Il responsabile di uno studio medico – Direttore responsabile della struttura – per la peculiarità della funzione posta a tutela di un bene primario, ha l’obbligo di verificare, in via prioritaria ed assorbente, non solo i titoli formali dei suoi collaboratori, curando che in relazione ai detti titoli essi svolgano l’attività per cui risultano abilitati, ma ha altresì l’ulteriore, concorrente e non meno rilevante obbligo di verificare in concreto, che, al formale possesso delle abilitazioni di legge, corrisponda un accettabile standard di “conoscenze e manualità minimali”, conformi alla disciplina ed alla scienza medica in concreto praticate.

Una volta accertato il mancato rigoroso adempimento degli obblighi di verifica formale dei titoli abilitanti il concreto esercizio della professione, il direttore dello studio medico, non solo risponde del concorso nel reato di esercizio abusivo della professione con la persona non titolata, ma risponde del pari, degli illeciti, prevedibili secondo l'”id quod plerumque accidit” e derivati dalla mancata professionalità del collaboratore la cui competenza formale e sostanziale non sia stata convenientemente verificata.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

C.P.A., ricorre, a mezzo del suo difensore, avverso la sentenza 25 ottobre 2012 della Corte di appello di Venezia 1. le difformi decisioni dei giudici di merito.

L’odierno procedimento è nato dalla querela presentata da Co.

G.M. nei confronti di N. e del dr. C. nella quale si descrivevano le conseguenze lesive subite, a seguito di un intervento consistito nell’applicazione di un impianto endoosseo da parte del N. il quale operava, privo della prescritta abilitazione, all’interno dello studio in cui il dottor C. esercitava la professione di medico odontoiatra.

Con sentenza in data 24 aprile 2009, il Tribunale di Treviso in composizione monocratica dichiarava C.P.A. responsabile del reato di cui agli artt. 110 e 348 c.p., contestato al capo A) e, concesse le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di Euro 300 di multa, con il beneficio della non menzione della condanna; assolveva l’imputato dal delitto di lesioni in danno del querelante Co. contestato al capo B) per non aver commesso il fatto.

Secondo l’ipotesi accusatoria, il C., in qualità di medico responsabile dal 2001 al 7/12/05 dello studio dentistico corrente in X. , consentiva a N.W. di esercitare abusivamente la professione di medico odontoiatra eseguendo le prestazioni descritte nel capo di imputazione (capo A);

inoltre, attraverso tale attività concorsuale, lì consentiva al N. stesso di eseguire un intervento di applicazione di un impianto endosseo in settore premolare inferiore destro del paziente CO., applicazione contraddistinta da grave colpa, a seguito della quale derivavano al paziente lesioni personali con incapacità protratta per oltre 40 giorni (capo B).

Con sentenza 25 ottobre 2012, a seguito dell’appello proposto dal Procuratore generale e dall’imputato C. (il N. ha definito la sua posizione con richiesta di applicazione della pena), la corte distrettuale, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Treviso, ha confermato la responsabilità per il capo A) e ha dichiarato l’imputato responsabile anche del reato di cui al capo B). Riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, ritenuto il concorso formale tra i reati, più grave il reato sub B), la Corte di appello ha condannato il C. alla pena di mesi 1 e giorni 3 di reclusione. Pena sospesa.

I motivi di impugnazione e le ragioni della decisione di questa Corte.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, in relazione all’art. 348 c.p..

In particolare:

a) si contesta che la condotta di mera connivenza o tolleranza possa integrare l’azione esecutiva del delitto, essendo ricorsa la corte distrettuale a giudizi di verisimiglianza e con fuorviante richiamo a posizione di garanzia non essendo l’illecito un reato di evento;

b) si evidenzia che la notizia della mancanza di titoli divenne nota all’imputato (direttore sanitario dello studio medico ove il N. prestava la sua opera) solo all’atto della denuncia del paziente e la corte distrettuale non ha affatto dimostrata la conoscenza in capo al ricorrente della condotta illecita del suo collaboratore.

Il motivo non è fondato, pur nella corretta osservazione della insussistenza di una posizione di garanzia (cfr. Cass. pen. sez. 6, 29 ottobre 2012, 42174/12, Cembalo), richiamata sì dai giudici di merito ma non decisiva nell’economia della giustificazione proposta.

Trattasi all’evidenza di non consentite censure in fatto, attraverso doglianze che riguardano la ricostruzione del fatto compiuta dai giudici di merito, mediante la prospettazione di vizi logici della motivazione.

Nella specie infatti la corte distrettuale ha affermato la certa attribuibilità degli illeciti all’imputato, valorizzando i consistenti elementi di prova in atti, che sono stati verificati e pesati nel loro insieme con rigore e correttezza, confluendo in una ricostruzione logica e unitaria del fatto e nell’affermazione di responsabilità.

Da ciò è derivata una motivazione rispondente ai canoni stabiliti dall’art. 192 c.p.p., ed il procedimento probatorio che ha fondato l’affermazione di colpevolezza resiste alle censure di merito, inammissibili, formulate dal ricorrente il quale tende a proporre una non consentita lettura alternativa degli eventi, a fronte di una corretta applicazione da parte della corte distrettuale dei criteri che informano il giudizio sulla sussistenza dell’azione esecutiva e della soggettività del delitto ex art. 348 c.p..

Questa Corte si è invero ripetutamente espressa nel senso che risponde a titolo di concorso (cfr. sentenza ultima citata 42174/12) nel delitto de quo chiunque consenta o agevoli lo svolgimento da parte di persona non autorizzata di attività professionale per cui è richiesta come nella specie una specifica abilitazione dello Stato (cfr. Cass. pen. sez. 6, 17893/2009, Zuccarelli; 13170/2012, Colleoni).

Nella vicenda quindi la corte distrettuale bene ha affermato la certa attribuibilità degli illeciti all’imputato, valorizzando i consistenti elementi di prova in atti, che sono stati verificati e pesati nel loro insieme con rigore e correttezza, confluendo in una ricostruzione logica e unitaria del fatto e nell’affermazione di responsabilità.

Da ciò è derivata una motivazione rispondente ai canoni stabiliti dall’art. 192 c.p.p., ed il procedimento probatorio che ha fondato l’affermazione di colpevolezza resiste alle censure di merito, inammissibili, formulate dal ricorrente il quale tende a proporre una non consentita lettura alternativa degli eventi.

Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione per l’affermato concorso morale, del medico prestanome nel delitto di abusivo esercizio della professione, in ordine alla successiva responsabilità a titolo di cooperazione colposa per il delitto di lesioni colpose realizzato in danno di un paziente curato esclusivamente dal professionista “sine titulo”.

Anche questa doglianza non può essere accolta.

in tema di cooperazione nel delitto colposo, perchè la condotta di ciascun concorrente risulti rilevante ai sensi dell’art. 113 c.p., occorre che essa, singolarmente considerata, violi la regola di cautela, e che tra le condotte medesime esista un legame psicologico (Cass. pen. sez. 4, 44623/2005 Rv. 232611).

Il responsabile di uno studio medico (nella specie Direttore responsabile della struttura medica), per la peculiarità della funzione posta a tutela di un bene primario, giusta testuale disposto dell’art. 33 della Carta costituzionale, ha l’obbligo di verificare, in via prioritaria ed assorbente, non solo i titoli formali dei suoi collaboratori, curando che in relazione ai detti titoli essi svolgano l’attività per cui essi risultano abilitati, ma ha altresì l’ulteriore, concorrente e non meno rilevante, obbligo di verificare in concreto, che, al formale possesso delle abilitazioni di legge, corrisponda un accettabile standard di “conoscenze e manualità minimali”, conformi alla disciplina ed alla scienza medica in concreto praticate.

Nella specie quindi, una volta accertato il mancato rigoroso adempimento degli obblighi di verifica formale dei titoli abilitanti il concreto esercizio della professione, il direttore dello studio medico, non solo risponde del concorso nel reato di cui all’art. 348 c.p., con la persona non titolata, ma risponde del pari, ex art. 113 c.p., degli illeciti, prevedibili secondo l'”id quod plerumque accidit” e derivati dalla mancata professionalità del collaboratore la cui competenza formale e sostanziale non sia stata convenientemente verificata.

E quanto fosse semplice il primo accertamento (titoli) lo si rileva dalla stessa narrativa del ricorso, laddove consta che nella specie, è bastato il mero “contatto” con l’ordine dei medici per ricevere conferma di quanto esposto in denuncia (circa la non iscrizione nell’albo) e che identico convergente risultato ha dato l’esito di domande tecniche (competenza professionale) rivolte dal dr. C., che le ha definite addirittura “domandine”, al N. in punto di fisologia, fisiopatologia e di farmacologia.

Il ricorso pertanto risulta infondato, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonchè apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione che è stata formulata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 24 aprile 2013.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2013