La giurisprudenza ha posto in luce i contesti che per la loro difficoltà possono giustificare una valutazione benevola del comportamento del sanitario: da un lato le contingenze in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche; e dall’altro le situazioni nelle quali il medico si trovi ad operare in emergenza e quindi in un contesto che può rendere quasi sempre difficili anche le cose facili. Quest’ultima notazione, valorizzata come si deve, apre alla considerazione delle contingenze del caso concreto che dischiudono le valutazioni sul profilo soggettivo della colpa, sulla concreta esigibilità della condotta astrattamente doverosa.

Cassazione Penale – Sent. N. 24528 del 10.06.2014

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il Tribunale di Palermo ha affermato la responsabilità dell’imputato in epigrafe in ordine al reato di omicidio colposo in danno di C.R. e lo ha altresì condannato al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili. La sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello di Palermo.

Secondo quanto ritenuto dai giudici di merito l’imputato, medico in servizio presso un’ambulanza del servizio 118, di fronte a paziente in stato di coma per assunzione di psicofarmaci ed alcool, ometteva di effettuare toilette del cavo orale ed intubazione orotracheale; e somministrava un farmaco emetizzante, cagionando la morte dell’assistito per asfissia da occlusione della via respiratoria.

2. Ricorre per cassazione l’imputato.

Si espone che la prima sentenza è affetta da errori in fatto. Non è vero che l’imputato fosse al corrente della consumazione di un pasto.

Tutti i testi, eccezion fatta per il figlio della vittima, e gli atti di polizia parlano dell’assunzione di alcol e psicofarmaci. La difesa lo ha rappresentato. La Corte d’appello non ha motivato al riguardo.

Inoltre il consulente dell’accusa ha riferito in dibattimento che la somministrazione di Anexate era corretta, dovendosi contrastare gli effetti dei sedativi. Pure al riguardo la Corte d’appello ha taciuto, ignorando le deduzioni difensive in ordine all’utilità di tale farmaco. Dunque pure qui vi è mancanza di motivazione.

La mancata considerazione di tali decisive acquisizioni ha radicalmente vulnerato la valutazione della Corte d’appello. Si è teorizzato un inesistente rischio ab ingestis e la necessità di toilette orale ed intubazione. Si è pure trascurato che l’intubazione richiede anestesia, che nella fattispecie era decisamente controindicata. La pronunzia si è limitata a richiamare acriticamente la prima sentenza senza valutare, come dovuto, le deduzioni difensive.

Pure carente ed assiomatica è la sentenza quanto all’effetto salvifico delle condotte omesse. La consulente del pubblico ministero aveva evidenziato le gravi criticità del paziente, etilista cronico.

Nulla di concreto viene dimostrato al riguardo. La sentenza ha pure trascurato le valutazioni espresse dai consulenti della difesa a dimostrazione della correttezza della condotta terapeutica del ricorrente; ed in particolare sulle controindicazioni all’intubazione domiciliare in via d’urgenza.

Alla stregua di tali considerazioni si censura pure l’incongruità del rifiuto di disporre perizia in appello.

Pure incongruamente e con motivazione apparente sono state escluse le attenuanti generiche, tra l’altro trascurando la condizione di emergenza che caratterizzò l’intervento dell’imputato.

3. Il ricorso è fondato.

La sentenza d’appello reca enunciazioni vaghe e non consonanti quanto all’esistenza ed alla conoscenza del rischio ab ingestis, connesso all’assunzione di cibo da parte della vittima. La pronunzia non risolve i dubbi al riguardo, proponendo enunciazioni che non si rapportano ad una compiuta valutazione del discordante materiale probatorio, così come prospettato dalla difesa.

L’impugnazione è pure nel complesso fondata quando censura la ritenuta esistenza di condotta colposa per la mancata effettuazione di intubazione orotracheale. Non si spiega in cosa esattamente tale intervento consistesse, quali fossero i suoi rischi reali, rapportati alla situazione di emergenza nella quale il sanitario si trovava.

Soprattutto non si spiega se un intervento che, per quanto pare d’intendere, è connotato da una certa complessità, fosse concretamente praticabile ed esigibile nei confronti del ricorrente.

Non si chiarisce quale fosse il livello di competenza professionale del sanitario e non si raffronta la sua condotta con la figura corrispondente di agente modello. Soprattutto non si considera la particole temperie nella quale l’intervento sanitario fu praticato, conducendo, tra l’altro ad un certo miglioramento della drammatica situazione complessiva del paziente. Si trascura cioè che si era in una pressante emergenza; condizione segnalata dalla difesa e degna di particolare considerazione.

Sul tema questa Corte si è ripetutamente espressa (Da ultimo sez. IV, 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105). A proposito della disciplina di cui all’art. 2236, si è considerato che essa, indipendentemente dalla sua discussa, diretta applicabilità all’ambito penale, esprime un criterio di razionalità del giudizio. Si è così affermato (Sez. 4, n. 39592 del 21 giugno 2007, Buggè, Rv. 237875) che la norma civilistica può trovare considerazione anche in tema di colpa professionale del medico, quando il caso specifico sottoposto al suo esame impone la soluzione di problemi di specifica difficoltà, non per effetto di diretta applicazione nel campo penale, ma come regola di esperienza cui il giudice può attenersi nel valutare l’addebito di imperizia sia quando si versa in una situazione emergenziale, sia quando il caso implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. Questa rivisitazione della normativa civilistica appare importante, non solo perchè recupera le ragioni profonde che stanno alla base del tradizionale criterio normativo di attenuazione dell’imputazione soggettiva, ma anche perchè, in un breve passaggio, la sentenza pone in luce i contesti che per la loro difficoltà possono giustificare una valutazione benevola del comportamento del sanitario: da un lato le contingenze in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche; e dall’altro (aspetto mai prima enucleato esplicitamente) le situazioni nelle quali il medico si trovi ad operare in emergenza e quindi in quella temperie intossicata dall’impellenza che rende quasi sempre difficili anche le cose facili. Quest’ultima notazione, valorizzata come si deve, apre alla considerazione delle contingenze del caso concreto che dischiudono le valutazioni sul profilo soggettivo della colpa, sulla concreta esigibilità della condotta astrattamente doverosa. Il principio enunciato da tale sentenza è stato recentemente ribadito e chiarito più volte. In una pronunzia (Sez. 4, n. 16328 del 5 aprile 2011, Montalto, rv. 251941) si è posta in luce la connessione tra colpa grave ed urgenza terapeutica; e si è rimarcato che una attenta e prudente analisi della realtà di ciascun caso può consentire di cogliere le contingenze nelle quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi, sovente accresciuta dall’urgenza; e di distinguere tale situazione da quelle in cui, invece, il medico è malaccorto, non si adopera per fronteggiare adeguatamente l’urgenza o tiene comportamenti semplicemente omissivi, tanto più quando la sua specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in emergenza. E’ stata quindi confermata la sentenza assolutoria di merito che aveva compiuto una ponderazione basata sull’ambiguità della sintomatologia e dell’esito degli esami ematochimici, nonchè sulla necessità di avviare con prontezza il paziente alla struttura sanitaria che, nella situazione data, appariva ragionevolmente dotata delle competenze ed attrezzature più adeguate in relazione alla prospettata patologia neurologica. In altra sentenza (Sez. 4, n. 4391/12 del 22 novembre 2011, Di Lella, rv. 251941) si è affermato che il rimprovero personale che fonda la colpa personalizzata, spostata cioè sul versante squisitamente soggettivo, richiede di ponderare le difficoltà con cui il professionista ha dovuto confrontarsi; di considerare che le condotte che si esaminano non sono accadute in un laboratorio o sotto una campana di vetro e vanno quindi analizzate tenendo conto del contesto in cui si sono manifestate. Da questo punto di vista, si è concluso, l’art. 2236 cod. civ. non è che la traduzione normativa di una regola logica ed esperienziale che sta nell’ordine stesso delle cose. In breve, quindi, la colpa del terapeuta ed in genere dell’esercente una professione di elevata qualificazione va parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiestogli ed al contesto in cui esso si è svolto.

La Corte d’appello non si è attenuta a tali principi, nè ha compiuto approfondimenti peritali finalizzati ad una più puntuale ed imparziale disamina del caso; con la conseguenza che la sentenza va annullata con rinvio. Naturalmente, ove siano ravvisate condotte colpose,se ne valuterà pure l’idoneità ad evitare l’evento, come correttamente dedotto dalla difesa.

Pure censurabile per carenza di appropriata motivazione è l’apprezzamento in ordine al diniego delle attenuanti generiche. Si afferma, infatti che non si riscontrano elementi positivi da valutare, trascurando completamente l’analisi della personalità (anche con riguardo ad eventuali precedenti condanne) e le già indicate particolarità e difficoltà del caso. Pure sotto tale riguardo, dunque, la sentenza va annullata con rinvio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame alla Corte d’appello di Palermo.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2014.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2014