – non comporta una minore pregnanza della pronuncia assolutoria ne’ segnala residue perplessità sull’innocenza dell’imputato: non può pertanto in alcun modo essere equiparata all’assoluzione per insufficienza di prove prevista dal codice di rito in vigore anteriormente alla riforma del 1988 (Sez. 6^, 13 dicembre 2004, Calabrese, rv 230821; Sez. 3^, 21 marzo 2002, Rebizzi, rv 222251)”: così Cass. Pen., sez. V, nr. 842 del 24.11.2005, Rv 233754, in motivazione;

considerato, tuttavia, che la Cassazione Civile ha affermato che “ai sensi dell’art. 652 (nell’ambito del giudizio civile di danni) e dell’art. 654 (nell’ambito di altri giudizi civili) cod. proc. pen., il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato e non anche nell’ipotesi in cui l’assoluzione sia determinata dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato e cioè quando l’assoluzione sia stata pronunziata a norma dell’art. 530, comma secondo, cod. proc. pen.” (tra le tante Cass. Civ, sez. Lav., nr. 3376 del 11.2.2011, Rv 615991);

ritenuto che non possa condividersi l’orientamento della Cassazione Penale, in relazione ai risvolti civili della decisione penale, dal momento che l’art. 652 c.p.p. non fa riferimento, per affermare la valenza extra-penale della sentenza definitiva di assoluzione, alla semplice emissione della sentenza assolutoria, con una delle formule indicate, ma limita tale valenza -per quanto di interesse in questa sede- all’accertamento che il fatto non sussiste, ciò che non coincide con la formula di assoluzione, o con la semplice assoluzione (quale che sia il comma dell’art. 530 c.p.p. richiamato), ma richiede che la sentenza abbia effettuato uno specifico ed esaustivo accertamento in ordine alla insussistenza del fatto;

considerato, nella fattispecie in esame, che la sentenza emessa all’esito del giudizio penale ha affermato che il fondamento dell’addebito era stato messo in dubbio dal perito d’ufficio (sentenza di primo grado), e che quanto accertato dal perito d’ufficio rendeva perlomeno dubbia, e come tale non sufficientemente provata, la riconducibilità dell’evento lesivo alle maggiori dimensioni del tubo utilizzato dal dr. T. (pag. 13, 14, 15 della sentenza di secondo grado), sicché non può dirsi che in sede penale vi sia stato un accertamento di insussistenza del fatto, in termini di certezza;

ritenuto, pertanto, che in questa sede debba procedersi a verificare nel merito le risultanze probatorie, al fine di valutare le domande spiegate dalla attrice;

considerato, quanto alla difficoltà dell’apporto del dott. T., all’intervento chirurgico al quale è stata sottoposta la F., e in aggiunto a quanto già indicato in precedenza, che il CTU ha spiegato come nel caso di specie non vi fosse alcun elemento che rendesse particolarmente disagevole o difficoltosa la manovra da eseguire (pag. 66), sicché può affermarsi che la condotta di spettanza dell’anestesista dr. T. non implicasse la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà;

considerato che il dr. T. era, all’epoca del fatto, dipendente di X. X. (anestesista in servizio presso la clinica), come risulta peraltro dalla stessa imputazione rivoltagli in sede penale;

considerato, da un punto di vista generale, che la costante e condivisibile giurisprudenza della Suprema Corte ritiene che la responsabilità verso il paziente del medico dipendente ospedaliero (e dell’azienda sanitaria in base al rapporto fra l’azienda stessa ed il medico ex art. 1228 c.c.), debba qualificarsi contrattuale, non già per l’esistenza di un pregresso rapporto obbligatorio insorto tra le parti, bensì in virtù di un rapporto contrattuale di fatto originato dal “contatto sociale” (cfr. Cass. sez. I II 22.1.1999 n. 589 e l’ampia motivazione sul punto alla quale hanno fatto riferimento le successive pronunce del giudice di legittimità: Cass. 11.3.2002, n. 3492; Cass. 14.7.2003 n. 11001; Cass. 21.7.2003 n. 11316; 28.5.2004 n. 10297; Cass. 19.4.2006 n. 9085, Cass. sez. un. 11/11/2008 n. 26972 punto 4.3. e Cass. 4/03/2010 n. 5190);

considerato, quanto alla ripartizione dell’onere probatorio nelle controversie di responsabilità professionale (dell’ente ospedaliero e/o del sanitario ) che essa debba rispondere al principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento contrattuale e dell’inesatto adempimento (art.1218 c.c.), la quale ha enunciato il principio secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento;

considerato che analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, laddove è stato affermato come al creditore istante sia sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento;

ritenuto, a seguito dell’applicazione di questo principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico , che debba quindi affermarsi, secondo l’insegnamento della Corte (in termini, Cass. 28.5.2004 n. 10297, Cass. civ., Sez. Unite, 11/01/2008, n. 577; Cass. civ., Sez. III, 18/09/2009, n. 20101; Cass. civ., Sez. III, 29/09/2009, n. 20806; Cass. civ., Sez. III, 26/01/2010, n. 1538), che il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria debba provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario , restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento alla stregua delle norme di cui agli artt. 1176 e 2236 c.c.;

ritenuto, più in particolare, che consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente sia tenuto solo a provare il preesistente rapporto giuridico posto a fondamento del suo diritto di credito -contratto e/o “contatto”-, l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, allegando l’inadempimento della struttura obbligata, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, e che per contro il sanitario debba invece allegare e provare il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel caso di cui all’art. 2236 c.c.) -Cass.2006/n.9085; Cass. sez. un. 2008/n.577;

considerato, quanto alla distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, che essa non rilevi dunque -come sosteneva la precedente giurisprudenza- quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma debba essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitariola prova che la prestazione fosse di particolare difficoltà;

richiamato quanto detto dal CTU, in ordine alla assenza di problemi tecnici di particolare difficoltà, e ritenuto che nel caso in esame non operi la limitazione di responsabilità medica alle ipotesi di dolo e colpa grave di cui all’art. 2236 c.c., concernente i casi della specie, e che per contro incombesse al medico specialista, in quanto in grado di conoscere le regole dell’arte e la situazione specifica (a fortiori, trattandosi di intervento non straordinario), dare la prova che il risultato “anomalo” o anormale, e quindi lo scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull’esperienza, fosse dipeso da fatto a sé non imputabile, in quanto non prevedibile né prevenibile con la diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto -si vedano tra le altre: Cass. civ. 7/05/88 n. 3389; Cass. civ. III 13/03/98 n. 2750; Cass. civ. III 19/05/99 n. 4852; Cass. civ., Sez. III, 02/02/05, n. 2042; Cass. civ., Sez. III, 28/05/2004, n. 10297;

considerato, quanto al regime probatorio applicabile in ordine al nesso di causalità nel giudizio penale ed in quello civile, che lo stesso sia differente, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi, nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” -v.Cass.sez. un. 11/01/2008 n.576; Cass. civ., Sez. III, 16/01/2009, n. 975; Cass. civ., Sez. III, 08/07/2010, n. 16123; Cass. civ., Sez. III, 17/02/2011, n. 3847-, ciò che rileva nel senso di valorizzare, in questa sede, valutazioni diverse rispetto a quelle fatte proprie dal giudice penale;

ritenuto, sulla base di quanto evidenziato fino ad ora, che debba essere affermata la responsabilità del convenuto dott. T., e della clinica convenuta, per i danni subiti dalla F.;

considerato, infatti, che le conseguenze lesive che ha subito la F., siano certamente riconducibili alla errata condotta del dott. T., caratterizzata dalla negligenza e dalla imprudenza, da cui è derivata -nesso di causalità- la lesione iatrogena (rottura tracheale verificatasi in seguito alla intubazione), che a sua volta ha comportato la necessità di un ulteriore intervento chirurgico di toracotomia, i cui esiti -come si dirà- integrano il danno risarcibile in questa sede;

considerato, infatti, e a differenza -lo si ribadisce- dalle conclusioni penali, che pur a fronte di una “pars membranacea” particolarmente sottile rispetto alla norma (cfr. pag. 13 della relazione di CTU), debba comunque essere qui affermato il rilievo causale della condotta del dr. T., nella produzione del danno in capo alla F., poiché appare “più probabile che non” che il danno sia stato causato quanto meno anche dalla manovra di intubazione, ancorché condotta su un soggetto avente una fisiologia della “pars membranacea” assai fragile, perché non è dimostrato, al contrario, che per il solo fatto di tale condizione di fragilità, consegua sempre e comunque una rottura tracheale, quali che siano gli accorgimenti adottabili e adottati dall’anestesista, nè è dimostrato che la rottura sia conseguita spontaneamente ad un colpo di tosse intervenuto su una trachea già malacica, e su una paziente che già da 15 anni soffriva di asma bronchiale, e che era ricorsa verosimilmente a corticosteroidi (cfr. pag. 7 sentenza della Corte d’Appello, laddove sono riportate le dichiarazioni del dr. T. in sede penale), posto che di tale possibile causa del danno non vi è alcuna prova (cfr. ad esempio il sunto della deposizione del DR. B. nel processo penale, riportato a pagina 6 della sentenza della Corte d’Appello);

considerato che la responsabilità del dott. T. sia diretta, nella sua qualità di esecutore della manovra di intubazione alla base delle lesioni richiamate, ai sensi degli artt. 1176 comma 2 e 2236 cod. civ., e che per contro lo stesso non abbia fornito alcuna dimostrazione che il fatto sia dipeso da circostanze a sé non imputabili, in quanto non prevedibili né prevenibili con la diligenza dovuta, in relazione alle specifiche caratteristiche del caso concreto (e la richiamata condizione di fragilità fisiologica non può essere intesa come imprevedibile, trattandosi chiaramente di situazione che in sede di preparazione dell’intervento, e di scelta degli strumenti da utilizzare, deve essere valutata come possibile);

considerato, quanto alla clinica convenuta, e premesso che la Suprema Corte (Cass., sez. III, nr. 1620 del 3.2.2012, Rv 621457) ha già affermato che “l’ospedale risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente, per fatto proprio, ex art. 1218 cod. civ., ove tali danni siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura, ovvero per fatto altrui, ex art. 1228 cod. civ., ove siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui l’ospedale si avvale”, che nel caso in esame la stessa debba rispondere ai sensi del richiamato art. 1228 cod. civ.;

considerato, quanto alle conseguenze lesive permanenti patite dalla F., che il CTU ha spiegato come la trachea sia stata ripristinata nella sua funzione respiratoria, sicché sotto questo profilo non residuano ripercussioni, e che tuttavia la necessità dell’intervento chirurgico ha comportato esiti cicatriziali nel cavo ascellare di sinistra e nell’emitorace bilateralmente (pag. 76), ciò che ha causato una significativa riduzione dell’efficacia estetica e funzionale, comportanti una riduzione permanente della integrità psico-fisica della persona in sé e per sé considerata (danno biologico permanente), valutabile nella misura del 12% (pag. 79) -danno da ritenere in stretta derivazione causale dalla condotta inadempiente del dott. T.;

ritenuto tuttavia che quest’ultima valutazione debba essere rivista, posto che come chiarito nelle deduzioni del dr. D.N., la III classe di danno estetico (fascia dall’11 al 15%), fa espressamente riferimento al volto, laddove nel caso in esame, valutando direttamente le risultanze, la situazione cicatriziale della F. sia da ricondurre nella II classe di danno estetico (fascia del 6 al 10%), che si riferisce alle estese aree cicatriziali al tronco, quali devono essere considerate quelle individuate dal CTU, da valutare pertanto nella misura del 10%, tenuto conto dell’estensione severa degli esiti;

considerato, quanto alle conseguenze temporanee patite dalla F., che il CTU nella sua relazione integrativa ha affermato che esse sono consistite in giorni 25 di inabilità temporanea assoluta, in giorni 30 di inabilità temporanea parziale al 75%, in giorni 30 di inabilità temporanea parziale al 50%, in giorni 30 di inabilità temporanea parziale al 25% (cfr. relazione depositata il 29.7.2010);

considerato, in relazione alla liquidazione dei danni non patrimoniali, da intendere come menomazione della sua capacità psico/fisica in tutte le relative componenti -le categorie di danno morale, danno biologico, danno estetico, alla vita di relazione ed esistenziale rispondendo ad esigenze meramente descrittive e non implicando il riconoscimento di distinte categorie di danno, che costituirebbero duplicazione risarcitoria del medesimo tipo di pregiudizio-, che debba procedersi mediante criteri a-reddituali, operandone l’adeguata personalizzazione (sull’inquadramento della tutela del diritto all’integrità psico-fisica della persona nell’ambito degli artt. 2059 c.c. e 32 Cost.: Cass. n. 16076/’01; Cass. Cass. n.19057/’03; Cass. Sez.Unite n.26972/’08);

considerato, sul punto, che proprio le sezioni unite hanno chiarito che “l’art. 2059 cod. civ. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c.: e cioè la condotta illecita, l’ingiusta lesione di interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso. L’unica differenza tra il danno non patrimoniale e quello patrimoniale consiste pertanto nel fatto che quest’ultimo è risarcibile in tutti i casi in cui ricorrano gli elementi di un fatto illecito, mentre il primo lo è nei soli casi previsti dalla legge”, e che “il danno non patrimoniale, quando ricorrano le ipotesi espressamente previste dalla legge, o sia stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione, è risarcibile sia quando derivi da un fatto illecito, sia quando scaturisca da un inadempimento contrattuale”;

ritenuto, pertanto, che nella specie ricorrano i presupposti per il risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., in quanto le lesioni subite dalla F. sono derivate da un inesatto adempimento contrattuale;

ritenuto che ai fini della concreta liquidazione del danno debba farsi applicazione della tabella per la liquidazione dei postumi elaborata dal Tribunale di Milano a valere dal gennaio 2013 (e sul punto cfr. Cass., sez. III, nr. 14402 del 30.6.2011, Rv 618049);

considerato che nel caso in esame non sono stati dimostrati specifici aspetti di peculiarità, tali da comportare uno scostamento dai valori medi delle citate tabelle;

ritenuto allora che il danno non patrimoniale debba essere liquidato in corrispondenza di un danno biologico pari al 10%, in soggetto che all’epoca dei fatti aveva 48 anni, e che quindi il danno all’attualità sia pari ad euro 20.998,00;

ritenuto che il danno non patrimoniale per i postumi temporanei, sempre sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano, debba essere commisurato in euro 96,00 per ogni giorno di inabilità assoluta, somma da ridurre in misura proporzionale, in presenza di una inabilità in percentuale inferiore;

considerato, pertanto, che le somme dovute a tale titolo debbano essere quantificate in: 1) euro 96,00 per 25 giorni, 2) euro 72,00 per 30 giorni, 3) euro 48 per 30 giorni, euro 24,00 per 30 giorni, e così in complessivi euro 6.720,00;

considerato, previa devalutazione del richiamato capitale (euro 27.718,00), e previa determinazione degli interessi legali calcolati sul capitale rivalutato annualmente dal 10.02.2004 all’attualità, che si perviene all’importo complessivo di euro 28.103,14 (di cui euro 23.156,22 quale capitale iniziale devalutato alla data del 10.2.2004 e la somma rimanente per rivalutazione ed interessi), importo sul quale dovranno corrispondersi gli ulteriori interessi legali dalla data odierna e fino all’effettivo soddisfo;

considerato che al pagamento di tale somma devono essere condannate la clinica X. X. e il dr. T., e che quanto alla prima deve essere accolta la domanda di garanzia, con condanna della Milano Assicurazioni Spa a tenere indenne la richiamata X. X., in relazione alle somme che quest’ultima è tenuta a pagare;

ritenuto, quanto alle spese di causa in relazione all’attrice, nel rapporto con la società X. X., Casa di Cura Prof. Y. Spa, e con T.A., che le stesse debbano seguire la soccombenza, nella misura che si indicherà in dispositivo, e con condanna al pagamento delle stesse, in solido tra loro, da parte dei predetti convenuti;

ritenuto, quanto alle spese tra la società X. X., Casa di Cura Prof. Y. Spa, e la società Milano Assicurazioni, che parimenti le stesse debbano seguire la soccombenza, nella misura che si indicherà in dispositivo (e cfr. Cass., sez. II, nr. 8166 del 28.8.1997, Rv 507270, che ha affermato come “se è accolta la domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti di un terzo, il giudice non può limitarsi a condannare questi al pagamento di quanto dal primo dovuto all’attore anche per spese processuali, dovendo invece liquidare anche le spese occorse per la chiamata in causa”),

P.Q.M.

Il Tribunale di Foggia, prima sezione civile, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da F.M. nei confronti della società X. X., Casa di Cura Prof. Y. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, di T.A. e di B.U., nonché sulle domande spiegate dalla società X. X. nei confronti della MILANO ASSICURAZIONI Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, e da B.U. nei confronti della Carige Assicurazioni Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, ogni altra domanda od eccezione rigettata, così provvede:

Rigetta la domanda formulata da F.M. nei confronti di B.U., e condanna F.M. al pagamento delle spese processuali in favore di B.U., che liquida in complessivi euro 4.500,00 (fasi di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria), oltre Iva e cap come per legge;

Rigetta la domanda spiegata da B.U. nei confronti della Carige Assicurazioni Spa;

condanna F.M. al pagamento delle spese processuali in favore della Carige Assicurazioni Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, che liquida in complessivi euro 4.500,00 (fasi di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria), oltre Iva e cap come per legge;

Accoglie la domanda formulata da F.M. nei confronti della società X. X., Casa di Cura Prof. Y. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, e di T.A., e per l’effetto condanna i medesimi, in solido tra loro, al risarcimento del danno in favore di F.M., che liquida in complessivi euro 28.103,14 (importo già comprensivo di rivalutazione ed interessi sino all’attualità sul capitale), oltre interessi legali dalla data della presente pronuncia sino all’effettivo soddisfo, e condanna altresì i medesimi convenuti, in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali in favore di F.M., e per essa in favore dell’avv.to A.U.G., antistatario, che liquida in complessivi euro 4.500,00 (fasi di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria), oltre Iva e cap come per legge, oltre al rimborso delle spese, pari a euro 508,00, ed oltre al rimborso delle spese di CTU, come già liquidate in corso di causa e provvisoriamente poste a carico di parte attrice;

accoglie la domanda avanzata dalla società X. X., Casa di Cura Prof. Y. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, nei confronti della società Milano Assicurazioni Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, e per l’effetto condanna la Milano Assicurazioni Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, a tenere indenne la società X. X., Casa di Cura Prof. Y. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, di quanto essa è tenuta a versare all’attrice in forza del capo 4);

condanna la Milano Assicurazioni Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese del presente giudizio nei confronti della società X. X., Casa di Cura Prof. Y. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, che liquida in complessivi euro 4.500,00 (fasi di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria), oltre Iva e cap come per legge.

Così deciso in Foggia, lì 23.5.2013

Il Giudice

Michele NARDELLI