§ – il medico non può essere ritenuto penalmente responsabile per il reato di omicidio colposo del paziente, allorquando risulti accertato che, in base alla sintomatologia lamentata, si era nell’impossibilità di formulare una diagnosi della patologia risultata poi letale [polmonite virale].

Si accertava che il medico imputato non era stato informato su un dolore pleurico, dispnea, cianosi, cefalea, miastenia e soprattutto sullo stato febbrile; pertanto al sanitario non erano stati forniti gli elementi per diagnosticare una polmonite virale e forse nemmeno una più modesta sindrome influenzale.

Peraltro, nel caso specifico, il particolare incalzare degli eventi, non aveva consentito di ipotizzare se l’azione doverosa, ove fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea ad impedire l’evento con apprezzabili possibilità di successo.[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]

Cassazione penale – Sezione IV, Sent. n. 14431 del 02.04.2009

omissis

Svolgimento del processo

1. Il 6 dicembre 2004 la Corte di Appello di L’Aquila confermava la sentenza in data 24 aprile 2002 del G.I.P. del Tribunale di Lanciano, con la quale, a seguito di giudizio abbreviato, B.G. era stato assolto da imputazione di cui all’art. 589 c.p. perchè il fatto non sussiste.

Ricordavano, in fatto, i giudici del merito che la mattina dell’ X.  P.S. si era recata dal Dott. B., lamentando dolori dentali, tosse e bruciore alla gola.

Il medico le aveva prescritto un antibiotico e la donna era rientrata in casa; recatasi, poi, in visita dalla sorella, aveva avvertito un malessere che le aveva causato del vomito ed il marito aveva provveduto a ricoverarla presso l’ospedale di X. , ove, tuttavia, la donna era giunta cadavere.

L’esame autoptico aveva consentito di accertare che il decesso era dovuto ad arresto cardiaco secondario a polmonite interstiziale ad impronta emorragica e, non essendosi ravvisate responsabilità di sorta a carico del medico, il relativo procedimento iscritto era stato archiviato.

Successivamente, su sollecitazione del fratello della P. S., P.G.O., dopo cinque anni dai fatti erano state riaperte le indagini nei confronti del B., al quale si era conclusivamente contestato di aver omesso di sottoporre a visita la paziente e, conseguentemente, di avere omesso di diagnosticare tempestivamente la polmonite virale che l’aveva tratta a morte e di prescrivere idonea terapia antibiotica e ricovero ospedaliero.

Dopo aver premesso che, “risalendo il reato addebitato al B. all’8 gennaio 1996, è ampiamente decorso il termine massimo di prescrizione”, ma che, nondimeno, doveva trovare applicazione il disposto dell’art. 129 c.p.p., comma 2, rilevava la Corte territoriale che “il primo giudice ha correttamente motivato in ordine alla inesigibilità della condotta ipotizzata – in ragione della lievità dei sintomi lamentati dalla paziente, confermati dalla normalità della sua condotta nel corso delle ore che seguirono l’incontro con il medico -, e, comunque, in ordine all’insussistenza del nesso causale, atteso che l’eventuale diagnosi di polmonite virale e la prescrizione di terapia antibiotica non avrebbero avuto alcuna efficacia risolutiva nelle poche ore che precedettero l’improvviso decesso”.

Richiamati gli esiti della indagine autoptica, rilevava, altresì, “che non sono necessari ulteriori accertamenti, peraltro resi pressoché impossibili dal tempo trascorso”, e che “detto accertamento sia del tutto privo di riferimenti alla possibilità che il dott. B. potesse pervenire alla formulazione di una corretta diagnosi ed alla prescrizione di rimedi risolutivi a seguito di una semplice visita medica, essendo i consulenti del P.M. pervenuti alle loro conclusioni solo all’esito dell’asportazione e sezionamento dei polmoni”.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso la parte civile, P.G.O., per mezzo del difensore, denunziando:

a) vizi di violazione di legge e di motivazione, per avere la Corte territoriale del tutto omesso di motivare in ordine ad una sollevata eccezione di “nullità del procedimento e della sentenza di primo grado per omesso avviso della fissazione dell’udienza preliminare … alle altre persone offese”;

b) il vizio di violazione di legge: i giudici del merito – lamenta il ricorrente – non hanno considerato che l’imputato “non visitò la vittima … e dunque non rilevò quel che avrebbe potuto rilevare facendo corretto e diligente uso delle sue competenze e conoscenze specifiche: i sintomi della polmonite, con conseguente adozione di prescrizioni e terapia atte ad evitare il decesso della P. S.”.

Ricorda che “il primo giudice aveva implicitamente ed acriticamente sposato la tesi della difesa degli imputati …che sosteneva … che la causa di morte fosse ascrivibile ad infarto, senza esplicitare alcuna motivazione sul punto ed in evidente contrasto con le risultanze dell’esame autoptico eseguito dal dr. M.:

“la causa del decesso va identificata in un arresto cardiaco secondario a polmonite interstiziale ad impronta emorragica di natura virale…”.

Rileva che si era omesso di considerare che ” P.S. … si era recata presso l’ambulatorio del dr. B.G. anche nei giorni precedenti il decesso lamentando i medesimi sintomi, senza mai essere sottoposta a visita, visita che avrebbe senz’altro rivelato la patologia polmonare”;

che “la sentenza è ulteriormente viziata nella motivazione perchè … attribuisce prova della inesigibilità della condotta ipotizzata … alle attività poste in essere dalla vittima nelle ore precedenti il decesso … e ad alcuni dei sintomi emergenti dagli atti…”, e, “ignorando le specifiche censure della parte civile in sede di appello, ha da un lato indebitamente estrapolato dal materiale probatorio in atti alcuni sintomi …, ignorandone altri pur risultanti in atti …, e dall’altro ha omesso del tutto di considerare quale quadro clinico potesse emergere … da una visita medica accurata effettuabile nella mattinata del giorno 8.1.96 (giorno del decesso) ed anche nei giorni precedenti il decesso …”, illegittimamente ritenendo, in sostanza, che “la polmonite virale è rilevabile solo con l’esame autoptico”;

altrettanto illogica è l’affermazione sulla ritenuta insussistenza del nesso causale;

c) vizi di violazione di legge e di motivazione, per avere la sentenza impugnata ritenuto la intervenuta prescrizione del reato e “la preclusione alla pronuncia sulle doglianze e richieste dell’appellante parte civile ai soli fini civili in difetto di pronuncia di condanna in primo grado”: valendo la prescrizione decennale, il reato non si era prescritto.

Motivi della decisione

3. Le proposte doglianze non sono condivisibili.

Quanto, invero, al primo motivo di censura, è assorbente considerare che il ricorrente non è affatto legittimato, per carenza di interesse, ad eccepire nullità che, eventualmente, interesserebbero solo altri soggetti e parti processuali, solo questi ultimi avendo, appunto, interesse a dolersi.

Quanto al secondo profilo di doglianza – premesso che i giudici del merito hanno evidenziato che la causa della morte era da individuare “in una polmonite interstiziale virale a marcata impronta emorragica” (conformemente alle risultanze dell’indagine autoptica eseguita nella immediatezza del decesso) – gli stessi hanno confermativamente ritenuto “la inesigibilità della condotta ipotizzata” da parte dell’imputato, ricordando che la donna si era recata dal dott. B. “lamentando dolori dentali, tosse e bruciore alla gola …, che il medico le prescrisse l’antibiotico Veclam, che la giovane donna rientrò in casa, preparò il pranzo, mise in ordine, riposò e quindi si recò in visita dalla sorella, presso la quale ebbe i primi sintomi del grave malessere che, rientrata in casa, le causò il vomito e convinse il coniuge della necessità di ricoverarla immediatamente presso l’Ospedale di X. , ove giunse cadavere …”.

Annota la integrativa sentenza di primo grado (e l’assunto è, in sostanza, fatto proprio anche dai giudici dell’appello) che “il dott. B., in base alla sintomatologia lamentata dalla paziente… era nell’impossibilità di formulare una diagnosi di polmonite virale …;

non risulta che l’imputato sia stato informato su un dolore pleurico, dispnea, cianosi, cefalea, miastenia e soprattutto sullo stato febbrile anche perchè pare che la temperatura non sia stata mai misurata.

Pertanto il medico non aveva assolutamente elementi per diagnosticare una polmonite virale e forse nemmeno una sindrome influenzale”.

Aggiunge ancora il primo giudice che, peraltro, dato il descritto “incalzare degli eventi”, “nulla consente di ipotizzare che l’azione doverosa che si imputa al dott. B., ove fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea ad impedire l’evento con apprezzabili possibilità di successo, poichè sul punto manca ogni certezza della prova”;

ed anche tale assunto è fatto proprio dalla sentenza impugnata, la quale ritiene che “il primo giudice ha correttamente motivato” anche “in ordine all’insussistenza del nesso causale, atteso che l’eventuale diagnosi di polmonite virale e la prescrizione di terapia antibiotica non avrebbero avuto alcuna efficacia risolutiva nelle poche ore che precedettero l’improvviso decesso”.

Tale argomentare si sottrae e rinvenibili vizi di illogicità che, peraltro, la norma vuole dover essere manifesta, cioè coglibile immediatamente, ictu oculi.

D’altra parte, prospettandosi dal ricorrente una diversa valutazione delle circostanze esaminate dai giudici del merito, pure occorre ricordare che, in tema di sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass., Sez. Un., 13.12.1995, n. 930/1996); id., Sez. Un., 31.5.2000, n. 12).

Ed il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 – da “altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame”, il che vuoi dire – quanto al vizio di manifesta illogicità -, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, ancorchè munite, in tesi, di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30).

Quanto, infine, all’ultimo motivo di ricorso (concernente la ritenuta prescrizione del reato), l’assoluzione nel merito dell’imputato rende irrilevante, e comunque assorbita, la questione dedotta dal ricorrente.

4. Il ricorso va, dunque, rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2009