L’ecchimosi, consistente in una infiltrazione di sangue nel tessuto sottocutaneo, ed il trauma contusivo, che determina una, sia pur limitata, alterazione funzionale dell’organismo, sono riconducibili alla nozione di malattia ed integrano pertanto il reato di lesione personale.

Cassazione Penale- Sez. VI; Sent. n. 10986 del 13.01.2010

FATTO

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza in data 3-2-2003, con la quale il Tribunale di Locri ha dichiarato A.G. colpevole dei reati di resistenza (capo A della rubrica), lesioni aggravate in danno del carabiniere B.L. (capo B) e violenza privata nei confronti di V.G. (capo C) e, ritenuta la continuazione, concesse le attenuanti generiche, equivalenti alle contestate aggravanti, lo ha condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, con i doppi benefici di legge, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile B.L..

L’ A. ha proposto ricorso per Cassazione, dolendosi con un primo motivo dell’erronea applicazione degli artt. 610, 337 e 582 c.p..

Deduce, in particolare:

a) quanto al reato di violenza privata, che la Corte di Appello ha errato nel non ritenere elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice il “dissenso” della pretesa vittima, e nel non attribuire rilevanza, ai fini della integrazione dell’elemento soggettivo del reato, al bene giuridico tutelato dalla norma penale, rappresentato dalla libertà morale dell’individuo: essa non ha considerato che il ricorrente e la pretesa vittima (la V.) erano fidanzati;

b) quanto al reato di resistenza, che già in base alla lettura del capo d’imputazione non è individuabile quale atto di ufficio i Carabinieri stessero compiendo e il ricorrente abbia impedito; che la Corte di Appello ha errato nel ritenere configurabile il reato in esame anche quando la condotta del privato sia successiva al compimento dell’atto di ufficio; che il giudice di merito ha altresì errato nel non ritenere necessario, al fine dell’integrazione della fattispecie criminosa di cui trattasi, un comportamento positivo, violento o minaccioso; che nella specie non è stata fatta corretta applicazione della norma di cui al D.Lgs.Lgt. 12 settembre 1944, n. 288, art. 4 e non si è tenuto conto della possibile rilevanza anche dell’arbitrarietà putativa;

c) quanto al reato di legioni personali, che la Corte di Appello non ha interpretato correttamente il significato dell’elemento della malattia, in quanto il fatto contestato all’imputato non è riconducibile nell’ambito della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 582 c.p..

Con un secondo motivo il ricorrente deduce la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione all’affermazione della penale responsabilità del prevenuto. Sostiene, in particolare, che la Corte di Appello, nel ritenere credibili i due carabinieri coinvolti nella vicenda, non ha proceduto ad alcuna valutazione in ordine all’attendibilità delle loro dichiarazioni e non ha considerato che, essendosi uno dei due testi costituito parte civile, sarebbero stati necessari dei riscontri alle sue affermazioni. Il giudice del gravame, inoltre, non ha motivato in ordine alle divergenze emerse tra le dichiarazioni dei due testi e ad altre questioni sottoposte al suo esame con i motivi di appello.

DIRITTO

1) Il primo motivo di ricorso è infondato.

Deve premettersi che, sulla base della ricostruzione dei fatti compiuta dalla Corte di Appello, insindacabile in sede di legittimità, la vicenda in esame può essere così sintetizzata:

– in data 22-12-2002, nel corso di un servizio di pattuglia, i carabinieri B. e S. notavano un ingorgo dovuto al fatto che due vetture – dell’imputato e della V. – erano ferme sulla carreggiata ed ostruivano la circolazione; in particolare, la vettura dell’imputato era posta in posizione obliqua ed impediva alla V. di proseguire la marcia;

– successivamente la V. riprendeva la marcia, subito inseguita dall’ A. che, a forte velocità e con un’andatura a zig zag, si infilava tra i vari automezzi in transito con manovre azzardate e pericolose, fino a tallonare e costringere la donna a fermarsi, andando a posizionarsi davanti alla sua vettura;

– a seguito dell’intervento del carabiniere B., il quale fermava la ragazza con la paletta per capire se la stessa avesse bisogno di aiuto, l’imputato iniziava a inveire nei confronti del militare e, a fronte dell’invito da questi rivoltogli ad allontanarsi, lo colpiva con un pugno;

– nasceva una colluttazione, e l’ A. veniva ammanettato dal carabiniere S. e condotto in caserma;

– nel referto medico rilasciato lo stesso giorno al B. veniva diagnosticato “trauma confusivo rachide cervicale; contusione toracica a spalla destra con ecchimosi”, con una prognosi di guarigione di sette giorni.

2) Ciò posto, si osserva, con riferimento al primo segmento della condotta tenuta dal prevenuto, che nella sentenza di primo grado, la cui motivazione si integra e si salda con quella di appello, sono state ampiamente illustrate le ragioni per le quali sono state ritenute inattendibili le dichiarazioni rese dalla V., secondo cui quest’ultima avrebbe volontariamente arrestato la marcia della propria auto.

Legittimamente, pertanto, i giudici di merito hanno ravvisato nel comportamento dell’ A. gli estremi integrativi della fattispecie criminosa prevista dall’art. 610 c.p. Ai fini della configurabilità del reato di violenza privata, infatti, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, in modo da costringerlo a fare, tollerare od omettere qualcosa contro la volontà; sicchè integra il delitto in esame la condotta dell’automobilista che compia deliberatamente manovre insidiose al fine di interferire con la condotta di guida di altro utente della strada, impedendo a quest’ultimo di continuare la marcia nella propria direzione, realizzando così una privazione della libertà di azione e di determinazione della persona offesa.

3) Quanto alla condotta tenuta dall’ A. nella fase successiva all’intervento del carabiniere B., è evidente, alla luce della ricostruzione dei fatti compiuta nella sentenza impugnata, che l’imputato non si è affatto limitato ad opporre una mera resistenza passiva, ma ha posto in essere atti violenti, diretti ad impedire o contrastare il compimento dell’attività di controllo in cui era impegnato il militare.

Pertanto, avendo dato atto della stretta correlazione tra gli atti violenti posti in essere dal prevenuto e l’attività di ufficio del pubblico ufficiale, alla quale l’imputato mirava ad opporsi, legittimamente la Corte di Appello ravvisato nella condotta dell’ A. gli estremi integrativi del reato di cui all’art. 337 c.p..

Correttamente, d’altro canto, il giudice del gravame ha negato l’applicabilità della scriminante di cui alla L. n. 288 del 1944, art. 4, invocata dall’appellante, avendo escluso, con apprezzamento in fatto non censurabile in questa sede, che i due carabinieri, e in particolare il B., abbiano posto in essere comportamenti provocatori e arbitrari tali da determinare una legittima reazione dell’imputato.

L’ulteriore deduzione del ricorrente, secondo cui la Corte di Appello avrebbe omesso di valutare la possibile rilevanza dell’arbitrarietà putativa, ai sensi dell’art. 59 c.p., è formulata in termini del tutto generici ed è comunque, manifestamente infondata, non trovando alcun valido appiglio nella ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito.

4) La sentenza impugnata appare immune da censure anche nella parte in cui ha ravvisato nel fatto ascritto all’imputato al capo B) gli estremi del reato di cui all’art. 582 c.p..

Giova rammentare che, secondo la giurisprudenza, il criterio distintivo tra il reato di percosse e quello di lesioni personali va ravvisato nel fatto che, nella prima ipotesi, dalla condotta posta in essere dall’agente deriva al soggetto passivo soltanto una sensazione fisica di dolore, mentre nella seconda ipotesi deriva una malattia, ossia una alterazione patologica, sia pure di lievissima entità, dell’organismo.

Nella nozione di malattia, come sopra delineata, deve ritenersi senz’altro compresa l’ecchimosi (Cass. Sez. 4, 19-12-2005/20-1-2006 n. 2433; Sez. 5, 22-2-1980 n. 2650; Sez. 1, 3-3-1976 n. 9480), la quale, consistendo nella rottura di vasi sanguigni e in una infiltrazione di sangue nel tessuto sottocutaneo, non si esaurisce in una semplice sensazione dolorosa, ma determina un’alterazione patologica dell’organismo; e altrettanto è a dirsi per il trauma contusivo ( Cass. Sez. 5, 5-6-2008 n. 36657; Sez. 1, 11-6-1985 n. 7388), che non comporta solo una sensazione fisica di dolore, ma provoca anche una sia pur limitata alterazione funzionale dell’organismo.

5) Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

La Corte di Appello ha dato adeguato conto delle ragioni che l’hanno indotta a ricostruire i fatti in senso conforme alle dichiarazioni dei testi B. e S. e a disattendere, invece, la diversa versione resa dall’imputato.

Il percorso argomentativo si snoda attraverso passaggi non contraddittori e non manifestamente incongruenti, con i quali, tenendo in debito conto i rilievi della difesa, il giudice del gravame ha dato atto della piena attendibilità dei due carabinieri, sottolineando che questi ultimi non avevano alcun motivo di astio o di rancore nei confronti dell’imputato, che nemmeno conoscevano, ed evidenziando che il racconto dagli stessi reso risulta pienamente convergente in ordine ai punti decisivi della vicenda.

Orbene, le doglianze mosse dal ricorrente in ordine all’attendibilità dei due testi di accusa si risolvono, al di là della formale prospettazione di vizi motivazionali, in inammissibili censure avverso apprezzamenti squisitamente di merito espressi dal giudice di appello, come tali insindacabili in sede di legittimità.

Esula, infatti, dai poteri attribuiti alla Corte di Cassazione quello di procedere ad una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza e attendibilità delle fonti di prova.

3) Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2010