Nel caso in esame, il diritto al maggior compenso, in assenza di una fonte normativa, non può farsi discendere automaticamente dal mancato rispetto del rapporto ottimale medico/assistibili, che opera sul piano della efficienza del sistema sanitario, laddove il rapporto in questione costituisce il livello minimo diretto ad assicurare uno standard di assistenza accettabile da un punto di vista qualitativo e quantitativo.

Come inoltre ritenuto dal Tribunale, difetta ogni allegazione in ordine allo svolgimento da parte degli appellanti di prestazioni ulteriori rispetto a quelle concordate, né le parti appellanti hanno dedotto in modo specifico, nel ricorso di primo grado, di avere subito un aggravio delle condizioni di lavoro, in relazione ad orario, turni e modalità della prestazione, in conseguenza del mancato adeguamento della pianta organica.


Corte appello Roma, sez. II, 06/03/2018,  n. 512

 

                                             REPUBBLICA ITALIANA

                                      IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

                                         CORTE DI APPELLO DI ROMA

                                     Sezione controversie in materia di lavoro

                                        previdenza e assistenza obbligatorie

            composta dai  Magistrati

            dott. Giovanni CANNELLA                                                             Presidente

            dott.  Maria  Rosaria   MARASCO                                                   Consigliere rel.

            dott. Maria Pia DI STEFANO                                                           Consigliere

            all’udienza di discussione del  6.2.2018   ha pronunciato, mediante pubblica lettura

            del dispositivo, la seguente

                                                   SENTENZA

            nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 285 del Ruolo Generale degli affari

            contenziosi dell’anno  2014 vertente

                                                         TRA

            PE. Pa.  e ON. Gi.

            elettivamente domiciliati  in Roma,   via Monte Acero n. 64

            rappr. e dif. dagli Avv.ti Antonio Puliatti e Gino Bazzani

                                                                                           parti appellanti

                                                           E

            AZIENDA USL  ROMA B

            REGIONE LAZIO

            elettivamente domiciliata in Roma, via Marcantonio Colonna n. 27

            rappr. e dif. dall’Avv. Adelmo Bianchi

                                                                                            parti appellate

            Oggetto: appello avverso  la sentenza emessa dal Tribunale di Rona all’udienza del

            13.3.2013.

            Conclusioni: come in atti.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso depositato in data 27.1.2014 Pa. Pe. e Gi. On., entrambi medici di continuità assistenziale (cd. guardia medica), titolari di incarico a tempo indeterminato presso la ASL RMB, hanno proposto appello avverso la sentenza in epigrafe con la quale il Tribunale di Roma aveva respinto la domanda per il riconoscimento del diritto alla maggiorazione del 50% del compenso orario previsto, a titolo di adeguamento ai sensi dell’art. 2225 cod civ. e dell’art. 36 della Costituzione, per avere essi ricorrenti lavorato almeno il doppio di quanto contrattualmente dovuto in conseguenza di un rapporto non ottimale medico/popolazione residente nell’area di competenza.

Gli appellanti deducevano la erroneità della sentenza e chiedevano l’accoglimento delle originarie domande.

Si costituiva la Regione Lazio, già chiamata in garanzia dalla Azienda USL RMB nel giudizio di primo grado, ribadendo il proprio difetto di legittimazione passiva e deducendo, nel merito, la infondatezza del gravame, Non si costituiva la Azienda USL RMB alla quale il ricorso risulta ritualmente notificato.

All’udienza del 6.2.2018 la causa è stata decisa come da dispositivo.

Va premesso che gli odierni appellanti avevano dedotto, nell’originario ricorso, che l’Accordo Collettivo nazionale del 15.3.2005 all’art. 65 secondo comma aveva stabilito un rapporto ottimale di riferimento, di un medico in servizio per ogni 5.000 abitanti residenti, autorizzando al terzo comma le Regioni ad indicare per ambiti di assistenza definiti un diverso rapporto medico- popolazione, in aumento o in diminuzione, da concordare nell’ambito di accordi regionali;

che l’Accordo Integrativo regionale della Regione Lazio 26.3.2006 aveva previsto in proposito un rapporto di 1 medico ogni 6.500 residenti nell’area metropolitana di Roma, 1 medico ogni 5.000 residenti per gli altri ambiti territoriali della Regione Lazio, compresi i capoluoghi di Provincia, 1 medico ogni 3.500 residenti per la Provincia di Rieti;

che l’art. 36 di detto accordo prevedeva che ” qualora entro 12 mesi dall’approvazione dell’Accordo non fosse stata raggiunta la completezza delle piante organiche sarebbero state individuate modalità anche incentivanti per sopperire alla sofferenza dell’organico in sede di comitato provinciale; inoltre nello stesso Accordo, si era convenuto che ” il rapporto ottimale, al fine di garantire la più omogenea distribuzione dei medici venga individuato all’interno di un ambito territoriale circoscritto, coincidente con il distretto”.

Sulla base di tali premesse, i ricorrenti avevano dedotto che l’ASL RMB, sulla base dei dati ufficiali del Ministero, aveva un numero di medici titolari di guardia medica pari a 45 unità, mentre, tenuto conto della popolazione totale di 643.057 residenti, il rapporto ottimale avrebbe dovuto comportare un numero di 99 medici titolari di guardia medica.

Di conseguenza le “prestazioni effettuate da ciascun medico di guardia medica sono raddoppiate”, con il diritto ad una maggiorazione del compenso sulla base della previsione di “modalità incentivanti”, prevista dall’art. 36 dell’Accordo Regionale, da determinarsi ai sensi dell’art. 2225 cod. civ. ed anche in riferimento all’art. 36 Costituzione, assumendo come parametro di determinazione del maggior compenso, chiesto nella misura del 50% del compenso orario previsto, l’art. 36 comma 8 del citato Accordo per prestazioni svolte in analoga situazione di disagio.

Il Tribunale di Roma ha respinto le domande ritenendo la inapplicabilità dell’art. 36 comma 8 dell’Accordo regionale che prevede una maggiorazione del compenso orario per lo svolgimento delle prestazioni in aree disagiate e per fattori diversi da quelli prospettati in ricorso.

Il Tribunale ha ritenuto che i ricorrenti non avessero dimostrato la maggiore gravosità della prestazione e che, quindi, non vi fosse motivo di ritenere la insufficienza del compenso in relazione alla qualità e quantità di lavoro prestato;

che la previsione dell’Accordo Integrativo Regionale circa la individuazione di “modalità anche incentivanti per sopperire alle sofferenze dell’organico” rivestisse valore programmatico e, di per sé, non attribuisse alcun diritto a maggiorazioni del compenso.

Con il primo motivo, gli appellanti assumono la erronea interpretazione dell’art. 36 comma 6 dell’Accordo Integrativo regionale del 26.3.2006, il quale rinviava ad un altro accordo per definire le modalità incentivanti in caso di carenza di organico.

Le parti appellanti deducono che l’art. 36 comma 6 debba essere interpretato secondo i principi dettati dagli artt. 1366 e 1367 cod. civ.;

che “una incentivazione spetta senza dubbio anche nel caso di superamento del rapporto ottimale tra medico e assistiti” e che il quantum possa essere determinato, in mancanza di patti stipulati entro l’anno, come previsto dall’A.I.R, in base al paramento indicato nel successivo comma 8 dell’art.36.

Gli appellanti richiamano quindi l’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede in pendenza di una condizione “per cui il comportamento inerte dell’amministrazione involve in ogni caso l’avverarsi della condizione” ex art. 1359 cod. civ.; assumono che la previsione contrattuale possa “essere sottoposta ad una interpretazione estensiva e sistematica, anche in omaggio al principio del favor lavoratoris, unitamente alla norma che prevede l’erogazione di indennità per le aree disagiate per ragioni oggettive”; la erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto applicabile l’art. 2225 cod. civ., avuto riguardo al rapporto assolutamente sfavorevole del rapporto medico- residenti, per cui “l’onorario dovrebbe incrementato, per ragioni di equità, non del 50% ma del 100%”; richiamano l’art. 36 Costituzione e censurano la sentenza di illogicità perché la gravosità della prestazione si desumerebbe dall’A.I.R. citato che prevede una incentivazione nel caso di mancato rispetto del rapporto ottimale tra medici e assistiti.

Gli appellanti richiamano, infine, il principio di non discriminazione tra situazioni che deducono come omogenee: i lavoratori che svolgano prestazioni in zone svantaggiate e quelli che, come gli appellanti, effettuano prestazioni in favore di una ” platea oltre che doppia di assistiti rispetto al rapporto ottimale previsto dall’A.C.N. I motivi di gravame possono essere esaminati congiuntamente e non sono fondati.

Si rileva che l’art. 36 dell’Accordo Integrativo Regionale del 26.3.2006, che disciplina la ” continuità assistenziale” determina il rapporto ottimale medico- popolazione residente e prevede, inoltre, che “qualora entro 12 mesi dall’approvazione dell’Accordo non fosse raggiunta la completezza delle Pi. Organiche verranno individuate modalità anche incentivanti per sopperire alla sofferenza dell’organico in sede di comitato regionale”.

La Corte osserva che la pretesa degli appellanti di vedersi riconoscere un incremento del compenso non trova fondamento nell’ Accordo Integrativo Regionale, atteso che non risulta individuata alcuna modalità incentivante di carattere economico, rimessa a successivi e non intervenuti accordi, nell’ipotesi di sofferenza degli organici per incompletezza della pianta organica.

Non è applicabile l’art. 36 comma 8 dell’Accordo, il quale prevede che ” al medico incaricato di continuità assistenziale nelle aree disagiatissime è riconosciuto un aumento orario sull’onorario professionale pari al 100%.

Al medico incaricato di continuità assistenziale nelle aree disagiate viene riconosciuto un aumento orario pari al 50% dell’onorario professionale”.

Tale disposizione, come ritenuto dal primo giudice, prevede un maggiore compenso in relazione alle caratteristiche oggettive di determinate zone che siano più disagevoli da raggiungere, come dimostrato dalla classificazione, operata direttamente dall’Accordo, delle isole del litorale laziale (Ponza e Ventotene) come zone disagiatissime.

La previsione dell’Accordo, in quanto diretta a remunerare prestazioni rese in un contesto particolare per ragioni di carattere geografico e logistico, è da ritenersi una disposizione speciale e non è suscettibile di applicazione analogica, per l’assenza di una ” ratio” comune, al caso dello sfavorevole rapporto fra popolazione e numero dei medici “addetti alla guardia medica” (v. Corte di Appello di Roma, sent. n. 1560/2014).

Per le medesime ragioni non è ravvisabile alcuna disparità di trattamento, trattandosi di situazioni non omogenee.

La interpretazione, inoltre, compiuta dal primo giudice si basa, secondo il canone ermeneutico di cui all’art. 1363 cod. civ., sulla formulazione letterale della disposizione (aree disagiate o disagiatissime) che non presenta margini di ambiguità o di incertezza e tenuto conto, in una lettura complessiva delle clausole, che l’art. 36 rimette al Comitato regionale, per il caso di incompletezza delle piante organiche, la individuazione di modalità incentivanti.

Per quanto riguarda la adeguatezza del compenso pattuito, il principio della retribuzione sufficiente, di cui all’art. 36 della Costituzione, riguarda esclusivamente il lavoro subordinato, mentre per tutte le altre prestazioni un intervento del giudice per la determinazione del compenso può ammettersi solo se previsto da disposizioni legislative (Cass. 2003 n. 16059; Cass. 2007 n. 13440).

Nel caso in esame, trattandosi di attività di lavoro autonomo esercitata da medici in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, benché caratterizzata da una attività prevalentemente personale e continuativa coordinata, la determinazione del compenso è prevista dall’art. 2225 cod. civ. il quale prevede che, ove non sia stato convenuto dalle parti, il corrispettivo deve essere stabilito dal giudice.

Conseguentemente, qualora nel corso del rapporto le prestazioni d’opera assumano una maggiore ampiezza, sia qualitativa che quantitativa, con ulteriore dispendio per quest’ultimo e maggior vantaggio per il primo, è legittima la determinazione giudiziale del compenso per esse spettanti, non potendo essere perseguiti maggiori vantaggi per il committente attraverso un maggior sacrificio economico per il prestatore d’opera, senza che si determini una disarmonia tra le prestazioni in sinallagma (Cass. 2007 n. 13440). Spetta alla parte che deduca la sopravvenuta alterazione del sinallagma contrattuale, la prova della inadeguatezza del corrispettivo concordato in relazione alla natura, quantità e qualità delle prestazioni, nonché al tempo ed ai costi occorrenti per il relativo espletamento, secondo il duplice parametro del risultato per il committente e del lavoro per il prestatore d’opera.

Nel caso in esame, il diritto al maggior compenso, in assenza di una fonte normativa, non può farsi discendere automaticamente dal mancato rispetto del rapporto ottimale medico/assistibili, che opera sul piano della efficienza del sistema sanitario, laddove il rapporto in questione costituisce il livello minimo diretto ad assicurare uno standard di assistenza accettabile da un punto di vista qualitativo e quantitativo.

In ordine alla prova della insufficienza della remunerazione, come dedotto dalla Azienda senza idonea contestazione, il dott. Pe. e la Dott. On. sono titolari di incarico a tempo indeterminato con qualifica di medico di continuità assistenziale, rispettivamente dal 1.4.2005 al 31.10.2010 (data di cessazione dal servizio), e dal 1.6.2003, per un orario lavorativo, rimasto immutato, di 24 ore settimanali con un impegno fino a 108 ore mensili circa previste dall’Accordo della medicina generale. Come ritenuto dal Tribunale, difetta ogni allegazione in ordine allo svolgimento da parte degli appellanti di prestazioni ulteriori rispetto a quelle concordate, né le parti appellanti hanno dedotto in modo specifico, nel ricorso di primo grado, di avere subito un aggravio delle condizioni di lavoro, in relazione ad orario, turni e modalità della prestazione, in conseguenza del mancato adeguamento della pianta organica.

Per i rilievi svolti, superata la necessità di esame delle ulteriori questioni, l’appello va respinto.

Le spese del presente grado, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Si dà atto che sussistono le condizioni oggettive richieste dall’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115/2002 per il versamento dell’ ulteriore importo del contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

Rigetta l’appello;

condanna gli appellanti in via solidale alla rifusione, in favore della Regione Lazio, delle spese del presente grado liquidate in euro 3.307,00 oltre 15% a titolo di rimborso forfettario delle spese;

nulla per le spese rispetto alla Azienda USL Roma B.

Si dà atto che sussistono le condizioni oggettive richieste dall’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115/2002 per il versamento dell’ ulteriore importo del contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Roma, 6.2. 2018

Il Presidente dott. Giovanni Cannella

Il consigliere relatore dott. Maria Rosaria Marasco