La Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza resa dal Tribunale, che aveva ritenuto C.G. responsabile del reato di cui all’art. 589 cod.pen., condannandolo a otto mesi di reclusione, per aver cagionato la morte di Ca.Ro. , per colpa consistita nell’avere, quale medico in servizio presso il Pronto Soccorso dell’ospedale (omissis) , dimesso il predetto Ca. alle ore 2,58 del (omissis) senza disporre i necessari accertamenti cardiologici che, ove tempestivamente eseguiti, avrebbero consentito di diagnosticare la sindrome coronarica acuta a causa della quale il giorno successive, alle 15,58, egli era giunto in altro ospedale in condizioni gravissime, decedendo immediatamente dopo il ricovero.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 17 febbraio 2014 – 13 marzo 2015, n. 10972

 

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza resa dal Tribunale, che aveva ritenuto C.G. responsabile del reato di cui all’art. 589 cod.pen., condannandolo a otto mesi di reclusione, per aver cagionato la morte di Ca.Ro. , per colpa consistita nell’avere, quale medico in servizio presso il Pronto Soccorso dell’ospedale (omissis) , dimesso il predetto Ca. alle ore 2,58 del (omissis) senza disporre i necessari accertamenti cardiologici che, ove tempestivamente eseguiti, avrebbero consentito di diagnosticare la sindrome coronarica acuta a causa della quale il giorno successive, alle 15,58, egli era giunto in altro ospedale in condizioni gravissime, decedendo immediatamente dopo il ricovero.

2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso per cassazione la difesa dell’imputato. Con un unico, articolato motivo lamenta violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla colpa e al nesso di causalità. Evidenzia che il signor Ca. al momento del ricovero al pronto soccorso lamentava soltanto dolori addominali, aveva valori normali di pressione ed anche gli esami del sangue davano risultati normali ad eccezione della glicemia e dell’emocromo che però non sono sintomatici di un problema cardiologico; veniva sottoposto ad una radiografia all’addome e veniva effettuata una consulenza cardiologica all’esito della quale entrambi i medici concordavano sulla diagnosi di coliche addominali; solo nel pomeriggio del giorno successivo il Ca. si presentava con l’ambulanza al pronto soccorso, con sintomi evidenti di sofferenza cardiaca; l’annotazione secondo la quale la sera prima vi era stato accesso in altro pronto soccorso per epigastralgia era evidentemente frutto di una valutazione ex post dei secondi medici. Sostiene che andava applicato il principio civilistico, art. 2236 cc, secondo cui il medico risponde solo per colpa grave; sottolinea come l’imputato avesse le capacità di riconoscere una epigastralgia, da lui più volte in passato diagnosticata, ove se ne fossero presentati i sintomi, nella specie però inesistenti; non aveva tenuto alcun comportamento colpevole avendo anche chiesto una consulenza chirurgica da parte di un collega che aveva convalidato il suo operato. Richiama i principi in tema di accertamento del nesso di causalità e sottolinea che il Ca. si è sentito male 13 ore dopo essersi allontanato dall’ospedale (omissis) e che l’infarto era insorto solo alcune ore prima dell’accesso al secondo ospedale.

Considerato in diritto

1. Il ricorso non merita accoglimento.

La Corte di appello, all’esito della disposta perizia, ha sufficientemente motivato l’affermazione di responsabilità sia in tema di colpa che di nesso di causalità.

Sotto il primo profilo è stato messo in luce come la condotta tenuta dal ricorrente si sia sostanziata in una “macro” omissione circa la necessità di procedere ad una più approfondita valutazione dell’apparato cardiovascolare mediante l’esecuzione di esami elettrocardiografici e di controlli enzimatici ripetuti da effettuarsi nell’ambito del ricovero del paziente, che per le condizioni in cui si trovava (età di 77 anni, ipertensione, ipoglicemia) avrebbe dovuto essere tenuto in osservazione per almeno 24 ore con esecuzioni di esame elettrocardiografico e di controlli degli enzimi di necrosi cardiaca ogni 6 ore, volti ad accertare l’evoluzione della situazione e a consentire un tempestivo intervento; anche il dolore addominale lamentato dal paziente da alcuni giorni doveva far sorgere il sospetto di una possibile patologia coronarica, sia pure manifestatasi in forma atipica, tanto più che gli esami ematochimici eseguiti, l’esame obiettivo addominale, l’alvo aperto a feci e gas e l’esame radiografico addominale consentivano già di escludere una patologia addominale.

Correttamente la corte di appello ha ritenuto tale comportamento gravemente colposo e tale dunque da non poter essere ricondotto nell’ambito di applicazione della legge 8 novembre 2012, n. 189, art. 3, che esclude la rilevanza della colpa lieve in relazione a quelle condotte che abbiano osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose, purché accreditate dalla comunità scientifica.

Al riguardo può osservarsi che la necessità di tenere in osservazione il paziente che manifesti sintomi di possibile patologia cardiaca per un congruo intervallo di tempo (normalmente dalle 6 alle 12 h) verificando a intervalli regolari la presenza di enzimi indicatori delle necrosi miocardiche ed il cui esito è ottenibile a breve distanza dal prelievo, cioè la necessità di operare il cd. monitoraggio continuo del paziente, per poter intervenire tempestivamente con cardiologia interventistica è regola di comportamento comunemente seguita nei pronto soccorso e che avrebbe dovuto seguire anche l’attuale imputato. Privo di consistenza è pertanto invocare l’art. 2236 cc, dal momento che attualmente la materia è disciplinata dall’art. 3 della già richiamata legge 8 novembre 2012, n. 189 che esclude la rilevanza della colpa lieve per quelle condotte che abbiano osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose accreditate dalla comunità scientifica, come nella specie non è però avvenuto.

Quanto al nesso causale, la Corte palermitana, preso atto che la morte del paziente si era verificata per shock cardiogeno irreversibile secondario ad infarto miocardico acuto complicato da grave aritmia cardiaca, ha osservato che doveva ritenersi una ipotesi lontana dalla realtà quella secondo cui la sindrome coronarica non fosse già presente al momento in cui l’imputato prese in carico il paziente e come il modello del movimento enzimatico rilevato all’arrivo del medesimo all’ospedale (…), induceva a ritenere che la comparsa della necrosi del miocardio fosse da far retrocedere a alcune ore precedenti l’accesso in tale nosocomio; ha rilevato che una condotta rispettosa delle norme tecniche e delle migliori prassi del caso, sarebbe stata idonea, sia pure sulla base di un percorso causale ipotetico, a evitare l’evento o a ritardarne signicativamente la sopravvenienza.

Nello svolgere tali argomentazioni la Corte di appello si è implicitamente e correttamente richiamata alla sentenza resa dalle Sezioni Unite di questa Corte in data 10.7.2002 n. 27, Franzese. Con tale pronuncia questa Corte, chiamata a dirimere il contrasto tra le due posizioni esistenti all’interno della giurisprudenza di legittimità per la sussistenza del nesso di causalità, di cui una richiedeva l’esistenza di un elevato grado di probabilità, “vicino alla certezza” “quasi prossimo a cento” e l’altro considerava sufficienti anche solo “serie ed apprezzabili probabilità di successo”, ha operato una completa e accurata ricostruzione dello statuto della causalità penalmente rilevante, rifiutando la seconda alternativa di cui sopra (che esprime coefficienti di probabilità mutevoli, indeterminati, manipolabili dall’interprete, talora attestati su standard davvero esigui) ma, specialmente, opportunamente osservando (con argomentazioni che interamente si condividono e alle quali integralmente si rinvia) che il contrasto interpretativo cui si è accennato deve essere risolto in termini di concreta verificabilità processuale, di accertamento nel processo, procedendo nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di certezza processuale, non diversamente di quanto avviene negli altri campi del diritto penale. In particolare la Corte ha chiarito che la causalità omissiva è sostenuta non solo in presenza di leggi scientifiche universali o di leggi statistiche che esprimono un coefficiente prossimo alla certezza (ma che pur sempre impongono di accertare la irrilevanza di eventuali spiegazioni diverse eventualmente dedotte), ma può esserlo altresì quando ricorrano criteri medio bassi di probabilità cd. frequentista, nulla escludendo che “anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio… circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. Distinguendo la mera probabilità statistica dalla probabilità logica, le Sezioni Unite hanno dunque messo l’accento, con valutazioni che il Collegio condivide, sul raggiungimento da parte dell’autorità chiamata a giudicare i delicati episodi che per lo più si riconnettono alla causalità omissiva, di un risultato di “certezza processuale” che, “all’esito del ragionamento probatorio, sia in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi l’azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato o si sarebbe inevitabilmente verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva”. Tornando al caso di specie, la motivazione con cui è stato affermata la sussistenza del nesso di causalità è rispondente alle linee interpretative sopra descritte. La Corte di appello di Palermo ha infatti ritenuto, sulla base degli accertamenti tecnici compiuti nel processo, che una volta disposto, come necessario, il monitoraggio del paziente si sarebbe potuto intervenire tempestivamente sulla patologia e scongiurare contenendo i danni dell’ infarto ed allungare la vita del paziente. La Corte non si è spinta a ritenere certa la sopravvivenza del C. ma esprime un giudizio che trova fondamento in una consolidata acquisizione della scienza medica, ormai divenuta massima di esperienza, secondo cui le possibilità di superare o contenere i danni dell’infarto sono legate alla tempestività dell’intervento, tempestività che ben era sussistente in concreto se solo ci si fosse comportati secondo le linee guida.

2. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.