La Corte d’appello di Roma ha confermato la pronuncia di primo grado con la quale una ginecologa era stata condannata per il reato previsto dalla legge sulla IVG in quanto per colpa aveva cagionato l’aborto del feto.

Secondo i giudici di merito, l’imputata non aveva per tempo individuato lo stato ipossico cronico pur documentato dai tracciati cgt eseguiti. Gli accertamenti strumentali infatti evidenziavano una sofferenza fetale. Nonostante ciò la professionista ometteva di intervenire tempestivamente, e quindi non operava, né disponeva, nei tempi necessari, parto cesareo elettivo e cagionava, in tal modo, la morte intrauterina del feto sopravvenuta per insufficienza placentare acuta e conseguente anossia intrauterina.

Cassazione Penale – Sez. V; Sent. n. 11804 del 11.03.2014

Ritenuto in fatto

 1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la corte di appello di Roma ha confermato la pronuncia di primo grado, con la quale R.S. era stata condannata a pena di giustizia in quanto riconosciuta colpevole del reato di cui all’articolo 17 legge 194/1978, in quanto, quale ginecologa di fiducia della gestante P.T. , per colpa, consistita in imprudenza, negligenza e imperizia, aveva cagionato l’aborto del feto della medesima, evento verificatosi in X.  .

Secondo i giudici di merito, l’imputata non aveva per tempo individuato lo stato ipossico cronico del feto, pur documentato dai tracciati cgt eseguiti fin dal giorno 8 settembre 2004. Gli accertamenti strumentali infatti evidenziavano una sofferenza fetale. Nonostante ciò, la R. – per quel che si legge nelle sentenze di primo e secondo grado – ometteva di intervenire tempestivamente, e quindi non operava, né disponeva, nei tempi necessari, parto cesareo elettivo e cagionava, in tal modo, la ricordata morte intrauterina del feto, morte sopravvenuta per insufficienza placentare acuta e conseguente anossia intrauterina.

2. Ricorre per cassazione il difensore, il quale, dopo avere ricordato il fatto e dopo aver sintetizzato (in cinque pagine) lo sviluppo procedimentale, articola due censure.

3. Con la prima censura, deduce assoluta carenza di motivazione, ovvero mera apparenza della stessa. La sentenza impugnata non fa che riportare le dichiarazioni rese dai testi escussi nel corso dell’istruttoria dibattimentale in primo grado. I giudici di appello dichiarano – puramente e semplicemente – di aderire alla ricostruzione dei fatti operata dai primi giudicanti e addirittura riportano, quasi per intero, il testo della sentenza di primo grado. Si tratta dunque di una motivazione interamente redatta per relationem, la quale non risponde affatto alle censure mosse con l’atto di appello. Invero, i secondi giudici avrebbero dovuto analizzare la decisione di primo grado in modo puntuale, alla luce delle critiche ad essa mosse dall’appellante; viceversa, essi hanno enunciato le motivazioni in poche, sintetiche righe. Si tratta per altro di affermazioni tautologiche, le quali fanno interamente riferimento al decisum del tribunale.

4. Con la seconda censura, deduce carenza dell’apparato motivazionale e violazione dell’articolo 192 cpp. La corte d’appello non ha proceduto a una valutazione unitaria dell’intero materiale probatorio a sua disposizione, ma ha valutato le singole emergenze ed evidenze processuali in modo parcellizzato. Invero, non vi è prova negli atti processuali che l’atteggiamento asseritamente omissivo assunto dall’imputata abbia causato la morte del feto.

I giudici di merito non tengono in adeguato conto il fatto che la dottoressa R. prescrisse ben 25 esami clinici alla P. e che detti esami dettero per lungo periodo valori rassicuranti in ordine allo sviluppo del feto. Essi attestavano lo stato di benessere del nascituro. In data 8 e 10 settembre 2004 la ricorrente ebbe ad eseguire ulteriori controlli, cui seguì un esame di flussimetria effettuato, su richiesta della R. , dal dottor Ro. . L’esito di tale esame, contrariamente a quel che ritengono i giudici del merito, evidenziò semplicemente ‘una lieve riduzione delle resistenze al livello centrale’ e dunque, sostanzialmente, un quadro clinico non preoccupante ma ‘del tutto accettabile’. È pur vero che il dottor Ro. consigliò ulteriori controlli del benessere fetale, ma si trattò di una raccomandazione alquanto blanda, perché, come riferito dal medesimo teste in udienza, egli segnalò alla P. che la sua situazione era ‘un po’ particolare’ e andava seguita con attenzione. Dunque: fino al 13 settembre, le condizioni della paziente e del feto non destavano particolare preoccupazione. Il X.  la ricorrente sottopose nuovamente la paziente a controllo e l’esito fu, ancora una volta, rassicurante. Solo il 20 dello stesso mese la R. fu in grado di percepire che le condizioni del nascituro erano peggiorate. Ella quindi consigliò immediatamente alla P. di recarsi nella vicina clinica X.  per l’espletamento del parto cesareo. Tali circostanze sono state ampiamente confermate dalla segretaria dell’imputata, la signora Pa.Ma. , della cui deposizione i giudici di merito – arbitrariamente – non hanno tenuto alcun conto. La P. giunse in clinica alle 17.00; lì ella fu sottoposta a ulteriore accertamento, ma l’intervento per il parto cesareo fu disposto solo alle ore 18.30. È evidente quindi che i ritardi verificatisi nella struttura sanitaria non possono essere posti a carico della R. . La corte d’appello trascura il fatto che, se i sanitari della clinica non avessero atteso un’ora e mezza prima di eseguire il taglio cesareo, il feto sarebbe nato vivo. Ed è per altro anche sulla sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dell’imputata e l’evento morte che la sentenza di secondo grado appare manchevole, anche perché trascura del tutto l’evoluzione giurisprudenziale, fino alla cosiddetta sentenza delle SS.UU. Franzese, sempre successivamente confermata dalle pronunzie delle sezioni semplici. Attribuire arbitrariamente alla condotta pretesamente omissiva della ricorrente la morte del feto sostanzia un giudizio che non rispetta il canone di garanzia del convincimento oltre ogni ragionevole dubbio, anche perché manca qualsiasi valutazione ispirata al cosiddetto giudizio controfattuale, vale a dire quel ragionamento, in base al quale, ipotizzando che l’imputata si fosse attivata così come pretendono i giudici del merito, il feto non sarebbe morto. Di tutto ciò non vi è traccia alcuna nella sentenza d’appello, che, come si ripete, si limita a una semplice trasposizione grafica di quanto sostenuto in precedenza dal giudice di primo grado. Risulta dagli atti che l’intervento operatorio fu effettuato con colpevole ritardo, nonostante la paziente avesse certamente rappresentato l’urgenza del caso.

5. In data 28 gennaio 2014 sono stati depositati motivi nuovi: il difensore ricorda l’entrata in vigore della legge numero 189 del 2012 e le conseguenti pronunzie giurisprudenziali. Detta legge, entrata in vigore pochi giorni dopo la proposizione del ricorso, si segnala in particolare per il suo articolo 3 che, come è noto, stabilisce che “l’esercente le professioni sanitarie, che, nello svolgimento della propria attività, si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve’.

Con tale intervento legislativo si è voluto evidentemente affermare che la colpa medica giuridicamente rilevante è solo la colpa grave (e, ovviamente, gravissima) e che – dunque – se il medico si attiene a quelle che sono le indicazioni metodologiche elaborate, nel corso degli anni, dalla comunità scientifica, una eventuale, trascurabile imprecisione nella pratica applicazione dei criteri sopra ricordati non può determinare sua responsabilità. In altre parole, è solo la macroscopica violazione delle regole della ars medica quella che può fondare una pronuncia di addebito nei confronti del sanitario. Dunque: la colpa assume connotati di grave entità unicamente quando l’erronea conformazione dell’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalla necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente. Può, pertanto, parlarsi di colpa grave solo quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate assumono un chiaro rilievo, che non lasci residuare alcun dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente. Ebbene: se si pone attenzione ai tratti specifici della vicenda, non si potrà trascurare il fatto che il quadro patologico si presentava oscuro, con conseguente difficoltà di cogliere le informazioni cliniche in grado di segnalare la atipicità della situazione. La R. si è attenuta agli schemi comportamentali, diagnostici e terapeutici, imposti dalle leges artis. Le sue diagnosi sono sempre state corrette e se errore (minimo) vi è stato, esso attiene all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze nel caso concreto. Il predetto articolo 3, invero, tiene conto della complessità della scienza medica, anche allo scopo precipuo di evitare che la responsabilità del medico venga meccanicamente riconosciuta ogni qualvolta vi sia un exitus sfavorevole. A tutto voler concedere, dunque, si è in presenza di un errore nella fase esecutiva, non certo di una negligenza nella fase di accertamento, dovendosi ricordare, come sopra premesso, a) che la P. fu sottoposta a 25 esami clinici, b) che la stessa fu sottoposta flussimetria, c) che la paziente fu immediatamente avviata in clinica quando la situazione si mostrò preoccupante.

In sintesi: una situazione inizialmente ottimale, è andata lievemente modificandosi nel corso del tempo ed è precipitata improvvisamente negli ultimi giorni. Dunque: il solo errore eventualmente attribuibile alla R. è stato quello di non prescrivere, dopo il 15 settembre, ulteriori monitoraggi prima del parto, ma la rapidità dell’evoluzione negativa non può non essere considerata a vantaggio della ricorrente.

 Considerato in diritto

Sulla base di una rilettura delle emergenze processuali (documenti clinici, dichiarazioni dei consulenti tecnici, testimonianze), il giudice di secondo grado giunge motivatamente ad una conferma dell’affermazione di responsabilità per la condotta omissiva tenuta dalla R. . In particolare, viene valorizzato il dictum del dottor Ro. , esecutore della flussimetria, il quale, come si legge in sentenza (terzultima pagina), aveva definito borderline la situazione della P. e aveva consigliato ulteriori controlli del benessere fetale, controlli che peraltro, secondo la sua specifica indicazione, dovevano essere ‘strettamente ravvicinati’. Veniva quindi eseguito un tracciato cgt dall’esito, anche esso, poco rassicurante. Sulla base di tali obiettivi dati e delle considerazioni formulate dai consulenti B. e Re. , la corte giunge, non illogicamente, né immotivatamente (e condividendo il giudizio formulato dal tribunale), alla conclusione che la R. aveva tutti gli elementi per riconoscere lo stato di sofferenza del feto e – quindi – per assumere tutte le iniziative del caso, non esclusa la anticipazione del parto cesareo, già programmato per il 21 settembre.

2.2. È dunque improprio parlare, così come si fa nel ricorso, di rapidità dell’evoluzione negativa, in quanto detta evoluzione iniziò quasi una settimana prima dell’esito finale e, quel che più conta, fu certamente portata all’attenzione della imputata.

2.3. Sempre dalla sentenza impugnata, si evince: a) che il giorno 20 settembre la P. , avendo operato una sorta di ‘autodiagnosi’ (si sentiva ‘strana’), giunse nello studio della R. intorno alle 17 30, b) che la stessa fu visitata e che solo circa 20 minuti dopo fu avviata presso la vicina clinica, che, a quanto pare, alla raggiunse con le sue gambe. Poiché la donna non era stata, evidentemente, sensibilizzata circa la gravità della sua situazione, ella non passò neanche per il pronto soccorso (percorso che avrebbe accelerato i tempi di ricovero), ma si pose disciplinatamente in fila all’accettazione. Ciò – e lo si evince con chiarezza dalla lettura integrata delle sentenze di primo e secondo grado – determinò un fatale, ulteriore ritardo dell’intervento chirurgico, che, tuttavia, fu immediatamente disposto non appena i sanitari della X.  si resero conto della gravità della situazione. Nessun rilievo possono poi avere le denunziate (dal difensore) erronee annotazioni sulla cartella clinica compilata in clinica, atteso che la ‘tempistica’ sopra descritta risulta anche aliunde e, comunque, è ricavabile dalle stese dichiarazioni della P. .

3. Quanto alla sussistenza del nesso causale tra la condotta emissiva della ricorrente e l’evento morte del feto, la sentenze di merito, che, come premesso, si integrano vicendevolmente, pongono in adeguata evidenza il fatto che, se la ginecologa avesse per tempo intuito la gravità delle condizioni e avesse, conseguentemente, anticipato l’intervento di parto cesareo, il feto sarebbe nato vivo. Ciò, evidentemente, i giudici del merito affermano sulla base delle consulenze tecniche che, a quanto è dato intuire, non sono state contrastate, appunto, in sede di merito, ma le cui risultanze vengono – ormai tardivamente – poste in dubbio innanzi a questo giudice di legittimità.

4. Quanto infine alla ‘portata restrittiva’ dell’articolo 3 della legge 189/2012, è di tutta evidenza che essa non esplica alcun effetto nel caso in scrutinio. Invero è stato ritenuto (ASN 201316237- RV 255105) che, in tema di responsabilità medica, il predetto articolo esclude la rilevanza della colpa lieve con riferimento a quelle condotte che abbiano osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica.

4.1. Ma certamente non può considerarsi corretta o virtuosa una condotta che non abbia tenuto in nessun conto gli allarmanti segnali di pericolo che, anche in seguito ad accertamenti strumentali, si andavano addensando sul capo della P. , segnali che la R. ignorò o comunque non percepì nella loro effettiva gravità, tanto che, anche in data 20 settembre, la stessa non rappresentò nemmeno alla diretta interessata l’assoluta urgenza del suo ricovero e del conseguente intervento, come si evince, sulla base di quanto si legge in sentenza, dalla stessa condotta della P. , la quale, come premesso, una volta fatto ingresso nella clinica X.  , si adattò a seguire la normale trafila burocratica, quando ormai, inconsapevolmente, portava in grembo un feto in irreversibile stato preagonico.

Non si trattava – dunque – per i giudici del merito di accertare se le circostanze concrete fossero tanto equivoche da ingenerare il convincimento che dovesse/potesse tenersi una condotta diversa da quella prescritta dalle linee guida suggerite dalle leges artis. Sta di fatto che la sentenza ricorsa – seppure con le particolari modalità espositive sopra ricordate – ha posto in evidenza che l’imputata non rispettò affatto le elementari linee guida della professione, atteso che il caso concreto non presentava alcuna peculiarità, ma evidenziava semplicemente una riconoscibile situazione di pericolo di una gravidanza a rischio che, come tale, peraltro, era stata individuata dalla stessa R. ab origine, essendo la P. una paziente ipertesa (cfr. sentenza di primo grado, ‘incorporata’ nella sentenza di appello, che fa riferimento alla cartella clinica in atti).

5. Per le ragioni sopra esposte, le censure sono da considerarsi infondate e il ricorso, di conseguenza, va rigettato, come si è premesso, agli effetti civili.

La ricorrente va condannata al rimborso delle spese sostenute nel grado dalla costituita parte civile, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione; rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel grado, spese che liquida in complessivi Euro 2.800 (duemilaottocento), oltre accessori, come per legge.