Una compagnia assicuratrice rifiutava di effettuare il pagamento di un indennizzo assicurativo dovuto ai superstiti in forza di una polizza assicurativa sulla vita stipulata dal loro congiunto, e ciò, sull’assunto che l’assicurato al momento della stipula avrebbe taciuto di essere portatore di una grave patologia che, in breve tempo ne avrebbe cagionato la morte.
Ai fini della colpa grave o del dolo da rinvenirsi in un contratto di assicurazione sulla vita, in presenza di sintomi ambigui e non specifici, stante la genericità degli stessi, non integra affatto dolosa reticenza né comportamento gravemente colposo il fatto che l’assicurato non abbia, al momento della stipula della polizza-vita, dichiarato la esistenza di quei sintomi a cui i medici hanno dato rilievo aspecifico e tranquillizzante, qualora questi sintomi, aggravatisi, risultino, attraverso successive indagini strumentali o di altra natura, premonitori di una vera e propria malattia, che, data la sua insidiosità, può essere acclarata solo con specifico esame, secondo la valutazione della situazione che il paziente presenta.La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di condanna pronunciata a carico della società assicuratrice.
Cassazione Civile – Sez. III, Sent. n. 13604 del 21.06.2011
Svolgimento del processo
Il 14 maggio 2003 il Tribunale di Roma respingeva la opposizione al decreto ingiuntivo richiesto ed ottenuto da A.S. e A.B. per l’importo di quattro miliardi, quale indennizzo assicurativo loro dovuto in forza di una polizza assicurativa sulla vita del loro congiunto A.F. – opposizione proposta dalla INA Vita s.p.a., nelle more incorporata nella Assicurazioni Generali s.p.a e fondata sulla non indennizzabilità del sinistro ex art. 1892 c.c., in quanto l’assicurato avrebbe taciuto al momento della stipula della polizza- vita di essere portatore di una grave patologia che, in breve tempo ne avrebbe cagionato la morte – e condannava l’opponente al risarcimento dei danni per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., richiesto in via riconvenzionale dagli opposti.
Su gravame delle società opponenti la Corte di appello di Roma il 19 febbraio 2009 confermava la sentenza di primo grado.
Avverso siffatta decisione propongono ricorso le società appellanti, affidandosi a tre motivi.
Resistono con controricorso gli A..
Le società ricorrenti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
.1.- Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 1892 c.c., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 3; nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., n. 5) le società ricorrenti lamentano che erroneamente il giudice dell’appello non avrebbe considerato che la prova dell’insorgenza, prima, ovvero al momento della stipula della polizza, della grave malattia che ebbe a portare al decesso dell’assicurato comportava la prova in re ipsa della reticenza dello stesso o, quanto meno l’implicita prova della sua colpa grave.
Premesso che l’insorgenza della grave malattia non poteva essere ignorata da chi, purtroppo, ne era rimasto colpito e stabilire la data dell’insorgenza e, quindi, del manifestarsi dei primi sintomi equivaleva a ritenere raggiunta la prova che il malato (contraente- assicurato) al momento della stipula della polizza avesse avuto cognizione della malattia, assumono le ricorrenti che il rigetto della loro richiesta di CTU, perchè ritenuta superflua, fosse non corretto, pur riconoscendo il giudice dell’appello che la stessa avrebbe potuto stabilire “con buona approssimazione, la data di inizio della sclerosi laterale amiotrofica che in seguito cagionò la morte dell’assicurato A.F.”. Questa è, in estrema sintesi, il contenuto della doglianza, che va disattesa per le seguenti considerazioni.
2.-In punto di fatto, e come si evince dalla sentenza impugnata, l’ A. solo con la diagnosi definitiva del X. ebbe a conoscere che era affetto da sclerosi laterale amiotrofica, ovvero a distanza di oltre nove mesi da quando ebbe a stipulare la polizza.
I primi sintomi della malattia si manifestarono nel X. .
Il X. fu eseguito un esame elettromiografico, dal cui referto il neurologo P., come questi ebbe a dichiarare, non effettuò una diagnosi specifica della malattia dell’ A..
La diagnosi infausta avvenuta in via definitiva, come detto, nel X. , riguardava una malattia rara e subdola denominata malattia di Lou Gehrig.
I soggetti colpiti, inizialmente, secondo la letteratura clinica, notano la presenza di una debolezza alla mani e alle braccia, accompagnata da atrofia muscolare.
Possono verificarsi anche fascicolazioni (fremito involontario di piccole zone del muscolo).
Molti pazienti lamentano anche la comparsa di crampi e di rigidità.
Non vi è perdita della sensibilità e la funzione vescicolare è normale. La diagnosi è confermata solo da EMG e da altri esami, per escluderne la sussistenza.
Di solito, la debolezza progredisce lentamente fino ad interessare i muscoli della respirazione e della deglutizione, portando alla morte il paziente nel giro di due – quattro anni. Nella specie, il paziente è deceduto il X. . La relazione di consulenza neurologica eseguita in data X. sulla persona dell’ A. dal prof. T. dell’Università cattolica Policlinico X. , su incarico del Collegio arbitrale costituito relativamente ad una polizza-infortuni con l’Assitalia, confermava in pieno la scoperta del momento della malattia e l’andamento subdolo di essa nel periodo precedente.
Ciò precisato, va osservato che le società ricorrenti sembrano confondere la consapevolezza della insorgenza di sintomi dolorosi, attribuibili ed attribuiti dai medici, come accertato in sede processuale, a deficit di potassio, con la consapevolezza della malattia di cui essi, in seguito si riveleranno prodromi, solo che si tenga conto, come emerge dalla sentenza impugnata – e non è contestato dalle ricorrenti-, che prima del X. l’ A. si era lamentato telefonicamente di lievi disturbi ad un braccio e semplici crampi muscolari, come dichiarato anche in sede processuale dal dr. C. e per i quali il medico di famiglia – dr. R. – consigliò di prendere del potassio, per cui i disturbi avvertiti dal paziente non furono considerati preoccupanti nè specifici di una grave patologia, così come poi accertata dall’EMG, unico esame decisivo in tal senso, secondo la disciplina medica, nel X. .
Corretto, dunque, è stato il rigetto da parte del giudice dell’appello della CTU, in quanto la risposta avrebbe comportato una valutazione ex post, del tutto ininfluente ai fini dell’accertamento del dolo, per cui nessuno dei vizi denunciati nel motivo si rinviene nella sentenza impugnata.
In altri termini, ai fini della colpa grave o del dolo da rinvenirsi in un contratto di assicurazione sulla vita, in presenza di sintomi ambigui e non specifici, stante la genericità degli stessi, non integra affatto dolosa reticenza nè comportamento gravemente colposo il fatto che l’assicurato non abbia, al momento della stipula della polizza-vita, dichiarato la esistenza di quei sintomi a cui i medici hanno dato rilievo aspecifico e tranquillizzante, qualora questi sintomi, aggravatisi, risultino, attraverso successive indagini strumentali (come nella specie) o di altra natura, premonitori di una vera e propria malattia, che, data la sua insidiosità, può essere acclarata solo con specifico esame, secondo la valutazione della situazione che il paziente presenta.
Ne consegue che non si può nemmeno condividere la affermazione delle società ricorrenti, secondo le quali il giudice dell’appello, sarebbe incorso in una contraddittorietà di motivazione, perchè da una parte avrebbe proceduto nel verificare se dalle risultanze documentali e delle deposizioni rese dai testi escussi fosse stato possibile risalire alla data del manifestarsi della malattia e, dall’altro, non avrebbe ammesso la CTU, perchè ritenuta irrilevante.
3.- Con il secondo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 1892 c.c.) le società ricorrenti lamentano che, contrariamente a quanto si rinviene nella sentenza impugnata, le deposizioni del prof. P. e del teste R., medico di famiglia, avrebbero dovuto indurre il giudice dell’appello ad ammettere la CTU richiesta per il semplice fatto che da entrambe si sarebbe rilevato che l’X. l’ A. aveva già i sintomi (in particolare paresi degli arti motori) della malattia, con la conseguenza che siffatti sintomi avrebbero dovuto essere dichiarati all’assicuratore. La motivazione, peraltro, oltre che contraddittoria, sarebbe assolutamente insufficiente, in quanto sarebbero stati valorizzati documenti che sarebbero stati idonei a comprovare il manifestarsi dei primi sintomi della malattia in data successiva alla stipulazione della polizza e, quindi, idonei a comprovare una circostanza che lo stesso giudice dell’appello avrebbe ritenuto, con riferimento alla richiesta di CTU, contraddittoriamente irrilevante.
In estrema sintesi, ci si duole che la valutazione dei testi sarebbe stata superabile con la CTU. La censura va disattesa.
Di vero, in parte essa ripete, sebbene sotto altro profilo, quella precedente, in parte il giudice dell’appello ha affermato che, pur potendo la CTU stabilire con una certa approssimazione la data di inizio della malattia, certamente non poteva stabilire nulla circa la conoscenza della stessa.
E, come si è detto per l’innanzi, la sentenza impugnata in modo logico distingue la insorgenza dei sintomi, dagli stessi medici ritenuti aspecifici e non preoccupanti se all’ A. fu consigliato di assumere del potassio, di cui certamente era consapevole l’ A., con la consapevolezza di avere una malattia che lo avrebbe portato alla morte nel giro di due anni e sei mesi circa, al momento della stipula della polizza. Peraltro, il motivo si sviluppa sulla valutazione delle prove testimoniali e, quindi, si muove sulla falsariga di censure all’esame di competenza esclusiva del giudice del merito.
4.- Con il terzo motivo le società ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., nonchè dell’art. 116 c.p.c., sotto il profilo della violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3; nonchè insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., n. 5.
In buona sostanza, affermano che il mancato pagamento dell’indennizzo sarebbe stato un atto doveroso, atteso il contenuto della relazione della Europol Investigazioni, cui esse ricorsero, ed in virtù del carattere pubblicistico delle Compagnie assicurative, per cui avevano il dovere, nell’interesse della massa degli assicurati, di contestare il pagamento dell’indennizzo.
Osserva il Collegio che, a prescindere dalla considerazione che in parte la censura si rivolge contro un apprezzamento in fatto, invero, non è esatto che la Compagnia assicuratrice svolga una funzione pubblicistica ed, anzi, le norme, correttamente nel caso in esame invocate, sono norme che attengono ad un tipico contratto privatistico, posto in essere tra le parti e non già un contratto di assicurazione sociale.
D’altro lato, l’allungamento dei tempi per il pagamento dell’indennizzo è un rischio che va posto a carico della Compagnia assicuratrice, che ben sapeva dei tempi opportuni occorrenti alla Europol Investigazioni, da essa interessata per ragioni proprie, completamente ignote all’altra parte e da questa non richiesta.
Peraltro, la fattispecie non presentava estremi tali da giustificare una indagine investigativa, tanto che la Compagnia non ebbe ad intraprendere alcuna iniziativa dal carattere penale e, quindi, l’allungamento del tempo per pagare l’indennizzo non era giustificato in nessun senso.
Conclusivamente, il ricorso va respinto e le spese che seguono la soccombenza vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le società ricorrenti in solido al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 19.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori come per legge.