E’ ammissibile l’iniziativa della P.A. datrice di lavoro volta al recupero dei compensi percepiti dal dipendente per incarichi svolti e non previamente autorizzati, che si traduce in un ordine impartito dalla stessa P.A. di versare in proprio favore l’importo percepito dal dipendente in violazione del divieto di svolgimento di attività non previamente autorizzate: in tal caso il recupero è effettuato dall’Amministrazione in base ai poteri datoriali, con la conseguenza che la controversia promossa dal dipendente al fine di contestare l’avversa pretesa trova il proprio fondamento nel rapporto di lavoro, risultando, per l’effetto, devoluta alla cognizione del giudice che sullo stesso rapporto di lavoro abbia giurisdizione, quindi per le vicende che interessano dipendenti appartenenti al pubblico impiego cd. non contrattualizzato, alla giurisdizione esclusiva del G.A. ex artt. 3 e 63, comma 4, del d.lgs. n. 165/20010.

Pubblicato il 13/01/2023

N. 00451/2023REG.PROV.COLL.

N. 01783/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Settima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1783 del 2021, proposto dal prof.

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giuseppe Lepore e Gennaro Terracciano e con domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, via Polibio, n. 15;

contro

Università degli Studi di Napoli “Parthenope”, in persona del Rettore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata ex lege presso gli Uffici della stessa, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per l’annullamento e/o la riforma,

previa sospensione cautelare, della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Napoli, Sezione Seconda, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, con la quale è stato respinto il ricorso R.G. n. -OMISSIS-.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Vista l’istanza di sospensione della sentenza appellata;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”;
Visti le note d’udienza e gli ulteriori documenti dell’appellante;
Vista la documentazione dell’Università appellata;
Vista l’ordinanza della Sezione VI n. -OMISSIS-, che ha accolto l’appello cautelare nei confronti dell’ordinanza del T.A.R. Campania, Napoli, di diniego della sospensiva e, per l’effetto, ha sospeso i provvedimenti impugnati in primo grado;
Vista l’ordinanza collegiale della Sezione VI n. -OMISSIS-, che ha abbinato al presente il ricorso in appello R.G. n. -OMISSIS-;
Vista, ancora, l’ordinanza della Sezione VI n. -OMISSIS-, con cui è stata accolta l’istanza di sospensione della sentenza appellata;
Vista, da ultimo, l’ordinanza collegiale della Sezione VI n. -OMISSIS-;
Viste le memorie difensive e i documenti delle parti;
Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 ottobre 2022 il Cons. Pietro De Berardinis e udito per l’appellante l’avv. Giuseppe Lepore;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

Con l’appello in epigrafe il prof. -OMISSIS- ha impugnato la sentenza del T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, n. -OMISSIS-, chiedendone l’annullamento e/o la riforma, previa sospensione cautelare.

La sentenza appellata ha respinto il ricorso presentato dal prof. -OMISSIS- per ottenere l’annullamento dell’ingiunzione fiscale dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” prot. n. 51165/2019 del 3 luglio 2019, con cui si è intimato al ricorrente il pagamento della somma di € 2.170.013,12 a titolo di restituzione dei compensi per incarichi extra-istituzionali non autorizzati.

In fatto il prof. -OMISSIS- espone di essere stato dal 1999 al 2004 professore associato di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università del Molise con impegno a tempo definito. Nel 2004 è stato chiamato come professore di II^ fascia presso l’Università “Parthenope”, conservando l’impegno a tempo definito (decreto n. 535 del 30 ottobre 2004), il che gli permetteva di affiancare all’attività di docente universitario quella di libero professionista (dottore commercialista).

Nel gennaio del 2005, all’esito di una procedura valutativa, il prof. -OMISSIS- conseguiva l’idoneità come professore straordinario sempre nello stesso S.S.D. (Economia e Gestione delle Imprese) presso l’Università “Parthenope”, che, tuttavia, questa volta lo inquadrava con decreto n. 13 del 12 gennaio 2005 come docente (di I^ fascia) con impegno a tempo pieno.

Sul punto l’appellante precisa:

  • di avere, almeno sei mesi prima dell’inizio dell’anno accademico 2005/2006, presentato al Rettore una dichiarazione di opzione per il regime a tempo definito, come sarebbe comprovato, fino a querela di falso, a) dall’art. 2 del D.R. n. 535 del 30 ottobre 2004, b) dal certificato emesso dall’Università “Parthenope” il 6 settembre 2010, in cui sarebbe attestato che risultava a far data dal 12 gennaio 2005 la presentazione, da parte del prof. -OMISSIS-, dell’opzione per il tempo definito.
  • di non avere – contrariamente a quanto si legge nelle premesse del D.R. n. 13/2005 – mai esercitato alcuna opzione per il passaggio al regime di impegno a tempo pieno;
  • che il giorno dopo la pubblicazione del D.R. n. 13/2005 gli Uffici dell’Ateneo gli sottoponevano per la firma una serie di moduli a mezzo fax, tra cui un modello di opzione per il tempo pieno, ciò che dimostrerebbe che nessuna opzione era stata da lui effettuata in epoca antecedente al D.R. n. 13 cit.; tale modello veniva sottoscritto per mero malinteso dal docente, ma gli Uffici ne avrebbero constatato l’inefficacia e, quindi, non l’avrebbero considerato, tanto da non trasmettere all’Ordine dei Dottori Commercialisti la segnalazione del passaggio dell’odierno appellante dal regime a tempo definito, di cui al D.R. n. 535/2004, a quello a tempo pieno.

Infine, il docente veniva nominato dalla predetta Università con decreto n. 348 del 23 giugno 2008 professore ordinario (I^ fascia) per il S.S.D. in esame (con decorrenza giuridica dal 12 gennaio 2008 ed economica dal 13 gennaio 2008), ancora con impegno a tempo pieno.

Nel corso del 2008, però, l’Università, in adempimento ai propri compiti, comunicava all’Ordine dei Dottori Commercialisti che il prof. -OMISSIS- era inquadrato con impegno a tempo pieno e l’Ordine segnalava al docente l’irregolarità della sua posizione, avendo egli per tutto il periodo dal 2005 in poi continuato ad affiancare all’insegnamento universitario la libera professione, nonostante ciò gli fosse precluso dal regime di impegno a tempo pieno.

Il prof. -OMISSIS- dichiarava di avere avviato l’iter per il passaggio a tempo definito (chiesto, secondo la sua ricostruzione, sin dal 2008) e detto iter si concludeva con D.R. n. 66 del 31 gennaio 2011, che lo inquadrava sì nel regime a tempo definito, ma con decorrenza dal 1° novembre 2011 (data di inizio del nuovo anno accademico). Tale decorrenza, dunque, non sanava le irregolarità pregresse contestate al docente, per le quali venivano avviati un giudizio di responsabilità erariale innanzi alla Corte dei conti (conclusosi con la sua assoluzione per mancanza dell’elemento soggettivo della colpa grave) e un procedimento disciplinare, conclusosi con l’irrogazione al docente della sospensione per un anno dall’ufficio e dallo stipendio, annullata in sede giurisdizionale. Successivamente veniva promosso nei suoi confronti un ulteriore procedimento disciplinare, che si concludeva con l’inflizione della censura (che forma oggetto di distinta impugnazione).

Dal canto suo, il prof. -OMISSIS- presentava il 15 gennaio 2015 istanza di autotutela, con cui chiedeva all’Università “Parthenope” la revoca e/o l’annullamento d’ufficio dei decreti del Rettore n. 13/2005 e n. 348/2008 e il riconoscimento del suo status di professore con regime di impegno a tempo definito dal 12 gennaio 2005 al 1° novembre 2011, ma la suddetta istanza veniva rigettata dall’Ateneo con un provvedimento che forma a sua volta oggetto di distinto giudizio.

Inoltre, l’Università avviava nei confronti dell’interessato un procedimento di recupero dei compensi per incarichi extraistituzionali non autorizzati ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001, che si concludeva con l’adozione del provvedimento prot. n. 51165/2019 del 3 luglio 2019, mediante il quale l’Ateneo ingiungeva al docente il pagamento della somma di € 2.170.013,12 (€ 1.916.178,69 per sorte capitale e € 253.834,43 per interessi legali) a titolo di restituzione dei compensi per incarichi extraistituzionali non autorizzati svolti nel periodo dal 12 gennaio 2005 al 31 ottobre 2011, durante il quale egli risultava inquadrato quale docente a tempo pieno.

Il prof. -OMISSIS- impugnava l’ingiunzione, formulando istanza cautelare, che veniva respinta dal T.A.R. Campania, Napoli, con ordinanza della Sez. II n. -OMISSIS-. Quest’ultima, però, veniva riformata in sede di appello cautelare dall’ordinanza della Sezione VI di questo Consiglio n. -OMISSIS-, che concedeva la richiesta sospensione.

All’esito della fase di merito del giudizio l’adito Tribunale, con la sentenza appellata, ha respinto il ricorso, in ragione dell’infondatezza delle doglianze attoree: in estrema sintesi e salvo quanto si dirà più oltre, il primo giudice ha ritenuto l’ingiunzione emessa per il recupero dei compensi per incarichi non autorizzati atto dovuto ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001, che prescinde dalla rilevanza dell’elemento soggettivo del trasgressore.

Nel gravame l’appellante ha contestato le motivazioni e le conclusioni della sentenza di primo grado, formulando i seguenti motivi:

  1. error in iudicando, difetto di giurisdizione, violazione ed elusione del giudicato di cui alla sentenza della Corte dei conti – Sezione Giurisdizionale Centrale d’Appello n. 65/2017 del 2 marzo 2017, in quanto la giurisdizione in ordine alla verifica della sussistenza della fattispecie di illecito di cui all’art 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001 spetterebbe alla Corte dei conti, che, con la ricordata sentenza n. 65/2017, avrebbe acclarato l’infondatezza della pretesa creditoria avanzata dall’Ateneo ed attestato l’insussistenza dell’illecito su cui si fonda il credito ingiunto. La facoltà di rinnovare l’accertamento svolto sul punto dalla Corte dei conti sarebbe preclusa non solo all’Ateneo, ma altresì al T.A.R., che, invece, si sarebbe espresso in modo difforme rispetto al suindicato giudicato;
  2. error in iudicando, carenza di motivazione, infondatezza, contraddittorietà, nonché prescrizione dell’azione, poiché sarebbe erronea la posizione assunta dal primo giudice in ordine alla prescrizione dell’azione di recupero delle somme derivanti dalla sanzione in esame, non potendosi comprendere le ragioni che osterebbero all’applicabilità al caso di specie del termine quinquennale previsto per le altre sanzioni derivanti da illecito amministrativo dall’art. 28 della l. n. 689/1981, ovvero del termine quinquennale di cui all’art. 2947 c.c.: l’applicazione del termine quinquennale comporterebbe per la P.A. la decadenza dal diritto di riscuotere somme a titolo di sanzione conseguente all’illecito per fatti anteriori al novembre 2011 (com’è nella vicenda per cui è causa);
  3. error in iudicando, infondatezza, illogicità e illegittimità della sentenza impugnata, incompetenza dell’Università ad avvalersi dello strumento di cui al r.d. n. 639/1910, poiché, ai sensi dell’art. 1 del r.d. n. 639/2010 le Università non sarebbero comprese tra gli Enti legittimati a utilizzare l’ordinanza ingiunzione di cui al predetto regio decreto;
  4. nel merito: error in iudicando, erronea interpretazione dei fatti, violazione di giudicato, nullità ex art. 21-septies della l. n. 241/1990, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 382/1980 e dell’art. 1 della l. n. 725/1982, giacché il Tribunale avrebbe fatto propria la ricostruzione dei fatti effettuata dall’ingiunzione impugnata senza considerare che l’accertamento con valore di giudicato contenuto nella sentenza del T.A.R. Campania – Napoli n. -OMISSIS- (che ha annullato la sanzione della sospensione per un anno del professore dall’ufficio e dallo stipendio), nella sentenza della Corte dei conti – Sez. Giurisd. Centr. d’Appello n. 65/2017 e nell’ordinanza di questo Consiglio, Sez. VI, n. 3094/2020 avrebbe messo in evidenza circostanze diverse rispetto a quelle indicate nella suddetta ingiunzione;
  5. nel merito: error in iudicando, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 382/1980 e dell’art. 1 della l. n. 725/1982, travisamento dei fatti, carenza di motivazione, poiché la sentenza di prime cure avrebbe errato nel ritenere irrilevante l’opzione per l’impegno a tempo definito presentata dal docente il 5 novembre 2008. Inoltre il modulo di opzione per il tempo definito versato in atti, pur essendo privo di data certa, sarebbe conforme al modulo reperibile sul sito web dell’Università prima delle modifiche introdotte a seguito della l. n. 240/2010 e ciò confermerebbe il deposito dell’opzione da parte del docente nel 2008, comunque prima del 2010, di tal ché la scelta della P.A. di conferire efficacia al riconoscimento del tempo definito solo a decorrere dal 1° novembre 2011 sarebbe per più versi illegittima;
  6. error in iudicando, grave sproporzione della sanzione irrogata rispetto alla lesività del fatto ed al concorso di colpa accertato dell’Ateneo, carenza di motivazione, poiché la somma pretesa con l’atto impugnato dall’Università sarebbe sproporzionata rispetto alla buona fede del docente, al lieve grado di offensività dell’eventuale illecito da lui commesso ed al concorso di colpa della P.A., nonché alla luce: dello svolgimento, da parte del docente, di un numero di ore di lavoro corrispondenti al tempo pieno; della restituzione ottenuta dall’Università delle differenze retributive indebitamente percepite dall’appellante; infine, del cumulo della richiesta di pagamento a titolo sanzionatorio con altre misure afflittive irrogate al docente in sede disciplinare.

L’appellante ha successivamente depositato note d’udienza, richiamando l’ordinanza delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione n. 4852 del 23 febbraio 2021 e insistendo per l’accoglimento dell’istanza cautelare.

Si è costituita in giudizio l’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”, depositando documenti e resistendo all’appello di controparte.

Con ordinanza collegiale n. -OMISSIS-, pronunciata sul ricorso R.G. n. -OMISSIS-, la Sezione VI ha disposto la trattazione congiunta “per motivi d’economia e di omogeneità di giudizi” di tale ricorso (concernente il rigetto dell’istanza di autotutela presentata dal docente avverso il D.R. n. 13/2005 e il D.R. n. 348/2008) con quello in epigrafe.

L’istanza di sospensione della sentenza appellata è stata accolta con ordinanza della Sezione VI n. -OMISSIS-.

In vista della discussione della causa, le parti hanno depositato memorie. L’appellante ha depositato, altresì, documenti e memoria di replica.

Con ordinanza collegiale n. -OMISSIS-, resa all’esito dell’udienza pubblica del 24 marzo 2022, la Sezione VI ha disposto che a cura della parte più diligente si provvedesse entro il 30 giugno 2022 al deposito di documentazione comprovante lo stato del giudizio per querela di falso – promosso dal prof. -OMISSIS- contro i menzionati decreti rettorali n. 13/2005 e n. 348/2008 – fissando per il prosieguo della trattazione della causa l’udienza pubblica del 27 ottobre 2022 (modificata, con il passaggio della causa alla cognizione di questa Sezione, al 25 ottobre 2022).

In vista dell’udienza di merito le parti hanno depositato documentazione attestante la reiezione, da parte della Corte d’Appello di Napoli con sentenza n. -OMISSIS-, dell’appello proposto dal prof. -OMISSIS- contro la decisione di primo grado che aveva respinto la querela di falso da lui presentata, nonché la proposizione, ad opera del medesimo docente, di ricorso per cassazione avverso la sentenza ora citata. L’appellante ha depositato, altresì, una memoria finale, insistendo per la riforma della sentenza gravata.

All’udienza pubblica del 25 ottobre 2022 è comparso il difensore dell’appellante, quindi la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

Viene in decisione l’appello promosso dal prof. -OMISSIS- contro la sentenza del T.A.R. Campania, Napoli n. -OMISSIS-, che ha respinto il ricorso da lui proposto avverso il provvedimento dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”, recante ingiunzione di pagamento della somma di € 2.170.013,12 (di cui € 1.916.178,69 per sorte capitale ed € 253.834.43 per interessi legali) a titolo di restituzione dei compensi per attività extraistituzionali svolte dal docente in regime di impegno a tempo pieno senza la necessaria autorizzazione dell’Ateneo.

La sentenza appellata ha anzitutto respinto la richiesta di sospensione avanzata dal ricorrente in forza della pendenza del giudizio di falso da lui promosso avverso i decreti rettorali n. 13 del 12 gennaio 2005 e n. 348 del 23 giugno 2008, nella parte in cui questi danno atto dell’opzione per il tempo pieno formulata dal prof. -OMISSIS- all’atto della nomina a professore straordinario, avvenuta, appunto, il 12 gennaio 2005.

Il primo giudice ha disatteso l’istanza, in quanto nel caso di specie la querela di falso è irrilevante ai fini del giudizio: infatti, l’inquadramento a tempo pieno del ricorrente disposto dal 12 gennaio 2005 resterebbe fermo anche in ipotesi di accoglimento della predetta querela, essendo i decreti rettorali n. 13/2005 e n. 348/2008 ormai inoppugnabili (siccome mai impugnati dal docente) e continuando essi a regolare la progressione di carriera dell’interessato fino al 31 ottobre 2011.

Il T.A.R. ha aggiunto che la questione in parola si mostra altresì manifestamente infondata, risultando in atti una formale istanza del docente del 13 gennaio 2005, che conferma la sua opzione per il tempo pieno, presumibilmente espressa in un primo tempo per le vie brevi e poi confermata per iscritto al momento della sua presa di servizio quale professore straordinario.

Nel merito la sentenza ha anzitutto escluso il difetto di competenza dell’Università “Parthenope” ad avvalersi dell’ingiunzione fiscale di cui al r.d. n. 639/2010, aderendo a un’interpretazione evolutiva dell’art. 1 del regio decreto, tale da ricomprendere tra i soggetti legittimati ad utilizzare lo strumento in parola non solo le Amministrazioni statali, ma anche gli Enti pubblici diversi dallo Stato, tra cui rientrano a pieno titolo le istituzioni universitarie.

La sentenza ha poi ritenuto che l’irrogazione della restituzione dei compensi ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001 non possa non appartenere alla competenza dell’Amministrazione datrice di lavoro, anche dopo l’inserimento, nell’art. 53 cit., del comma 7-bis, a tenor del quale il mancato versamento del compenso da parte del dipendente pubblico percettore indebito integra un’ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti: ciò, poiché l’obbligo di versamento previsto dall’art. 53 cit. ha natura sanzionatoria e prescinde dall’esistenza di specifici profili di danno riservati alla cognizione del giudice contabile.

Ancora, il T.A.R. ha escluso l’applicabilità alla fattispecie del termine prescrizionale di cinque anni ex art. 28 della l. n. 689/1981, riguardando questo le sanzioni pecuniarie di tipo afflittivo-punitivo, mentre la misura irrogata al docente ha natura di sanzione pecuniaria di tipo ripristinatorio, siccome volta a ristabilire il rapporto di fiducia e di esclusività che deve esistere tra il dipendente in regime di impegno a tempo pieno e l’Amministrazione di appartenenza. Né può applicarsi l’analogo termine di cinque anni stabilito dall’art. 20 del d.lgs. n. 472/1997, che riguarda le sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie. Alla fattispecie si applica invece, secondo il Tribunale, l’ordinario termine decennale di prescrizione ex art. 2946 c.c., decorrente, nel caso di specie, dal 27 novembre 2015, cioè dalla data di trasmissione all’Università “Parthenope” del primo rapporto della Guardia di Finanza sugli incarichi svolti dal docente in carenza di autorizzazione nel periodo 2005/2011, con conseguente tempestività dell’azione di recupero disposta dalla stessa Università con l’ingiunzione fiscale del 3 luglio 2019 (notificata l’11 ottobre 2019).

Di seguito la sentenza appellata, dopo aver ribadito che il giudizio di falso non poteva incidere sulla ricostruzione del periodo in cui il ricorrente doveva essere qualificato come docente a tempo pieno e, pertanto, non poteva inibire il potere di autoaccertamento esercitato dall’Ateneo, ha escluso, altresì, qualsiasi contraddizione tra l’ingiunzione fiscale e la sentenza della Corte dei conti – Sez. Giurisd. Centrale d’Appello n. 65/2017 cit.: questa, infatti, ha accertato la mancanza dell’elemento soggettivo dell’illecito contabile costituito dalla colpa grave, laddove invece la sanzione per cui è causa si applica in maniera oggettiva, in base al mero accertamento dell’assenza di autorizzazione all’espletamento degli incarichi extraistituzionali. Peraltro – nota il T.A.R. – i giudici contabili hanno accertato che la condotta del docente è caratterizzata da colpa non grave, ma semplice, ed hanno aggiunto che l’esito assolutorio non precludeva all’Ateneo di esercitare l’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., attivabile a prescindere da dolo o colpa del percettore e in presenza della sola oggettiva erogazione dei compensi non dovuti per prestazioni extraprofessionali incompatibili.

Da ultimo, la sentenza appellata ha acclarato:

  • l’irrilevanza, per il passaggio al tempo definito, dell’opzione asseritamente presentata dal docente il 5 novembre 2008, poiché ogni modifica del regime di espletamento della prestazione lavorativa deve trovare fonte nell’attività della P.A. datrice di lavoro e non può bastare al riguardo la semplice istanza del dipendente interessato;
  • l’insussistenza di alcuna violazione del principio di proporzionalità, poiché l’importo della sanzione della restituzione dei compensi è rigidamente predeterminato dalla legge e non può essere ridotto in virtù dello stato soggettivo del trasgressore;
  • la correttezza del calcolo degli importi dei compensi da restituire (computati al netto delle ritenute fiscali) e l’infondatezza della dedotta violazione del ne bis in idem, poiché è lo stesso art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001 a far salva l’applicazione di più gravi trattamenti sanzionatori, anche di tipo disciplinare.

Così riassunte le motivazioni della sentenza appellata, ritiene il Collegio che quest’ultima resista ai motivi dell’appello, i quali sono nel loro complesso privi di fondamento, per le ragioni che di seguito si vanno ad esporre.

Invero, all’analisi delle singole doglianze va premesso che, ad avviso del Collegio, il prof. -OMISSIS-, nell’arco temporale decorrente dalla sua nomina a professore straordinario, non poteva nutrire alcun affidamento sulla propria posizione di docente con impegno a tempo definito, anziché a tempo pieno, avendo egli trasmesso all’Università “Parthenope” in data 13 gennaio 2005, a mezzo fax, due moduli manoscritti e sottoscritti con l’opzione per il regime a tempo pieno.

Tali due moduli, versati in atti (v. allegato n. 4 dell’Università nel giudizio innanzi al T.A.R.), hanno un tenore inequivocabile e risultano compilati parzialmente a mano e sottoscritti dal docente. Nel primo di essi si legge che il prof. -OMISSIS- dichiara di optare, dal 13 gennaio 2005, per la qualifica di professore straordinario “A Tempo Pieno” presso la Facoltà di Economia. Nel secondo si legge poi che il prof. -OMISSIS- dichiara, ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 del d.P.R. n. 382/1980, di optare per il regime di impegno a tempo pieno, ritenendosi obbligato al rispetto di tale impegno per il biennio accademico “2005-07”, e che lo stesso dichiarante si impegna ad osservare le norme in materia di tempo pieno e di incompatibilità previste dal d.P.R. n. 382/1980.

E va precisato in argomento che le parti dei moduli compilate a mano dal docente riguardano proprio l’inserimento dell’opzione per il tempo pieno, di tal ché non è possibile nutrire dubbi sul contenuto e sul valore delle predette dichiarazioni.

La difesa erariale osserva, in proposito, che i suddetti moduli non sono mai stati contestati dal docente mediante disconoscimento della propria firma e che gli stessi valgono come prova della sua volontà di confermare l’opzione espressa oralmente per il tempo pieno e di cui aveva dato atto il decreto del Rettore n. 13 del 12 gennaio 2005. L’osservazione va senz’altro condivisa, non essendo credibili le giustificazioni fornite sul punto dall’appellante: la qualità della parte, invero, non consente di aderire alla tesi dell’errore del docente, non essendo verosimile che egli non si sia reso conto del significato e del valore dei moduli, che andava a compilare in forma autografa.

Vi è da aggiungere, in argomento, che l’interessato, anche dopo che erano insorti i contrasti in ordine alla sua opzione o meno per il tempo pieno, non risulta aver mai impugnato in parte qua né il D.R. n. 13/2005 e neppure il D.R. n. 348/2008, sebbene questo avesse confermato il suo inquadramento nel regime a tempo pieno. Solo nel 2015, quindi a distanza di dieci anni dal primo decreto e di sette anni dal secondo, egli ha presentato un’istanza di autotutela, rigettata dall’Università.

A tale ultimo riguardo occorre precisare che, nel rapporto tra privato e Amministrazione, l’obbligo di rispettare le norme generali dell’ordinamento civile, che impongono di agire con lealtà e correttezza, incombe non solo sull’Amministrazione, che ai sensi dell’art. 97 Cost. deve agire con imparzialità e in ossequio al principio del buon andamento, ma grava parimenti sulla parte privata (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 14 aprile 2021, n. 3058; Sez. II, 1° luglio 2020, n. 4191; Sez. V, 15 novembre 2012, n. 5772).

Da quanto finora esposto emerge, tuttavia, che il comportamento del docente non è stato conforme ai suindicati doveri di lealtà e correttezza. Egli si lamenta della condotta tenuta dall’Università nei suoi confronti, ma poi pretende che i moduli da lui sottoscritti e inviati all’Università il 13 gennaio 2005 (data dell’effettiva assunzione in servizio), contenenti l’opzione per il tempo pieno da lui compilata di persona, fossero privi di valore giuridico e che addirittura la stessa Università li abbia considerati “tamquam non esset”, senza peraltro offrire alcun elemento che suffraghi una simile tesi, la quale, per vero, trova confutazione in tutti gli atti di causa; né può certo sostenersi che la tesi ora esposta sia suffragata dal mero ritardo dell’Università nel comunicare all’Ordine dei Dottori Commercialisti il passaggio del professore al regime di impegno a tempo pieno.

La condotta dell’odierno appellante, oltre a non risultare conforme ai doveri di lealtà e correttezza, si rivela altresì carente sotto il profilo della diligenza, poiché, se effettivamente egli non avesse prestato la dovuta attenzione alle dichiarazioni che andava compilando, sottoscrivendo e trasmettendo via fax in data 13 gennaio 2005, ciò dimostrerebbe un’inaccettabile negligenza da parte di un soggetto che rivestiva una posizione quale la sua. Né può tacersi che il docente avrebbe potuto e dovuto accorgersi del suo assoggettamento al tempo pieno già sulla base del trattamento stipendiale più elevato da lui percepito.

In conclusione, sono vane tutte le giustificazioni che l’appellante dà alla sua condotta, con il cercare di riversare sull’Ateneo le responsabilità dell’“equivoco”.

Ad abundantiam, si sottolinea che il prof. -OMISSIS- ha instaurato (ancora nel 2015) innanzi al G.O. giudizio per querela di falso avverso i succitati decreti del Rettore nn. 13/2005 e 348/2008, inteso a dimostrare la falsità di detti decreti nella parte in cui hanno affermato il suo assoggettamento al regime a tempo definito, ma tale giudizio si è concluso in primo grado e in appello con esito sfavorevole al ricorrente, poiché il G.O. ha ritenuto veritiera l’affermazione contenuta in detti decreti, fondando il proprio convincimento sul fatto che l’unico documento presente in atti, la dichiarazione del docente del 13 gennaio 2005, attesta la sua opzione per il tempo pieno.

Da quanto finora detto emerge, dunque, l’infondatezza dei motivi di appello.

Nello specifico, con il primo motivo il docente contesta l’operato dell’Università “Parthenope” per avere questa preteso di rinnovare l’accertamento già effettuato dalla Corte dei conti e concluso con la più volte rammentata sentenza della Sezione Giurisdizionale Centrale di Appello n. 65/2017 del 2 marzo 2017, che ha escluso l’esistenza di un danno erariale per carenza dell’elemento soggettivo della colpa grave del dipendente.

L’appellante invoca in proposito il comma 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, ai sensi del quale il dipendente che ometta di versare all’Amministrazione di appartenenza il compenso ricevuto per incarichi extraistituzionali non autorizzati incorre in un’ipotesi di responsabilità erariale, devoluta alla cognizione del giudice contabile: ma poiché – sostiene ancora l’appellante – la Corte dei conti ha escluso, nel caso di specie, la sussistenza dell’illecito su cui si fonda il credito ingiunto, non sarebbe consentito né all’Amministrazione, né a questo G.A. di rinnovare l’accertamento ed esprimersi in modo difforme dalla pronuncia del giudice contabile, a pena, in caso contrario, di un’inammissibile ripetizione del giudizio e di una violazione del principio del ne bis in idem.

La difesa erariale eccepisce che il citato comma 7-bis, inserito nel testo dell’art. 53 dall’art. 1, comma 42, lett. d), della l. n. 190/2012, non è applicabile alle fattispecie che, come quella qui in esame, sono anteriori alla sua introduzione.

Ribatte sul punto il docente, invocando l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’azione di recupero del compenso percepito dal dipendente pubblico, che abbia omesso di versare all’Amministrazione il corrispettivo per lo svolgimento di un incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione della Corte dei conti anche se la percezione del compenso si è avuta in epoca anteriore all’introduzione, nel citato art. 53, del comma 7-bis, poiché la norma in commento non ha portata innovativa: si verte, infatti, in un’ipotesi di responsabilità erariale, che il Legislatore ha tipizzato nella condotta e nella sanzione, predeterminando ex lege il danno.

In tale prospettiva, allo scopo di evitare un conflitto di giudicati, l’azione del Procuratore contabile e quella della P.A. volta ad ottenere la restituzione delle somme percepite in assenza di autorizzazione non possono sovrapporsi: così la legittimazione del Procuratore contabile sorge di fronte all’inerzia della P.A. e, viceversa, l’esercizio dell’azione contabile determina l’impossibilità da parte della stessa P.A. di promuovere l’azione per ottenere il riversamento.

Il motivo è infondato.

L’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001 così recita: “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.

Il comma 7-bis, dal canto suo, stabilisce che “l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.

Orbene, nel caso di specie va innanzitutto sgombrato il campo dall’equivoco che la Sezione Giurisd. Centrale d’Appello della Corte dei conti, con la sentenza n. 65/2017 più volte ricordata, si sia occupata della mancata restituzione alla P.A., da parte del prof. -OMISSIS-, dei compensi percepiti da terzi per prestazioni professionali svolte senza la prescritta autorizzazione. In realtà, la predetta pronuncia ha un oggetto differente, occupandosi essa del presunto danno erariale cagionato nel periodo 2003/2007 da taluni docenti (incluso l’appellante) dell’Università “Parthenope”, consistente:

a) nella differenza tra le somme percepite a titolo stipendiale quali docenti a tempo pieno e quelle ad essi spettanti per l’impegno di fatto svolto a tempo definito;

b) nelle somme percepite a titolo di indennità di carica per qualifiche istituzionali rivestite all’interno degli organi accademici e che presupponevano la docenza a tempo pieno;

c) nei compensi percepiti per incentivazione dell’impegno didattico, spettanti ai docenti e ricercatori che optano per il tempo pieno e che non svolgono attività didattica comunque retribuita presso altre Università o istituzioni pubbliche o private (art. 4 della l. n. 370/1999).

Questo essendo l’oggetto del giudizio per responsabilità erariale a cui è stato assoggettato (con esito assolutorio) il prof. -OMISSIS-, è evidente l’estraneità a tale giudizio della questione del recupero dei compensi da lui ricevuti per gli incarichi extraistituzionali non autorizzati (svolti, peraltro, nell’arco temporale dal 2005 al 2011), di tal ché:

I) non è corretto parlare – come fa l’appellante – di un’illegittima pretesa della P.A. di “rinnovare” un accertamento già effettuato dal giudice contabile, avendo avuto il giudizio contabile un oggetto distinto rispetto a quello cui ha riguardo il procedimento di recupero attivato dall’Università. Basti pensare che le somme che il prof. -OMISSIS- era stato condannato in primo grado a pagare a titolo di danno erariale (e per cui, invece, è stato assolto dalla sentenza n. 65/2017 cit.) ammontano a un totale di € 43.582,50, mentre, come si è visto, l’ingiunzione per il recupero di somme emessa a suo carico dall’Ateneo concerne il ben diverso importo di € 2.170.013,12. Anche le coordinate temporali sono almeno parzialmente divergenti, avendo i giudici contabili analizzato il periodo 2003/2007, mentre l’ingiunzione attiene ai compensi nell’arco temporale 2005/2011;

II) per la stessa ragione, è inconferente anche il richiamo alla pretesa violazione del principio del ne bis in idem, giacché tale principio presuppone l’identità dei soggetti e dell’oggetto (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 29 agosto 2022, n. 7508; id., 11 gennaio 2021, n. 360; id., 27 agosto 2020, n. 5257; Sez. II, 13 giugno 2022, n. 4810; Sez. III, 13 aprile 2022, n. 2818). L’eterogeneità dei fatti (C.d.S., Sez. II, 21 ottobre 2021, n. 7086), anche solo sotto il profilo temporale (cfr. C.d.S., Sez. V, 19 ottobre 2006, n. 6200), esclude, perciò, la configurabilità del bis in idem.

Da quanto finora detto già emerge, ad avviso del Collegio, l’infondatezza della doglianza in esame. Ove, poi, si voglia intendere tale doglianza come volta a censurare il difetto di attribuzione della P.A. (e, in parallelo, il difetto di giurisdizione di questo G.A.) sulla questione del recupero dei compensi, siccome devoluta all’esclusiva iniziativa (e cognizione) della magistratura contabile ai sensi dell’art. 53, comma 7-bis, del d.lgs. n. 165/2001, a confutazione della censura il Collegio richiama l’indirizzo espresso in materia da un recente arresto di questo Consiglio (Sez. II, 27 maggio 2021, n. 4091), al quale si ritiene di aderire.

Ha affermato in particolare sul punto la pronuncia ora citata:

“14. Il comma 7 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 impone al dipendente pubblico di restituire automaticamente all’Amministrazione di appartenenza i compensi percepiti per incarichi extraistituzionali privi della prescritta autorizzazione, prescindendo dalla tipologia di attività svolta e dunque in maniera pressoché meccanicistica rispetto al dato oggettivo di ridetta mancanza. Essa non è, dunque, norma che prevede una sanzione disciplinare, ma una misura reale di natura compensativa della condotta irregolare del dipendente, che ne destina preventivamente i compensi percepiti in assenza di una preventiva autorizzazione, funzionalizzandone anche l’utilizzo ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti. La tutela risarcitoria dell’Amministrazione resta invece affidata alle previsioni del successivo comma 7-bis dell’art. 53, il quale prevede che la percezione irregolare di compensi per attività extraprofessionali costituisce danno erariale soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti. Tale disposizione non determina una duplicazione di conseguenze derivanti dallo stesso comportamento, in quanto resta collegata, contrariamente al comma 7, alla gravità dell’inadempimento, alla sussistenza di un danno e al profilo psicologico dell’inadempiente. Essa, cioè, è destinata a disciplinare una ulteriore fase procedimentale connessa e conseguente al mancato versamento dell’emolumento percepito per attività lavorative non autorizzate dalla p.a. Al contrario, l’obbligo di riversare le somme indebitamente percepite “scatta” a prescindere da qualsivoglia profilo di danno – e quindi di illecito – erariale, siccome accade ogniqualvolta che il dipendente abbia agito al di fuori dell’orario di servizio e senza compromettere in alcun modo né in termini quantitativi, né, soprattutto, qualitativi, lo stesso.

(……)

18. Le originarie oscillazioni in ordine alla competenza a giudicare dell’omesso riversamento delle somme indebitamente introitate per attività extraistituzionali sono state definitivamente superate dalla richiamata novella del 2012 che nell’inserire nell’art. 53 del T.u.p.i. il più volte ricordato comma 7-bis, ha esplicitamente qualificato come illecito erariale la relativa condotta

(……)

19. La tematica è stata di recente affrontata funditus dalla Sezioni riunite in sede giurisdizionale della Corte dei conti, che, seppure non rilevando all’interno della magistratura contabile un vero e proprio contrasto in secondo grado, hanno ritenuto opportuno fissare dei paletti anche in ragione delle «differenti accezioni date alla responsabilità in argomento» (Corte conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, 31 luglio 2019, n. 26). Premessa, dunque, un’ampia ricostruzione del variegato quadro giurisprudenziale, hanno definitivamente chiarito l’errore di prospettiva dal quale lo stesso appare falsato, che peraltro permea anche la ricostruzione di parte appellante. Altro è, infatti, l’obbligo di versamento del tantundem indebitamente percepito dal dipendente, ovvero versato dall’ente conferente, di natura sanzionatoria della violazione della normativa regolante l’autorizzazione degli incarichi extraistituzionali; altro l’illecito erariale che consegue alla sua violazione, in quanto la relativa condotta omissiva provoca un depauperamento delle casse pubbliche rispetto a somme che il legislatore assegna loro con totale automatismo. La violazione del primo obbligo di per sé non provoca tuttavia alcun danno, potendo al più quest’ultimo conseguire a caratterizzazioni o esiti antigiuridici ulteriori delle condotte del pubblico dipendente, per le quali sono enucleabili altre e svariate ipotesi di danno erariale, «quali quello legato, ad esempio, all’indebita percezione, totale o parziale, di indennità incentivanti previste nel caso di svolgimento “a tempo pieno” per il datore di lavoro (indennità di svolgimento “a tempo pieno” per il datore di lavoro (indennità di esclusività, per esempio, prevista per i medici dipendenti dal S.S.N. o maggiore misura della retribuzione di posizione, differenziale retributivo per i professori universitari a tempo pieno rispetto a quelli a tempo definito), il danno da disservizio ovvero il danno all’immagine, ipotizzabile nel caso di incarichi in conflitto di interesse con l’amministrazione di appartenenza e non autorizzabili».

20. Il disposto del comma 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 comporta dunque che la responsabilità di che trattasi, se limitata all’inadempimento dell’obbligo di denuncia, senza che sia dedotta l’esistenza di conseguenze dannose per l’amministrazione di appartenenza, non possa sottrarsi alle ordinarie regole di riparto di giurisdizione e quindi, trattandosi qui di rapporto di pubblico impiego non contrattualizzato, alla giurisdizione del giudice amministrativo.

(…..)

21.1. Certo è che la norma sottende comunque un momento funzionalmente sanzionatorio della violazione del dovere primario di esclusività del servizio prestato dal pubblico dipendente, seppure predeterminando l’importo della “sanzione” – recte, della somma da restituire – non mediante il riferimento ad una forbice edittale tra un minimo e un massimo, ma commisurandola a quanto effettivamente percepito a titolo di compenso. Da qui le possibili commistioni rispetto alle ipotesi, particolarmente diffuse nella legislazione speciale, di illeciti (non erariali) la cui punizione è comunque rimessa alla magistratura contabile (……).

Nel caso di specie, tuttavia, si versa al di fuori di tale ambito. Solo la violazione dell’obbligo restitutorio, in quanto strumentale al corretto esercizio delle mansioni del dipendente, «può essere pertanto addotta come fonte di responsabilità amministrativa», come tale capace di radicare la giurisdizione della Corte dei conti (v. ancora Cass., SS.UU., 12579/2015).

Quale che sia l’essenza di tale momento punitivo, esso assume rilievo in termini di responsabilità erariale solo laddove o quando il danno all’erario si produca, il che accade sempre in caso di omesso versamento di corrispettivo ope legis spettante ab origine all’Amministrazione di appartenenza rispetto a prestazione lavorativa a vantaggio di terzi, effettuata senza acquisirne il preventivo e formale assenso.

22. La conferma della correttezza della ricostruzione proposta è da ravvisare, ad avviso della Sezione, nella previsione di cui al comma 8 dell’art. 53, che sanziona ope legis di nullità il provvedimento di conferimento da parte di una pubblica amministrazione, mentre ove si tratti di un ente pubblico economico o di un soggetto privato scattano quelle di cui all’art. 6, comma 1, del d.l. n. 79 del 1997. L’azione di danno si colloca a valle di questo percorso, e sovviene esclusivamente a supporto del relativo meccanismo. (…..). L’obbligo restitutorio ha dunque contenuto ben diverso da quello che consegue alla sua violazione, in quanto opera come una sorta di contrappasso, in chiave oggettivamente sanzionatoria, solo opponendosi al quale l’Amministrazione si vedrà costretta, per tutelare le proprie ragioni, ad adire la Procura contabile.

23. Chiarito quanto sopra, è evidente che il mutamento del quadro legislativo non impatta sulle rivendicate pregresse incertezze in punto di giurisdizione, che a detta dell’appellante giustificherebbero il mutato orientamento personale rispetto all’originario incardinamento della causa presso il giudice amministrativo, anziché quello contabile (…..).

24. Il dubbio, tuttavia, in ordine al giudice competente, può – recte, poteva – riferirsi esclusivamente alle conseguenze dell’omesso versamento dei compensi, non all’affermazione del relativo obbligo, sicché la statuizione di cui al comma 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, quand’anche non le si riconoscesse portata ricognitiva, non impatta sulla fase antecedente, di individuazione del percorso di recupero. L’obbligo di versamento, infatti, prescinde dai presupposti della responsabilità del danno, oggettivi (condotta, evento dannoso, nesso di causalità) e soggettivi (elemento psicologico del dolo o della colpa grave), «non dovendosi confondere il concetto attinente alla mera reversione del profitto con quello del danno […] che condurrebbe all’estensione del limite della giurisdizione contabile al di fuori dei suoi confini istituzionali» (Cass., SS.UU., 26 giugno 2019, n. 17124; id., 14 gennaio 2020, n. 415).

25. Il sistema delinea dunque un intreccio inscindibile tra le conseguenze dello svolgimento di attività extraistituzionale da parte dei pubblici dipendenti in difetto di autorizzazione datoriale. Esso crea, cioè, una fattispecie a formazione progressiva nella quale la prima condotta rileva obiettivamente, salvo se ne vogliano contestare i presupposti disconoscendo il diritto dell’Amministrazione alle reversali economiche imposte. Il primo segmento, attiene alle scelte poste in essere dall’Amministrazione per evitare il danno erariale da mancato introito dei compensi illecitamente percepiti dal dipendente; il secondo le ragioni dell’omesso versamento, che implicano necessariamente la valutazione della liceità della condotta, sotto il profilo oggettivo (supposta non necessità dell’autorizzazione) o soggettivo (mancanza dell’elemento psicologico richiesto).

26. Il giudizio contabile per responsabilità erariale, d’altro canto, (……) non è un giudizio ad iniziativa della parte privata ricorrente, ma consegue alla vocatio in ius del Pubblico ministero contabile, titolare della relativa azione a seguito di una notitia damni. Nulla esclude, dunque, che laddove egli ritenga di opporsi in qualche modo alla restituzione, doverosa e legittima, l’Amministrazione ne informi la Procura presso la Corte dei conti che applicherà tutti gli ordinari canoni della responsabilità amministrativa, sostanziali e processuali, dimostrando non soltanto la mancanza di autorizzazione espressa da parte dell’amministrazione e che si sia verificata l’omissione del riversamento (da parte del dipendente o dell’ente erogante), ma che questo sia connotato da dolo o colpa grave. Trattasi, dunque, di una responsabilità amministrativa ordinaria di danno, che sarebbe ugualmente ipotizzabile – recte, già sussisteva –, in base ai principi generali, in assenza dell’interpolazione legislativa dell’art. 53, mediante l’introduzione del comma 7 bis. Essa, cioè, non discende dall’obbligo di cui al comma 7, ma dalla condotta successiva di omissione del versamento del compenso, alternativa rispetto al versamento da parte del soggetto conferente. Tale omissione, infatti, arreca ontologicamente un danno erariale in quanto priva l’Amministrazione di somme che le spettano, in quanto correlate a prestazione lavorativa del proprio dipendente”.

Anche questa Sezione si è espressa di recente in senso analogo, evidenziando che l’azione di recupero del credito ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001 prescinde dall’azione spettante alla Corte dei conti, così come disciplinata dal successivo comma 7-bis, “la quale fa riferimento al caso di mancato versamento dei compensi percepiti dall’indebito precettore per attività lavorative non autorizzate, idoneo a configurare l’ipotesi di danno erariale.

L’obbligo di restituzione di tali crediti si presenta quale legittima conseguenza prescritta all’interno della stessa disposizione di legge, intesa nella forma di diffida ad adempiere al pagamento di determinato importo e non, dunque, fonte di pretesa risarcitoria. (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 17 ottobre 2018, n. 5944; Consiglio di Stato, sez. VI 26 giugno 2013, n. 3505)” (così C.d.S., Sez. VII, 12 agosto 2022, n. 7104).

Peraltro, le conclusioni non mutano anche qualora si acceda al diverso indirizzo giurisprudenziale invocato dall’appellante.

A tale stregua, infatti, trova applicazione l’orientamento secondo cui la disciplina vigente in materia di percezione di compensi per attività non autorizzate svolte dai dipendenti pubblici legittima tanto la Procura contabile all’azione per danno erariale, quanto l’Amministrazione all’esercizio dei poteri datoriali funzionali all’adempimento dell’obbligazione di pagamento ex lege gravante sul dipendente percettore (avente ad oggetto il versamento del compenso percepito per le prestazioni svolte), ferma rimanendo l’unicità del danno e, pertanto, l’impossibilità di riscuotere presso il dipendente percettore le somme dovute sia in sede contabile che in ambito amministrativo (Cass. civ., Sez. Un., 5 novembre 2021, n. 32199).

In questa prospettiva, l’ammissibilità di un’azione per responsabilità erariale non impedisce, tuttavia, all’Amministrazione, ove la Procura contabile non abbia ancora agito per il recupero delle somme indebitamente percepito dal dipendente, di provvedere in via autonoma e diretta alla riscossione delle predette somme, agendo sia in sede giudiziaria, pure mediante il deposito di un ricorso per decreto ingiuntivo, sia in via di autotutela, anche con il procedimento di cui al r.d. n. 639/1910 (C.d.S., Sez. VI, 16 maggio 2022, n. 3804).

In tali ipotesi, la P.A. non promuove un’azione di responsabilità per danno erariale, rimessa alla giurisdizione contabile, ma agisce per l’adempimento di un’obbligazione gravante sul lavoratore che trova fondamento nel rapporto di lavoro, non rilevando il danno e la colpa del dipendente medesimo, ma la mera percezione di quanto andava devoluto all’Amministrazione di appartenenza. E sempre in questa prospettiva, il coordinamento delle due azioni di recupero avviene sulla base del principio di alternatività, cosicché: a) la legittimazione del Procuratore contabile sorge di fronte all’inerzia della P.A.; b) allorché il Procuratore contabile abbia promosso l’azione di responsabilità in relazione alla tipizzata fattispecie legale, è precluso alla P.A. l’esercizio di quella volta a far valere l’inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro.

Ne segue, in conclusione, che è ammissibile l’iniziativa della P.A. datrice di lavoro volta al recupero dei compensi percepiti dal dipendente per incarichi svolti e non previamente autorizzati, che si traduce in un ordine impartito dalla stessa P.A. di versare in proprio favore l’importo percepito dal dipendente in violazione del divieto di svolgimento di attività non previamente autorizzate: in tal caso il recupero è effettuato dall’Amministrazione “in base ai poteri datoriali, con la conseguenza che la controversia promossa dal dipendente al fine di contestare l’avversa pretesa trova il proprio fondamento nel rapporto di lavoro, risultando, per l’effetto, devoluta alla cognizione del giudice che sullo stesso rapporto di lavoro abbia giurisdizione” (C.d.S., Sez. VI, n. 3804/2022, cit.), quindi per le vicende che interessano dipendenti appartenenti al pubblico impiego cd. non contrattualizzato (quale quella ora in esame, che interessa un professore universitario) alla giurisdizione esclusiva del G.A. ex artt. 3 e 63, comma 4, del d.lgs. n. 165/2001.

Una recente pronuncia della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. Un., ord. 15 febbraio 2022, n. 4871) sostiene, addirittura, che il G.A. possa conoscere della controversia sulla ripetizione delle somme indebitamente percepite dal dipendente per lo svolgimento di attività extraistituzionale non autorizzata dall’Amministrazione di appartenenza anche nel caso in cui sia stata contemporaneamente avviata l’azione di responsabilità erariale dinanzi alla Corte dei conti per i medesimi fatti materiali, attesa l’assoluta autonomia tra le due azioni, che, presentando presupposti diversi (giacché la prima ha una funzione riparatoria ed integralmente compensativa del danno e la seconda ha una funzione prevalentemente sanzionatoria), sono reciprocamente indipendenti, senza che possa prospettarsi una violazione del principio del ne bis in idem.

Va sottolineato, pertanto, che quale che sia l’indirizzo prescelto, la doglianza dell’appellante volta a contestare il potere dell’Università “Parthenope” di procedere al recupero dei compensi, è priva di fondamento giuridico. Infatti, anche ad accedere alla tesi dell’alternatività dei rimedi, non vi sarebbe alcuna preclusione per l’Università ad attivarsi per il recupero dei compensi mediante l’ingiunzione fiscale impugnata, discendente dal giudizio contabile definito con la sentenza n. 65/2017 cit., atteso che, come già visto, quest’ultimo ha avuto un oggetto diverso e cioè la retribuzione (e gli altri benefici economici) percepiti dal docente presso l’Ateneo per il suo inquadramento nel regime di impegno a tempo pieno.

Il Collegio ritiene, tuttavia, preferibile la prima delle due opzioni riportate (contenuta nella sentenza n. 4091/2021 cit.), ravvisando tra le due possibili forme di intervento (quella del Procuratore contabile e quella dell’Amministrazione) alcune differenze che rendono arduo parlare di alternatività dei rimedi (come fa l’indirizzo cui aderisce la sentenza n. 3804/2022 cit.). In particolare, la differenza tra i due rimedi è palese sotto il profilo dell’elemento soggettivo, indispensabile (addirittura nella forma della colpa grave) per configurare una responsabilità erariale del dipendente, non necessario, invece, per l’azione di recupero della P.A. (fondata sul dato oggettivo della percezione di compensi per attività non autorizzate); altrettanto netta è, poi, la differenza tra i rispettivi termini di prescrizione (cinque anni nell’un caso, dieci anni nell’altro: v. infra).

Alla luce della prima opzione esposta, dunque, il motivo di gravame in esame è infondato, in quanto, come appunto precisato dalla sentenza n. 4091/2021 cit., la giurisdizione contabile subentra in una fase successiva del procedimento di recupero dei compensi per incarichi extraistituzionali privi della necessaria autorizzazione, ex art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, “quando, accertato il credito della p.a., il debitore (e cioè il dipendente pubblico) non abbia provveduto a soddisfarlo”.

Nel caso di specie, l’ingiunzione fiscale impugnata costituisce l’atto con cui è stato accertato in via definitiva il credito dell’Amministrazione. Tale natura non può invece riconoscersi alla richiesta di pagamento di cui alla nota dell’Università prot. n. 27421 del 10 aprile 2018, trattandosi di atto con valore interlocutorio e privo di contenuto provvedimentale, come si desume anche dal fatto che essa non reca in calce alcuna indicazione sui rimedi esperibili (in sede giurisdizionale o straordinaria), né sul termine entro il quale esperirli. A fronte dell’azione di recupero avviata dall’Università creditrice e tradottasi nell’ingiunzione fiscale impugnata, la tutela esperibile dal dipendente, appartenente al cd. pubblico impiego non contrattualizzato, non avrebbe potuto essere altro che quella di impugnare il provvedimento di recupero innanzi al G.A., non essendo ragionevolmente ipotizzabile, come osserva sempre la sentenza n. 4091/2021 cit., che il coinvolgimento della magistratura contabile avvenga tramite l’iniziativa del dipendente, il quale si rivolga alla Corte dei conti autodenunciandosi, ovvero diffidi la P.A. dal procedere coattivamente. È solo per effetto dell’inadempimento dell’ingiunzione che si concretizza l’ipotesi del danno erariale, legittimante l’intervento della magistratura contabile ai sensi del citato art. 53, comma 7-bis.

Acclarata l’infondatezza del primo motivo di appello, se ne ricava l’infondatezza, altresì, del secondo motivo.

La giurisprudenza di questo Consiglio ha, infatti, affermato che all’azione di recupero dei compensi intrapresa dalla P.A. sulla base dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001 si applica il termine di prescrizione ordinario decennale ex art. 2946 c.c., siccome riconnesso alla natura non sanzionatoria, bensì reale e compensativa della previsione contenuta nel predetto art. 53, comma 7, volta a prevedere una misura reale di destinazione dei compensi in difetto di previa autorizzazione (cfr. C.d.S., Sez. IV, 17 giugno 2021, n. 4669). E nello stesso senso depone anche quanto detto sopra sulla configurabilità del danno erariale ex art. 53, comma 7-bis cit. solo in una fase procedimentale successiva, quando cioè, accertato il debito della P.A., il dipendente non provveda a soddisfarlo.

In ogni caso, per giurisprudenza consolidata, all’azione di recupero dei compensi ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001 si applica l’ordinario termine di prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, n. 5944/2018, cit.). In tal senso si è espressa anche la recente giurisprudenza di questa Sezione, ricollegando l’applicazione della prescrizione ordinaria decennale al fatto che si tratta dell’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria (C.d.S., Sez. VII, 30 agosto 2022, n. 7583; v., altresì, id., n. 7104/2022, cit.).

Del pari, è infondato il terzo motivo dell’appello, aderendo il Collegio all’interpretazione evolutiva dell’art. 1 del r.d. n. 639/1910 seguita dal T.A.R. e che comporta che lo strumento dell’ingiunzione fiscale previsto dall’art. 2 del citato regio decreto sia utilizzabile anche dagli Enti pubblici diversi dallo Stato: in particolare il Collegio condivide l’affermazione della sentenza appellata sulla valenza meramente indicativa degli Enti legittimati ad emettere l’ingiunzione fiscale propria dell’elencazione contemplata dall’art. 1 cit. e sul fatto che la predetta ingiunzione costituisce strumento rientrante “nel novero delle prerogative di ogni ente pubblico a carattere territoriale o funzionale”.

Del resto, la più recente giurisprudenza di questo Consiglio si è già espressa in favore dell’utilizzo, da parte delle Università, del procedimento di cui al r.d. n. 639/2010 per la riscossione delle somme indebitamente percepite dal dipendente per incarichi extraistituzionali non autorizzati, trattandosi di uno strumento che trova fondamento nel potere di autoaccertamento della P.A., con il solo limite che il credito, in base al quale viene emesso l’ordine di pagare la somma dovuta, sia “certo, liquido ed esigibile” (C.d.S., Sez. VI, n. 3804/2022, cit.).

Ancora, sono infondati il quarto e il quinto motivo di appello (da trattare congiuntamente), a mezzo dei quali il docente si duole dell’adesione, da parte della sentenza appellata, alla ricostruzione dei fatti operata dall’ingiunzione impugnata.

Si è già dimostrata, infatti, l’impossibilità di considerare “tamquam non esset” l’opzione per il tempo pieno effettuata liberamente e consapevolmente dal prof. -OMISSIS- nelle dichiarazioni contenute nei moduli da lui inviati il 13 gennaio 2005: queste, pur se posteriori di un giorno alla data di adozione del D.R. n. 13/2005, indicano in modo inequivocabile quale fosse la volontà del docente, della cui comunicazione, in un primo tempo solo verbale ma confermata il giorno dopo per iscritto, il predetto decreto rettorale ha dato atto.

Né – contrariamente a quanto sostiene con i motivi in esame – l’appellante ha fornito alcuna prova di avere effettuato l’opzione per il tempo definito prima dell’avvio dell’anno accademico 2005/2006. A tale scopo non può valere, infatti, il D.R. n. 535 del 30 ottobre 2004, perché questo ha ad oggetto il trasferimento del prof. -OMISSIS-, quale professore associato a tempo definito inquadrato nel S.S.D. “Economia e Gestione delle Imprese”, dall’Università degli Studi del Molise alla Facoltà di Economia dell’Università “Parthenope”: pertanto, è del tutto irrilevante ai fini che qui interessano che l’art. 2 di detto decreto dia atto della spettanza al docente della retribuzione relativa alla classe iniziale dei professori di II^ fascia con impegno a tempo definito.

L’inadempienza dell’Università all’obbligo di comunicare tempestivamente all’Ordine dei Dottori Commercialisti il passaggio del professore dal regime a tempo definito di cui al D.R. n. 535/2004 a quello a tempo pieno previsto dal D.R. n. 13/2005, se anche in ipotesi potrebbe attenuare il grado di colpa del docente, non può però infirmare il significato dei moduli dallo stesso compilati, sottoscritti e inviati il 13 gennaio 2005.

Vero è che, ai sensi dell’art. 11 del d.P.R. n. 382/1980, l’opzione tra tempo pieno e tempo definito, valevole per un biennio, va esercitata almeno sei prima dell’inizio dell’anno accademico. A sua volta la l. n. 725/1982 dispone che la suddetta opzione venga esercitata all’atto della domanda di chiamata o di inquadramento. Nel caso di specie, quindi, il trasferimento del docente dall’Università del Molise all’Università “Parthenope”, comportando il mantenimento per questi dell’inquadramento in essere presso l’Ateneo di provenienza, ha determinato, come correttamente eccepito dalla difesa erariale, la traslazione automatica, altresì, dell’opzione per il tempo definito da lui effettuata presso l’Università del Molise. Viceversa, all’atto dell’inquadramento come professore straordinario – che ha comportato l’instaurazione di un nuovo rapporto, in un diverso ruolo organico e con decorrenza giuridica dal 12 gennaio 2005 ed economica del giorno successivo – era necessario che il docente esercitasse di nuovo l’opzione ex art. 11 del d.P.R. n. 382 cit., cosa che l’appellante ha fatto verbalmente e poi per iscritto con i moduli trasmessi il 13 gennaio 2005, scegliendo il regime a tempo pieno.

Priva di pregio è, perciò, l’argomentazione secondo cui il docente, avendo già preso servizio nel 1999 in sede di prima nomina presso l’Università del Molise quale professore associato, ed avendo in tale occasione espresso la preferenza per l’impegno a tempo definito, non avesse l’obbligo di esercitare nuovamente l’opzione al momento dell’inquadramento in II^ fascia presso l’Università “Parthenope” di Napoli: l’obbligo, infatti, è sorto con il passaggio a professore di I^ fascia.

In altre parole, la pretesa dell’odierno appellante di considerare valida ed efficace anche per l’incarico di professore straordinario l’opzione per il tempo definito da lui effettuata all’atto dell’inquadramento presso l’Ateneo di provenienza (Università del Molise) non tiene conto: a) sul piano sostanziale, del fatto che una cosa è l’inquadramento quale professore associato, tutt’altra quello come professore straordinario di I^ fascia; b) sul piano processuale, della circostanza che comunque mai il docente ha impugnato il D.R. n. 13/2005, nella parte in cui lo assoggettava esplicitamente al regime di impegno a tempo pieno, limitandosi a chiederne all’Università appellata la rimozione in autotutela nel 2015, a distanza di dieci anni e, perciò, a termine di impugnativa ampiamente decorso.

L’odierno appellante invoca a supporto delle proprie tesi anche la sentenza del T.A.R. Campania – Napoli, Sez. II, n. 775 del 6 febbraio 2014, che ha accolto il ricorso da lui promosso contro la sanzione della sospensione per un anno dal servizio e dallo stipendio inflittagli dall’Università “Parthenope”: ma questa sentenza, pur annullando l’ora riferita sanzione disciplinare, ha confutato l’affermazione del ricorrente secondo cui egli avrebbe ritenuto in buona fede che il regime a tempo definito, di cui aveva goduto quando era professore associato, gli si fosse automaticamente esteso al passaggio alla qualifica di professore di I^ fascia, e ciò in quanto tale affermazione “è smentita dalla dichiarazione sottoscritta dal -OMISSIS- in data 13 gennaio 2005, con la quale il professore ha espressamente dichiarato di optare per il regime di impiego a tempo pieno, “ritenendosi obbligato al rispetto di tale impegno per il biennio accademico 2005-2007” ed impegnandosi “ad osservare le norme in materia di tempo pieno e di incompatibilità previste dal D.P.R. n. 382/80””.

Il docente censura, ancora, il capo della sentenza appellata che ha respinto la richiesta di sospensione del giudizio a seguito della proposizione, ad opera del medesimo professore, della querela di falso avverso il D.R. n. 13/2005 e il D.R. n. 348/2008, motivando tale diniego con l’irrilevanza del predetto giudizio di falso ai fini della decisione della causa.

In contrario, però, si osserva che la decisione assunta sul punto dal T.A.R. è del tutto condivisibile e la relativa motivazione esente da mende, trattandosi di decisione conforme al disposto dell’art. 77, comma 2, c.p.a., a tenor del quale “Quando la controversia possa essere decisa indipendentemente dal documento del quale è dedotta la falsità, il collegio pronuncia sulla controversia”. E va ribadito, sul punto, che l’interessato non ha mai disconosciuto la propria firma in calce ai succitati moduli di opzione datati 13 gennaio 2005, ma anzi ha ammesso di averli sottoscritti e trasmessi all’Ateneo, pur cercando (in modo poco verosimile, visto che i moduli sono compilati in parte a mano) di sostenere che si sia trattato di un mero errore da parte sua.

Il docente lamenta poi che il D.R. n. 66 del 31 gennaio 2011 gli abbia attribuito il regime di impegno a tempo definito solo assai tardivamente, a decorrere dal 1° novembre 2011, ma non fornisce nessuna prova idonea della data di presentazione della richiesta di opzione per il regime a tempo definito per il nuovo biennio, rispetto alla quale si sarebbe verificata la ridetta tardività (da ascrivere, in tesi, alla condotta negligente degli Uffici dell’Ateneo).

In particolare, egli sostiene di aver presentato l’istanza di opzione per il tempo definito nei primi mesi del 2008, come si ricaverebbe da numerosi elementi e soprattutto da un modulo di opzione per il tempo definito da lui sottoscritto, presente in atti, privo di data certa ma conforme ai moduli reperibili sul sito web dell’Università “Parthenope” fino al marzo 2010 (quando furono sostituiti a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 240/2010). Lamenta, altresì, l’incoerenza del D.R. n. 66/2011, il quale, dopo aver dato atto della presentazione in data 5 novembre 2008 di un’istanza di opzione per il tempo definito, avrebbe irragionevolmente assegnato al docente il regime opzionato solo a decorrere dal 1° novembre 2011, e non dal 2008, come da istanza.

Senonché, da un lato, il modulo sottoscritto dal docente con l’opzione per il tempo definito, essendo privo di data, non è idoneo a dimostrare alcunché e, in particolare, non può fornire alcun elemento in ordine all’epoca della sua presentazione.

Quanto alla presentazione dell’istanza in data 5 novembre 2008, l’Ateneo eccepisce che si tratta di un errore materiale contenuto nel D.R. n. 66/2011, il riferimento dovendo intendersi all’istanza del 5 novembre 2010 (su cui infra).

Tale eccezione trova conferma, anzitutto, nella stessa pretesa del docente di aver presentato l’istanza di opzione “nei primi mesi del 2008”, cioè in un momento ben diverso rispetto al novembre 2008. Ed invero, il prof. -OMISSIS-, nel riscontrare con missiva del 14 aprile 2008 la nota del 18 marzo 2008 dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di Roma che gli aveva segnalato l’incompatibilità tra il regime di impiego a tempo pieno e l’esercizio da parte sua della professione, ha affermato che era stato già avviato l’iter per il suo passaggio al regime di professore a tempo definito. Ma detta affermazione – poi ribadita nell’istanza di autotutela del 12 gennaio 2015 – contraddice la tesi della presentazione della richiesta di opzione per il tempo definito alla data del 5 novembre 2008, perché presuppone la formalizzazione dell’opzione stessa in un momento ben anteriore a tale data.

Inoltre, neppure l’ulteriore missiva inviata dal docente all’Ordine dei Dottori Commercialisti, datata 18 giugno 2010, contiene alcuna informazione circa la data di formalizzazione dell’opzione per il tempo definito e in particolare non indica la presentazione di alcuna istanza nel 2008, mentre sarebbe stato nell’interesse del docente fornire un’informazione di tal natura, al fine di dimostrare come il ritardo nella conclusione del procedimento fosse da attribuire all’esclusiva responsabilità dell’Ateneo (responsabilità poi enfatizzata nel gravame).

Priva di fondamento è l’affermazione dell’appellante secondo cui il certificato rilasciatogli in data 6 settembre 2010 dall’Università “Parthenope” attesterebbe la presentazione da parte sua dell’opzione per il tempo definito a far data dal 12 gennaio 2005.

In realtà detto certificato, presente in atti come allegato 10, si limita ad attestare la presentazione da parte del docente della richiesta di opzione per il tempo definito e la pendenza della relativa pratica amministrativa, ma nulla dice sulla data di presentazione della richiesta: in particolare, il certificato non attesta per nulla che l’istanza di opzione fosse stata presentata a far data dal 12 gennaio 2005, ma attesta una cosa ben diversa e cioè che il prof. -OMISSIS-, professore di I^ fascia in servizio presso la Facoltà di Economia per il S.S.D. SECS-P/08 (Economia e Gestione delle Imprese) “a far data dal 12/01/2005”, ha presentato richiesta di opzione per il tempo definito.

In altri termini, nel certificato l’espressione “a far data dal 12/01/ 2005” è riferita alla data della presa di servizio dell’appellante quale professore (straordinario) di I^ fascia e non certo – come egli mostra di credere nel gravame – alla data della presentazione, da parte sua, della richiesta di opzione per il tempo definito. La presenza, nel testo del certificato, di una virgola che separa l’espressione “a far data dal 12/01/2005” dalla successiva frase “ha presentato richiesta di opzione .….” non consente di nutrire dubbi in proposito, spazzando via ogni equivoco e dimostrando nel contempo la pretestuosità dell’assunto dell’appellante.

Non rileva che l’istanza richiamata dall’Università, quella del 5 novembre 2010, riguardi in realtà l’adesione del docente al regime di collocamento a riposo fino al settantesimo anno di età ex art. 1, commi 17 e 19, della l. n. 230/2005 e sia per conseguenza inidonea a determinare gli effetti giuridici dell’assegnazione al regime a tempo definito: va ribadito, infatti, che non vi sono in atti elementi che dimostrino la pendenza del procedimento per il passaggio al tempo definito in epoca anteriore al 6 settembre 2010, l’unica prova addotta al riguardo dal docente – l’avere egli utilizzato modulistica conforme a quella reperibile sul sito web dell’Ateneo fino al 15 marzo 2010 – essendo assai poco significativa.

Va peraltro evidenziato che lo stesso certificato emesso dall’Università “Parthenope” il 6 settembre 2010, invocato dall’appellante, collega la richiesta dell’opzione per il regime a tempo definito alla disciplina dell’art. 1, commi 17 e 19, della l. n. 230/2005: il che spiega, a ben vedere, perché l’Ateneo abbia considerato l’istanza del 5 novembre 2010 come l’atto del professore contenente l’opzione per il tempo definito, facendo decorrere da questa il termine di sei mesi ex art. 11, secondo comma, del d.P.R. n. 382/1980 (v. subito infra).

In definitiva, poiché l’appellante non ha fornito alcun idoneo supporto probatorio alle proprie tesi, si deve concludere per la legittimità della decisione dell’Università di far decorrere l’inquadramento del professore nel regime a tempo definito dal 1° novembre 2011, in coincidenza con l’inizio del nuovo anno accademico. Tale decisione è conforme all’art. 11, secondo comma, del d.P.R. n. 382/1980, a tenor del quale l’opzione tra regime a tempo pieno ed a tempo definito “va esercitata con domanda da presentare al rettore almeno sei mesi prima dell’inizio di ogni anno accademico”: infatti, è chiaro che, prendendo a riferimento la data del certificato ora citato (6 settembre 2010), la prima data utile per far decorrere l’opzione, ai sensi dell’art. 11, secondo comma, cit., è quella dell’inizio dell’anno accademico successivo (2011/2012), cioè il 1° novembre 2011. Tale conclusione si impone a fortiori ove si prenda a riferimento l’istanza del 5 novembre 2010, come fatto dall’Ateneo.

Da ultimo, è privo di fondamento il sesto motivo, con il quale l’appellante è tornato a dolersi della sproporzione che sarebbe insita nella misura adottata a suo carico, atteso che:

  • per quanto esposto, non convince il richiamo alla buona fede del dipendente e al concorso di colpa dell’Amministrazione. Tale concorso certamente non è invocabile per il periodo posteriore al 2008, quando ormai l’Università aveva informato l’Ordine dei Dottori Commercialisti dell’inquadramento dell’appellante quale docente a tempo pieno. Inoltre il prof. -OMISSIS-, a far data, quantomeno, dalla ricezione della nota dell’Ordine dei Dottori Commercialisti del 18 marzo 2008 (da lui riscontrata con missiva del 18 aprile 2008), era consapevole che a suo carico era stata accertata una situazione di incompatibilità tra l’attività di professore universitario a tempo pieno e il contestuale svolgimento dell’attività libero professionale. Nel periodo in questione, dunque, una regola di elementare prudenza e diligenza gli avrebbe dovuto suggerire di astenersi dall’assumere incarichi professionali fino a un definitivo chiarimento sulla sua posizione, ma ciò non è avvenuto: al contrario, in tale periodo egli ha continuato ad assumere incarichi, puntualmente elencati dalla Guardia di Finanza nella relazione del 14 marzo 2016 allegata alla nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica prot. n. 359 del 1° aprile 2016;
  • come precisato dal T.A.R., non è predicabile alcuna violazione del criterio di proporzionalità di cui all’art. 10 della l. n. 689/1981, giacché questo si riferisce alle sanzioni pecuniarie di tipo afflittivo-punitivo, mentre la misura per cui è causa, pur ove la si voglia inquadrare tra le sanzioni, non avrebbe tale natura, bensì carattere ripristinatorio. Il suo ammontare, peraltro, è rigidamente predeterminato dalla legge e non ammette di essere ridotto in virtù dello stato soggettivo in cui versa il trasgressore, di tal ché non rilevano le osservazioni dell’appellante circa la scarsa offensività dell’eventuale illecito commesso ed il grado lieve della colpa a lui ascrivibile;
  • contrariamente a quanto lamenta l’appellante, la lettura dell’ingiunzione fiscale e dei prospetti alla stessa allegati dà conto dell’effettuazione del calcolo al netto delle ritenute fiscali degli importi dei compensi da restituire. In particolare, il parag. r) delle premesse dell’ingiunzione esplicita che il totale degli importi risultanti per le attività extraistituzionali non autorizzate è pari ad € 1.916.178,69 “al netto della tassazione prevista”;
  • come ancora giustamente osservato dal T.A.R., non possono avere giuridico rilievo eventuali somme da dedurre in compensazione in virtù del regime a tempo pieno espletato dal docente, poiché, come già detto, l’ammontare degli importi da pagare è rigidamente predeterminato dalla legge. Esorbita poi dal presente giudizio qualsiasi pronuncia sull’eventuale domanda proposta dal docente di ripetizione delle suddette somme, ove da lui già versate;
  • infine, il presunto cumulo di cui si duole l’appellante non comporta alcuna violazione del principio del ne bis in idem, in quanto è lo stesso art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001 a fare esplicitamente salva l’applicabilità dei più gravi trattamenti sanzionatori, anche di tipo disciplinare. D’altronde, la natura di misura reale e compensativa – e non già sanzionatoria – propria del recupero ex art. 53 cit. (Cass. civ., Sez. Un., ord. n. 4871/2022, cit.; C.d.S., Sez. IV, n. 4669/2021, cit.), esclude in radice la possibilità di un bis in idem.

In conclusione, l’appello è nel suo complesso infondato, attesa l’infondatezza di tutti i motivi con lo stesso proposti, e deve, per conseguenza, essere respinto, meritando la sentenza impugnata di essere confermata.

Sussistono, comunque, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di appello, in virtù della complessità delle questioni affrontate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Settima (VII), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, commi 1 e 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (ed agli artt. 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti e della dignità della parte interessata, dà mandato alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi altro dato idoneo all’identificazione dell’appellante.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 25 ottobre 2022, con l’intervento dei magistrati:

Roberto Giovagnoli, Presidente
Fabio Franconiero, Consigliere
Pietro De Berardinis, Consigliere, Estensore
Marco Morgantini, Consigliere
Rosaria Maria Castorina, Consigliere