Un’infermiera professionale impiegata presso il pronto soccorso ospedaliero di un presidio classificato DEA, dichiarava di svolgere attività di assistenza radiologica, di terapia intensiva e sub-intensiva potendo venire a contatto con pazienti a rischio infettivo. Il rischio infettivo sarebbe derivato dal contatto diretto con il sangue dei pazienti in virtù di assistenza e stabilizzazione di quelli politraumatizzati sconosciuti, ad esempio possibili portatori di TBC, oppure dal prelievo di liquidi ematici su soggetti sconosciuti, ad esempio possibili portatori di HBV, HCV, HIV; laddove il rischio radiologico sarebbe derivato dall’assistenza continua e diretta al paziente critico durante l’esecuzione di esami radiografici, con stazionamento nell’area di operazione, anche vicino al paziente. La dipendente chiedeva le venissero riconosciute le indennità previste dalla Legge e dalla contrattazione collettiva in favore del personale infermieristico dedito ad attività “intensive”, sub-intensive e da contatto con pazienti portatori di malattie infettive.

Tribunale di Cassino – Sez. lavoro; sent. del 25.10.2011 

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso depositato il 29.07.2009 la sig.ra St.QU. chiedeva al Giudice del Lavoro del Tribunale di CASSINO i provvedimenti di rito per la instaurazione di valido contraddittorio con l’A.S.L. di FROSINONE tenuta, nella prospettazione attorea, a riconoscere ad essa istante le indennità previste dalla Legge e dalla contrattazione collettiva in favore del personale infermieristico dedito ad attività “intensive”, sub-intensive e da contatto con pazienti portatori di malattie infettive.

L’atto introduttivo, inoltre, conteneva apposita “messa in mora” nei confronti della A.S.L. per quel che concerne il riconoscimento della – diversa–diversa – indennità da rischio radiologico, per la quale la ricorrente si riservava di agire separatamente.

Fissata l’udienza di discussione e ritualmente notificati ricorso e decreto, si costituiva la resistente che, eccepite in limine la nullità della vocatio per indeterminatezza assoluta dell’oggetto della domanda e per omessa esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto posti a sostegno della stessa, e la prescrizione del diritto evocato, richiedeva rigettarsi la domanda attorea.

Verificata, per incidens, la inidoneità delle questioni preliminari a definire la controversia, il Giudice ammetteva le prove sollecitate.

Esaminati i testi indicati dalle parti la causa veniva, quindi, mandata in decisione.

Alla udienza del giorno 25.10.2011 le parti, all’esito della discussione, concludevano come da verbale, da intendersi qui integralmente richiamato, come da sintesi operata in epigrafe.

Di poi il Giudice pronunciava sentenza, pubblicata nelle forme di Legge.

Va in primo luogo disattesa l’eccezione in rito formulata dalla resistente. L’atto introduttivo di lite contiene tutti gli elementi “identificativi” di petitum e causa petendi, per come si desume agevolmente dalla puntuale esposizione non solo dell’oggetto specifico della pretesa azionata quanto anche delle ragioni in fatto e in diritto che dovrebbero sorreggere la stessa.

Circostanza, questa, a sua volta comprovata dalla precisa contrapposizione della. resistente che, anzi, proprio muovendo da una impostazione di parte attrice assolutamente perimetrata ha potuto veicolare le sue precise deduzioni difensive.

Né consistenza risolutiva possiede l’eccezione di prescrizione quinquennale che, stante l’epoca cui si riferiscono tentativo obbligatorio di conciliazione e ricorso introduttivo, al più potrebbe conservare, in ottica meramente astratta, una valenza residuale a vicenda definita nel merito. In ordine al quale si osserva.

La domanda attorea si articola sulla base di una progressione giuridico – fattuale che muove dalla premessa “mansionale”, rimasta incontroversa, secondo cui la ricorrente, infermiere professionale alle dipendenze della A.U.S.L. di FROSINONE presso il Distretto “D”, CASSINO-PONTECORVO, attualmente inquadrata nella categoria D1 del C.C.N.L. del S.S.N. personale dei livelli, svolge dal giorno 26.02.1997 la propria attività presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di CASSINO, occupandosi “del Servizio di medicina e chirurgia di urgenza” presso quel Presidio “classificato D.E.A.” – Dipartimento di Emergenza e Accettazione – “di I livello”.

Sempre secondo la prospettazione in disamina, l’attrice nel disimpegnare le proprie mansioni “svolge attività di assistenza radiologica, di terapia intensiva e sub-intensiva e può venire a contatto con pazienti a rischio infettivo”.

Nel dettaglio – si assume – il rischio infettivo deriverebbe dal contatto diretto con il sangue dei pazienti in virtù di assistenza e stabilizzazione di quelli politraumatizzati sconosciuti, ad esempio possibili portatori di TBC, oppure dal prelievo di liquidi ematici su pazienti sconosciuti, ad esempio possibili portatori di HBV, HCV, HIV; laddove il rischio radiologico deriverebbe dalla assistenza continua e diretta al paziente critico durante l’esecuzione di esami radiografici, con stazionamento nell’area di operazione, anche vicino al paziente.

Quanto alla attività di terapia intensiva e sub-intensiva essa dovrebbe ritenersi connaturata all’espletamento dei compiti del D.E.A. per il solo fatto che fra i servizi assicurati dalla citata struttura/articolazione rientra anche l’attività di rianimazione.

Ora, siccome il Reparto di Rianimazione ha come sua attività precipua e specifica la somministrazione al paziente critico di terapia intensiva o sub-intensiva e siccome il relativo trattamento – pare di capire dalle pagine introduttive del ricorso – inizia presso il D.E.A., in caso di attribuzione del “codice rosso” al paziente ivi trasportato, consegue la dovuta riconducibilità di tali attività alle mansioni svolte dal ricorrente, quale “dipendente” del Pronto Soccorso che si occupa del Servizio di medicina e chirurgia di urgenza.

In realtà la coerenza logica di tale segmento di domanda resta affidata al prosieguo del ricorso laddove si insiste sulla prospettiva della inerenza della -“indennità in argomento al Reparto di assegnazione e, quindi, sulla qualificazione del D.E.A. quale servizio di terapia intensiva e/o sub-intensiva (secondo una duplice specificazione, tuttavia, poco conciliabile con l’immediato seguito del ragionamento a tenore del quale la individuazione e la qualificazione delle sole attività e strutture di terapia intensiva sono rimesse alle determinazioni della singola Azienda Sanitaria, nel mentre quelle di terapia sub-intensiva sono di stretta derivazione regionale).

In ogni caso, il percorso suggerito dalla ricorrente si traduce nella necessità di accertare se il D.E.A. costituisce, id est: assicura il “servizio di terapia intensiva” perché l’eventuale esito positivo di una tale verifica condurrebbe, ipso facto, ipsoque jure, alla conclusione del riconoscimento delle connesse indennità a chi disimpegna le proprie prestazioni nella struttura. E siccome l’analisi del P.S.L. sfocia indiscutibilmente nella individuazione di un “servizio di terapia intensiva” previsto quale perimetrazione “organizzativa” del D.E.A., la soluzione della vertenza, almeno in parte qua, sarebbe necessitata.

Assunto, asseritamente, confermato dalla circostanza che lo stesso P.S.L. prevede tre “linee di attività” nell’ambito del “servizio di Anestesia e Rianimazione”: una di anestesia d’elezione o d’urgenza effettuata in sala operatoria, in sala parto ovvero in altri servizi di diagnosi e cura, una di rianimazione e terapia intensiva con monitoraggio 24 ore su 24 per grave compromissione di funzioni vitali, una terza di emergenza intraospedaliera ed extraospedaliera, intese come primo soccorso del paziente e trasporto, nonché come intervento secondario verso un centro di rianimazione.

Sulla base, quindi, di un percorso dimostrativo teso a comprovare per un verso la esposizione di essa ricorrente al “rischio infettivo” e “radiologico” e, per altro verso, che, premesso lo svolgimento presso il D.E.A. di CASSINO di “attività di rianimazione”, con precipua e specifica somministrazione al paziente critico di terapia intensiva e sub-intensiva, l’istante si occupava anche di pazienti “critici” bisognevoli, all’esito del trattamento iniziale di protocollo sfociato nella attribuzione del c.d. “codice rosso”, di dette terapie; l’attrice sollecitava il riconoscimento delle relative provvidenze economiche dovutele sulla base delle mansioni in concreto disimpegnate.

Ciò anche a ragione della asserita pregressa attribuzione di dette provvidenze “ad alcuni infermieri in servizio”, attribuzione poi sospesa e revocata senza alcuna motivazione.

Orbene, ritiene il giudicante necessario muovere da una corretta, perimetrazione giuridica della presente vertenza.

E ciò evidenziando che solo una determinata lettura del quadro normativo di riferimento potrebbe rendere in concreto la domanda permeabile agli approfondimenti “in fatto”, pure effettuati su impulso delle parti, ma da collocare ai margini della presente controversia proprio per la potenziale risolutività delle questioni giuridiche sottese alla pretesa azionata.

In primo luogo devesi prendere atto che l’asserzione secondo cui fino al 2001 determinate attività infermieristiche sarebbero state riconosciute meritevoli delle indennità in contestazione è stata veicolata in maniera tale da non consentire alcuna specificazione della stessa, sia in una dimensione intrinseca, sia in una dimensione “soggettiva” (“è stata corrisposta ad alcuni infermieri in servizio”), sia in riferimento alla progressione evolutiva della vicenda, sfociata nella successiva decisione di “sospendere” e “revocare” dette indennità.

In secondo luogo, deve ribadirsi che la sponda dimostrativa di tipo orale valorizzata nell’atto introduttivo di lite tende a provare l’asserito diritto dell’attrice alle indennità invocate sulla base di mansioni poliedriche, disimpegnate se del caso, anzi secondo regola, contestualmente in un medesimo turno di servizio, in una più ampia ed estesa varietà di compiti espletati perché rientranti nelle prestazioni lavorative proprie della istante.

Ciò posto, valgano le seguenti argomentazioni in diritto. La incontroversa fonte negoziale della pretesa azionata nel presente Giudizio è costituita dall’art. 44 C.C.N.L. Comparto Sanità, personale non dirigente, datato 01.09.1995, la cui disciplina è stata successivamente confermata con i rinnovi degli anni a seguire.

Per quanto di specifico interesse l’art. 44, intitolato “indennità per particolari condizioni di lavoro” dispone:

“al personale infermieristico competono, altresì, le seguenti indennità per ogni giornata di effettivo servizio prestato: a) nelle terapie intensive e nelle sale operatorie…; b) nelle terapie sub-intensive individuate ai sensi delle disposizioni regionali e nei servizi di nefrologia e dialisi…; c) nei servizi di malattie infettive” (VI comma);

“al personale del ruolo sanitario appartenente alle posizioni funzionali di V, VI, e VII, operanti su un solo turno, nelle terapie intensive e nelle sale operatorie compete una indennità mensile… non cumulabile con le indennità di cui ai commi 3 e 4 ma solo con l’indennità del comma 6” (VII comma);

“in contrattazione decentrata, nei limiti delle disponibilità del fondo…, nei servizi indicati nel comma 6 possono essere individuati altri operatori del ruolo sanitario ai quali corrispondere l’indennità giornaliera prevista dal medesimo comma, limitatamente ai giorni in cui abbiano prestato un intero turno lavorativo nei servizi di riferimento” (IX comma);

“le indennità previste nei commi 6 e 8 non sono corrisposte nei giorni di assenza dal servizio a qualsiasi titolo effettuata, salvo per i riposi compensativi” (X comma).

L’antecedente storico di dette disposizioni è rinvenibile nell’art. 49 del D.P.R. 28.11.1990 n. 384 che, a sua volta, recepiva l’accordo collettivo dell’aprile 1990.

L’esegesi interpretativa di tale normativa, ratione temporis lasciata alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, si basava sul concetto di “valorizzazione dell’attività professionale adeguata alle esigenze di una crescente responsabilità” tesa a “qualificare l’assistenza sanitaria secondo le linee dell’Ordinamento Comunitario”.

Sicché – si evidenziava – l’attribuzione delle indennità previste dal citato art. 49 si muove(va) nel solco del riconoscimento di quella “valorizzazione” dell’attività del personale infermieristico cui fa(ceva) necessariamente da sponda la specificità delle mansioni svolte.

Di qui il principio normativo, esplicitamente richiamato dal D.P.R. n. 384/990, di “specificità del ruolo infermieristico” che proietta all’esterno concetti ermeneutici compatibili soltanto con la riferibilità delle indennità previste dal Decreto al personale specificamente individuato nello stesso con carattere di tassatività.

Del resto – si puntualizzava – l’attribuzione di una indennità aggiuntiva, per essere svincolata dal trattamento economico “base” stabilito per qualifiche funzionali di appartenenza, ben può restare calibrata e differenziata nell’ambito di una stessa qualifica senza con ciò generare alcun vulnus, o sperequazione “illegittima”, proprio perché, e nella misura in cui, rimane ancorata alla “specificità” dell’attività svolta. (Cfr.: Consiglio di Stato, sez. IV, 19.12.2003, depositata il 23.04.2004, n. 2397; Consiglio di Stato, sez. IV, 19.12.2003, depositata il giorno 08.04.2004, n. 1987).

Dunque, il percorso argomentativo seguito in dette pronunzie muoveva dalla “specificità” del personale individuato come destinatario delle indennità per approdare alla “specificità” dell’attività svolta dallo stesso quale causa legittimante l’attribuzione mirata di quelle indennità.

Lo sforzo ermeneutico dei Giudici, di merito e di legittimità, “ordinari” si è sviluppato prendendo le mosse da questi concetti. Ai quali è ben presto venuto ad affiancarsi, per “naturale” progressione argomentativa, quello di “stabilità” delle mansioni, o se si vuole delle attività, rientranti nell’orbita di attrazione delle indennità in disamina.

Si è quindi sostenuto, anche sulla base di una normativa “contrattuale” a sua volta proiettata verso una perirne trazione sempre più coerente dei concetti di riferimento, che le terapie intensive, le sale operatorie, i servizi di nefrologia, i servizi di malattie infettive, individuati o comunque individuabili su regolamentazione organizzativa, sono stati oggetto di disciplina “collettiva” con cui le parti sociali hanno specificamente indicato i beneficiari delle indennità in controversia.

Consegue, secondo detta direttiva interpretativa, che non è ammissibile il riconoscimento del beneficio de quo in favore di personale diverso da quello indicato esplicitamente, pur se addetto ad attività in qualche modo omologabili a quelle descritte sub art. 44 nelle more licenziato dalla contrattazione collettiva del 1995.

Il divieto di “estensione analogica” è anche il frutto del maturare dei concetti di “specificità” e “stabilità” sopra richiamati.

Ed invero, non sembra revocabile in dubbio, già in un’ottica di comune senso di percezione, che un’assistenza prestata in modo continuativo, 24 ore su 24 in determinati settori e con ben precise modalità operative, anche strumentali, non può essere sic et simpliciter rapportata ad interventi che, secondo la scienza medica, sono di tipo intensivo o sub-intensivo.

Gli interventi in cui si sostanziano le assistenze della prima delle categorie citate, classificabili in termini di “terapie”, risultano espressamente presi in considerazione dalle parti sociali nella loro dimensione di “funzioni di attività” previste dal S.S.N.

Consegue, anche per detta via, la impossibilità di estendere i benefici previsti in termini di indennità a personale diverso da quello dedito “funzionalmente” ai “servizi” elencati in contrattazione collettiva. Servizi che, in definitiva, costituiscono una tipologia specifica di funzioni ed aree di competenza, legittimamente considerati alla stregua di precisi riferimenti mansionali idonei a garantire la previsione di determinate indennità.

Torna, quindi, ad essere dirimente il parametro della “specificità” delle attività “valorizzabili” con le indennità in disamina, parametro indissolubilmente legato a quello della “stabilità” di mansioni e di compiti da disimpegnare per assicurare quel determinato “servizio” (Cfr., ex multis, per un orientamento ermeneutico basato su dette coordinate: Corte di Appello ROMA, sentenza in data 09.07.2010).

Orbene, sembra del tutto evidente che i concetti sulla cui base la perimetrazione interpretativa del dato “normativo” ha assunto una fisionomia sempre più marcata richiamano quello, sistematico e logico-giuridico, dell’inserimento stabile delle mansioni/attività di riferimento in determinate ripartizioni funzionali che solo la contrattazione collettiva ha veste per individuare.

Non si tratta, evidentemente, di fondare la soluzione della controversia de qua sul dato “formale”, quanto, esattamente al contrario, di recepire una chiave di lettura che sia fedele al quadro “normativo” e alla sua esegesi “storica” e che valorizzi, di conseguenza, il dato “sostanziale” dell’effettivo espletamento, in regime di continuità, stabilità e specificità, di attività per le quali si è ritenuto “a monte” e quindi in via astratta e generale, di prevedere indennità incentivanti e compensative.

La digressione attorea volta a dimostrare che l’organizzazione aziendale di che trattasi proietta all’esterno la sovrapponibilità delle attività svolte dalla ricorrente, rectius: di alcune attività, a quelle proprie delle terapie intensive e/o sub-intensive non coglie nel segno.

Fra le variegate mansioni disimpegnate dalla sig.ra QU. nell’ambito del suo reparto di assegnazione ve ne sono alcune “di tipo intensivo”, espletate in turni di servizio che ne prevedono numerose altre, affatto diverse.

Riconoscere in un tale contesto operativo le indennità “specificamente” previste per il personale che si occupa “stabilmente” ed esclusivamente di quelle attività significa introdurre un elemento di sperequazione a tutto danno di detto personale.

Anche perché nessuno sforzo dimostrativo potrà mai consentire di verificare la consistenza “percentuale” di una determinata attività rispetto alle altre.

In altri termini.

Il criterio “sostanziale” pure suggerito in ricorso non risulta appagante, oltre che per motivi di evidente contrasto con la progressione ermeneutica di cui si è detto e di cui si dirà, perché non consente di tracciare una linea di demarcazione sufficientemente sicura in grado di ricondurre nell’ambito di attrazione delle attività e dei servizi previsti dalle fonti “collettive” fra compiti e mansioni “variegati”, disomogenei, solo saltuariamente omologabili al “tipo” di attività “pensata” dalla fonte “normativa” di riferimento quelli effettivamente rapportabili in toto alle previsioni della contrattazione collettiva.

Linea di demarcazione, evidentemente, che solo il criterio dello stabile inserimento dello svolgimento delle prestazioni professionali in astratto indicate in ripartizioni funzionali, a loro volta individuate in via generale, può garantire nella sua essenziale portata dirimente.

Del resto, per come pure si è avuto modo di sottolineare lungo un percorso decisionale ormai sfociato anche in mirate pronunzie della Corte Regolatrice (cfr.: Cass. sez. Lav., 09.04.2008, n. 9248), l’impianto “normativo” vigente è tale da non lasciare spazio a soluzioni alternative.

I continui richiami ai parametri dell’effettivo servizio prestato, dell’effettivo turno lavorativo, dell’intero turno lavorativo assicurato nei servizi di riferimento conducono, senza possibilità di equivoco alcuno, verso la “valorizzazione”, a fini incentivanti e compensativi, di prestazioni disimpegnate “stabilmente”, e non occasionalmente, in “servizi” come tali inquadrati in rigide ripartizioni funzionali. E, da detta angolazione, non può farsi a meno di evidenziare un ultimo aspetto patologico della pretesa azionata nel presente Giudizio.

Non sembra doversi ulteriormente insistere sulla peculiarità delle tre categorie funzionali individuate dalla fonte “collettiva” del 1995. Rectius: delle quattro se il riferimento deve abbracciare anche le attività a rischio radiologico. Terapie intensive e terapie sub-intensive rappresentano realtà concettuali diverse Ove distinte, per come del resto espressamente evidenziato nella stessa progressione argomentativa di cui si nutre il ricorso attoreo. I servizi di “malattie infettive”, già lessicalmente richiamano una sponda concettuale a sé stante. Così come le attività a rischio radiologico.

Orbene, per ciascuna di tali categorie mansionali, o almeno per le prime tre, la fonte “collettiva” prevede indennità “per ogni giornata di effettivo servizio prestato”.

Il che significa prevedere il riconoscimento delle indennità in vista di prestazioni professionali assicurate nell’ambito di ciascuna singola categoria di attività.

Id est: chi è esposto, funzionalmente, al rischio infettivo ha diritto alle indennità da rischio infettivo; chi è esposto, funzionalmente, ai rischi propri delle terapie intensive e/o sub-intensive ha diritto a quelle specifiche indennità, fra l’altro anche quantisticamente diversificate rispetto alle prime. Chi, infine, è esposto al rischio radiologico ha diritto a tale ulteriore tipo di indennità. Ipotizzare un soggetto esposto contemporaneamente a tutti e tre, o addirittura quattro, i rischi che rimandano alle indennità infermieristiche significa contraddire l’essenza stessa della previsione “normativa”. Basata, all’evidenza, sul riconoscimento che determinate attività lavorative, per peculiarità intrinseche, sono rischiose se prestate in modo da renderle realmente tali. Un soggetto che nella medesima giornata lavorativa passi da terapie intensive e/o sub-intensive ad assistenza a pazienti sottoposti ad esami radiografici e poi ad assistenza e stabilizzazione di malati che necessitano di prelievi ematici, per poi dedicarsi, nelle more fra una di dette attività ed altra, a mansioni del tutto neutre non può seriamente rimanere esposto ad alcun rischio “specifico”. Se non nella misura in cui lo sono in generale, ed in percentuali variabili senza preventiva possibilità di ragionevole differenziazione, gli esseri umani durante la loro vita di relazione.

La domanda attorea, invece, si fonda esattamente su questa inverosimile commistione di rischi. Senza, peraltro, alcuna tendenza a distinguere una sponda di provvidenza dall’altra, in un unicum parametrale che tradisce, ancora una volta, una chiave di lettura della fonte “normativa” incoerente con quella desumibile dal percorso ermeneutico di cui si è detto.

Il ricorso va, dunque, rigettato.

Le spese di lite vanno integralmente compensate fra le parti avuto riguardo alla complessità delle questioni trattate, solo di recente composte dagli interventi “mirati” della Corte Regolatrice.