Un medico convenzionato con il SSN per l’assistenza primaria ha chiesto la condanna della Regione al risarcimento dei danni derivati dall’inadempimento della amministrazione rispetto all’obbligo di comunicargli il numero degli assistiti a suo carico, con la conseguenza che il professionista aveva prestato la propria opera per un numero di assistiti superiore al massimale consentito senza ricevere alcun compenso per i pazienti in esubero.

Sia in primo grado che in appello la domanda veniva respinta e il medico ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Cassazione Civile – Sez. Lav.; Sent. n. 16640 del 01.10.2012

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A.  N. , medico convenzionato con il SSN, ha chiesto la condanna della Regione Lazio al risarcimento dei danni derivatigli, sotto il profilo dell’inadempimento contrattuale o della lesione di un suo interesse legittimo,  dall’inadempimento dell’Amministrazione all’obbligo di comunicargli il numero degli assistiti a suo carico, con la conseguenza che egli aveva prestato la propria opera professionale per un numero di assistiti superiore al massimale consentito, senza ricevere alcun compenso per gli assistiti in esubero.

La domanda è stata respinta dal Tribunale di Roma con sentenza che è stata confermata dalla Corte d’appello della stessa città, che ha ritenuto che il denunciato inadempimento di informativa da parte dell’ente a ciò obbligato non si poneva in collegamento causale con il lamentato mancato guadagno e non poteva, dunque, costituire fonte di danno risarcibile, atteso che il medico era tenuto, in base alla disciplina legale e contrattuale, ad adeguare il numero degli assistiti nei limiti del massimale e, in difetto di rientro, aveva diritto ad un compenso complessivo mensile convenzionalmente determinato in misura pari al massimale anche a fronte di eventuali prestazioni eccedenti, senza che sull’esistenza di tale obbligo potesse incidere il mancato invio da parte della USL degli elenchi nominativi relativi alle scelte operate dagli assistiti. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione A.  N.  affidandosi a due motivi cui resiste con controricorso la Regione Lazio.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 1256 c.c. e delle norme transitorie D.P.R. 13 agosto 1981, n. 3 e D.P.R. 8 giugno 1987, n. 289, n. 4 nonché vizio di motivazione, relativamente alla statuizione con la quale la Corte territoriale, pur riconoscendo l’esistenza dell’inadempimento della Regione agli obblighi di informativa, ha poi respinto la domanda risarcitoria, chiedendo a questa Corte di stabilire se “l’obbligazione a carico del medico  convenzionato di procedere alle ricusazioni dei pazienti per il numero di essi eccedente il massimale deve ritenersi estinta, ai sensi dell’art. 1256 c.c., qualora l’amministrazione non abbia preventivamente informato il sanitario dell’effettivo numero dei pazienti a suo carico, in tempo per procedere a tali ricusazioni” e se “nella suddetta fattispecie l’amministrazione inadempiente alle sue obbligazioni in tema di gestione e informazione sul numero degli assistiti è tenuta a risarcire il danno che il medico possa aver

subito in conseguenza di tale comportamento”.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 112 e 342 c.p.c., dell’art. 2041 c.c., nonché vizio di motivazione, relativamente alla statuizione con la quale è stata respinta la domanda ex art. 2041 c.c., chiedendo a questa Corte di stabilire se “il requisito della specificità dei motivi di appello di cui all’art. 342 c.p.c. deve essere esaminato alla luce dell’intero testo dell’atto di appello, essendo sufficiente che sia indicato in un punto di tale atto, con riferimento per relationem ad altro punto”.

 

3.- Il primo motivo è infondato. Il quesito di diritto formulato dal ricorrente deve trovare risposta nei principi già affermati da questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 2838/2009, Cass. n. 15144/2008) secondo cui ove il sanitario abbia preso in carico un numero di assistiti in misura eccedente il massimale consentito dall’accordo nazionale stipulato ai sensi della L. n. 833 del 1978, art. 48 per i quali non è previsto alcun compenso, va escluso che sia configurabile un diritto al risarcimento del danno per i compensi non percepiti, trattandosi di pretesa fondata su una condotta contra legem, che non può essere fonte di diritti soggettivi.

4.- Invero, “la L. n. 833 del 1978, art. 48 proporziona il trattamento economico del personale sanitario con rapporto convenzionale al numero degli assistiti, prevedendo altresì un “numero massimo di assistiti”, con la conseguenza che l’assunzione, da parte del medico, di un numero superiore rileva a suo carico, per quanto riguarda il diritto al compenso, non già quale violazione di un obbligo (d’onde l’inconsistenza del richiamo all’art. 1256 c.c., e la non pertinenza del quesito di diritto), bensì quale inosservanza di un divieto, a cui consegue l’impossibilità di essere remunerato per gli assistiti “ultramassimale”; ne’ sussiste alcuna impossibilità, per il medico, di conoscere il numero dei suoi assistiti, ossia di osservare il detto divieto, giacché l’obbligo, assunto per convenzione, di prestare le cure mediche a ciascuno di loro che le richieda ne presuppone la conoscibilità dell’identità e quindi del numero complessivo” (Cass. n. 2838/2009 cit.). Sicché, “in un assetto normativo nel quale sussiste un divieto di tenere un determinato comportamento (nella specie, assumere in carico assistibili oltre il numero stabilito, senza autorizzazione) ed è espressamente prevista la mancanza di un compenso, non è ipotizzabile un diritto al risarcimento del danno, perché il fatto dal quale deriva la pretesa risarcitoria è contra legem e quindi non può essere fonte di diritto soggettivo” (Cass. n. 15144/2008 cit.).

5.- Anche il secondo motivo è infondato poiché la statuizione con cui la Corte d’appello ha rigettato la domanda subordinata è fondata, oltre che sul difetto di specificità delle censure, sul rilievo della mancanza dei presupposti dell’azione di arricchimento, ed in particolare di un arricchimento senza causa della p.a., di una corrispondente diminuzione patrimoniale del medico e del

riconoscimento dell’utilità dell’opera da parte della p.a. E tale pronuncia si sottrae, sotto questo profilo, alle censure che le vengono mosse in questa sede in quanto la Corte territoriale ha fatto puntuale applicazione dei principi più volte ribaditi da questa Corte, secondo cui l’azione di indebito arricchimento è esperibile nei confronti della pubblica amministrazione soltanto quando sia intervenuto, da parte di questa, il riconoscimento dell’utilità dell’opera, la cui mancanza è desumibile anche dall’esistenza di un divieto, da parte dell’ente pubblico, di effettuare l’opera o la prestazione (e che non è certamente desumibile da elenchi che riportano soltanto il numero degli assistiti in carico oltre il massimale, e così di soggetti soltanto potenzialmente assistibili). Inoltre, l’arricchimento senza causa non sussiste quando lo squilibrio economico a favore di una parte ed in pregiudizio dell’altra sia giustificato dal consenso di quella che assume di essere stata danneggiata, in quanto la prestazione volontaria esclude l’arricchimento, quali che siano le conseguenze, vantaggiose o svantaggiose, della libera e concorde determinazione della volontà negoziale (cfr. oltre alla già citata Cass. n. 15144/2008, anche Cass. n. 24580/2008, Cass. n. 12616/2007, Cass. n. 22443/2006, nonché Cass. n. 6260/2006, secondo cui l’arricchimento senza causa della p.a., che giustifica ai sensi dell’art. 2041 c.c. l’erogazione di un indennizzo a favore del soggetto privato depauperato, deve consistere nell’acquisto di un bene o di una somma di denaro o, se trattasi di un pubblico servizio, in un miglioramento dello stesso oppure nel mantenimento della sua qualità con una spesa minore, mentre il medico di libera scelta, convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale, che abbia in carico un numero di assistibili eccedente rispetto a quello previsto dall’accordo nazionale di cui alla L. n. 833 del 1978, art. 48 superando il limite massimo consentito, si è posto in condizione di non poter assicurare a ciascun paziente il livello minimo qualitativo, oltre che quantitativo, di assistenza che a costui è dovuto).

6.- In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con la conferma della sentenza impugnata, restando assorbite in quanto sinora detto tutte le censure non espressamente esaminate.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 giugno 2012. Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2012