Assolti in primo e secondo grado i sanitari di una Casa di Cura ai quali, nella qualità di esecutore dell’intervento di resezione di prostata e di medico che aveva effettuato il ricovero, le dimissioni nonché compilato la cartella clinica, era stato mosso l’addebito di aver cagionato la morte del paziente per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia avendo prescritto una terapia farmacologica non corretta.

Il trattamento terapeutico – consistente, da un lato, nel non aver somministrato, al momento delle dimissioni, la terapia con calciparina che, instaurata all’atto dell’intervento, era stata, invece, interrotta prematuramente e non proseguita a domicilio, pur potendo essa ostacolare o rallentare il fenomeno trombotico, e, dall’altro, nel somministrare alla vittima, all’esito di intervento in relazione al quale il rischio di trombo-embolia era di routine, durante tutto il ricovero e anche al momento delle dimissioni, un farmaco  antiemorragico ad azione trombizzante, comunemente utilizzato nella terapia delle emorragie – era stato censurato per aver agevolato il processo di formazione del trombo anziché ostacolarlo.

Contro la sentenza della Corte d’Appello che ha ritenuto non dimostrata con certezza al di là di ogni ragionevole dubbio la sussistenza del nesso causale tra la condotta colposa contestata agli imputati e l’evento mortale, hanno proposto ricorso per cassazione i congiunti del defunto.

Profili giuridici

Il compito della Suprema Corte è il controllo della razionalità delle argomentazioni giustificative poste a fondamento delle decisioni, sulla scorta dei dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, delle inferenze formulate in base ad essi e dei criteri che sostengono le conclusioni.

In riferimento alla genesi della tromboembolia, la Corte territoriale ha precisato – fondando il rilievo sul riscontro autoptico, oltre che sulle conclusioni dei periti di ufficio – che l’accertato massivo interessamento di entrambi i rami polmonari, oltre alla mancata constatazione di un rialzo febbrile e di altri sintomi normalmente riscontrabili in presenza di significativa flogosi postoperatoria, lasciavano ragionevolmente presumere che essa fosse riconducibile ai vasi venosi degli arti inferiori, escludendo che l’intervento potesse porsi come origine o anche concausa nella formazione dei trombi letali.