Alcuni medici e infermieri di una struttura ospedaliera venivano chiamati a rispondere per il delitto di omicidio colposo di un paziente ricoverato a seguito di incidente stradale.

All’esito dell’udienza preliminare, il giudice dichiarava non luogo a procedere nei confronti degli imputati con la formula “perchè il fatto non sussiste”.

Le persone offese dal reato impugnavano il provvedimento favorevole agli imputati.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso rinviando nuovamente la questione al Tribunale. In particolare e tra gli altri aspetti, in ordine alla situazione del personale infermieristico si è affermata la improponibilità giuridica dell’assunto teso ad escludere la sussistenza di una posizione di garanzia.E’ vero proprio il contrario, ha osservato la Suprema Corte, e cioè che rientra nei compiti dell’infermiere quello di controllare il decorso della convalescenza del paziente, sì da poter porre le condizioni, in caso di dubbio, di un tempestivo intervento del medico.

Diversamente si finirebbero col mortificare le competenze professionali dell’infermiere, che, invece, svolge compiti cautelari essenziali nella salvaguardia della salute del paziente, essendo onerato di vigilare sul decorso del ricovero proprio ai fini di consentire, nel caso, l’intervento del medico.Seppure non vi può essere una comparazione tra gli spazi valutativi e decisionali dell’infermiere rispetto al medico, ben si può affermare la sussistenza di un’obbligo per l’infermiere, anche solo in caso di dubbio ragionevole, di sollecitare l’intervento del medico di turno, cui poi competono le decisioni ultime.

Cassazione Penale – Sez. IV, Sent. N. 24573 del 20.06.2011

Svolgimento del processo

M.M.N.C., nella qualità di parte offesa, Propone ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale il GIP presso il Tribunale di Trani dichiarava non luogo a procedere nei confronti di D.P.N., R. L., L.F., B.G., S.G. E P.C. in ordine al delitto di omicidio colposo nei confronti di D.C..

Il D.P. era stato chiamato a rispondere del delitto de quo nella qualità di medico del pronto Soccorso dell’ospedale civile di Canosa di Puglia ove era stato ricoverato il D. alle ore 6,05 del 13 settembre 2005 a seguito di un incidente stradale in cui riportava un politrauma con frattura esposta della gamba sx; il R. ed il L., nella qualità, rispettivamente, di primario del reparto ortopedia del medesimo ospedale, in cui era stato eseguito l’intervento di riduzione della fratture della gamba sinistra, e medico ortopedico in servizio durante la degenza post- operatoria della vittima; il B., S. E P. nella qualità di infermieri del medesimo reparto.

Secondo la ricostruzione fattuale esplicitata in tale sentenza, poco prima delle 6,00 del 13 settembre 2005 D.C. era rimasto coinvolto in un incidente stradale e, a seguito delle lesioni riportate, era stato ricoverato presso il suindicato ospedale: al Pronto Soccorso, ove operava il dott. D.P., venivano refertati “frattura tibia sin.; contusioni escoriate multiple (volto, gomito sin., gamba dx); ferita l.c. gomito sin. e regione mentoniera”. Nella circostanza, veniva effettuata una radiografia del cranio, dalla quale (annota la sentenza) “si desume l’assenza di rime o focai fratturativi”. Dalle ore 11 alle ore 12,30 il paziente era stato sottoposto ad intervento chirurgico all’arto inferiore destro. Nella fase post operatoria, la moglie del D. chiedeva invano al personale infermieristico l’intervento di un medico perchè il marito accusava stimolo al vomito, intensa sudorazione e sanguinamento.

Rilevata da un medico del Pronto soccorso la gravità della situazione, alle 21,40 di quello stesso giorno il paziente, sottoposto ad esame TAC, veniva finalmente trasferito, ormai in stato di incoscienza, all’ospedale di Andria, per “stato di coma ed insufficienza cardiocircolatoria terminale in soggetto cranio traumatizzato”. In detto ospedale veniva sottoposto ad intervento di craniotomia fronto-temporo-parietale per evacuazione dell’ematoma che, pur correttamente eseguito, faceva registrare un peggioramento delle condizioni del malato, trasferito successivamente al reparto di rianimazione dove restava sino al decesso verificatosi alle ore 7 circa del 17 settembre 2005.

Il profilo di colpa contestato al dott. D.P. era che, pur rilevando numerose contusioni craniche e pur avendo richiesto la radiografia del cranio, non aveva fatto pronta diagnosi di trauma cranico commotivo e non aveva disposto immediatamente un esame TAC cranio in urgenza.

Ai medici ortopedici, invece, era contestato di avere superficialmente esaminato la cartella clinica del paziente, sottoponendolo ad intervento chirurgico in anestesia generale – sconsigliata dalla scienza medica nei confronti di pazienti affetti da trauma cranico commotivo – e di non avere svolto alcun monitoraggio ed alcuna valutazione neurologica del paziente.

Al personale infermieristico, infine, era addebitato di non aver dato corso e richiesto l’intervento del medico di reparto a fronte delle reiterate richieste di aiuto dei familiari ed amici recatisi a far visita al D. che pur avevano segnalato fin dalle ore 16 la specifica sintomatologia del paziente.

All’esito dell’udienza preliminare, il GUP dichiarava non luogo a procedere nei confronti degli imputati con la formula “perchè il fatto non sussiste”.

Il giudicante ha richiamato gli esiti dell’esame autoptico svolto dal prof. V.F.: tale consulente evidenziò, fra l’altro, che l’esame TAC venne eseguito intorno alle ore 21,30 di quel giorno, come documentalmente certificato, e che la causa della morte “fu uno stato di coma ed insufficienza cardio-circolatoria terminale in soggetto con gravi lesioni cerebrali … indicative di un traumatismo che ben potè realizzarsi a seguito di un urto contro una struttura del veicolo nel quale prendeva posto il D. (ad esempio il volante, in quanto pare che la vittima fosse alla guida del proprio veicolo)”, richiamando, quanto ai “mezzi che determinarono il trauma cranico, le caratteristiche del punto di applicazione della forza (ed in particolare della ferita lacero-contusa presente in regione sottomentoniera)”. Il consulente rilevo che non vi era alcun motivo per suggerire indagini diagnostiche più approfondite di quelle effettivamente eseguite e che, conclusivamente, gli elementi di giudizio acquisiti non consentivano di prospettare elementi di colpa professionale nei confronti dei sanitari che ebbero in cura il D. presso gli ospedali di Canosa di Puglia e di Andria.

Il GIP ha altresì richiamato gli esiti dell’altra consulenza tecnica, disposta dal PM, affidata al neurochirurgo prof. D. A.. Tale consulente, come si legge nella sentenza impugnata, evidenziò che, al momento del ricovero del paziente, “erano presenti numerose contusioni craniche, e il meccanismo stesso della lesione (impatto della mandibola sul volante) implicava un trauma cranico violento”. Evidenziò, inoltre, che il medico delle 21,30 aveva descritto il paziente come affetto da trauma cranico con amnesia post- traumatica, che e la conseguenza persistente della perdita di coscienza: pertanto il trauma avrebbe dovuto essere descritto immediatamente come commotivo. Secondo il consulente i medici del Pronto Soccorso avrebbero dovuto o escludere la perdita di coscienza o segnalarla, perchè le procedure sono completamente diverse nei due casi.

Il fatto che i medici di PS avessero richiesto la radiografia del cranio – del tutto inutile in un ospedale dotato di TAC accessibile in urgenza – testimoniava, secondo il CTU, che si erano resi conto dell’esistenza di un trauma cranico violento, anche se al momento negativo nelle conseguenze cliniche. Di fatto il paziente aveva atteso circa due ore e mezzo (dalle 8 alle 10,30) dopo la conclusione degli esami radiologici, prima di essere operato, e in questo tempo ci sarebbero state tutte le possibilità di eseguire una TAC. Il consulente richiamo, inoltre, le dichiarazioni dei parenti della vittima, in ordine alle rilevate condizioni sintomatiche del loro congiunto in tale lasso temporale, esprimendo il giudizio che il resoconto della moglie e dei figli fosse più verosimile rispetto a quello del personale medico-paramedico.

Dalla sentenza impugnata risulta, infine, che il prof. D. aveva risposto positivamente al quesito del pubblico ministero se, con ragionevole probabilità, un più tempestivo intervento dei sanitari ed una più sollecita indagine strumentale a mezzo TAC avrebbe evitato o, comunque, ritardato l’exitus.

La sentenza impugnata ha poi ritenuto assolutamente decisivo valorizzare le considerazioni medico-legali di un altro consulente esperto intervenuto nel procedimento, ovvero il prof. D. F., consulente della difesa. Tale consulente rilevò, tra l’altro, che non risultava documentato alcun trauma cranico e che la Rx cranio eseguita in sede di pronto soccorso era correttamente effettuata a scopo cautelativo, non ricorrendo alcun elemento clinico e/o strumentale di giudizio che consentisse di effettuare la TAC cranio-encefalo in quanto, con giudizio ex ante, si trattava di un paziente contraddistinto da un trauma cranico minore.

Il consulente rilevò altresì che il paziente fu correttamente sottoposto a valutazione neurologica pre-anestesiologica nel reparto Ortopedia, che confermò la presenza di condizioni non controindicanti l’intervento di osteosintesi e che al termine dell’intervento (ore 12,30), al – sveglio dell’anestesia, fu nuovamente sottoposto a valutazione neurologica, che non evidenzio segni di deficit neurologici focali. In conclusione il citato consulente escludeva qualsivoglia profilo di responsabilità professionale a carico degli imputati.

Ciò premesso, richiamate tali acquisizioni procedimentali, il giudice della gravata sentenza ha rilevato che le documentate e puntuali considerazioni del prof. I. consentivano agevolmente di escludere nel caso di specie profili di colpa professionale non solo in capo al dott. D.P. ma per tutti i medici che tennero in cura il D. presso l’Ospedale di Canosa di Puglia.

Quanto al personale paramedico, la sentenza ha escluso la responsabilità degli infermieri, innanzitutto rilevando che erano infondati i “due presupposti” dell’accusa, cioè “la sussistenza dell’obbligo per gli infermieri di avvertire il medico di reparto di qualsiasi lamentela di parenti del paziente” e dell’obbligo per gli stessi “di valutare e percepire le sintomatologie dei pazienti”. Ha poi ritenuto che “le funzioni di ausiliari del personale medico imputabili agli infermieri escludono che questi abbiano autonomia valutativa in ordine alla verifica della compatibilità del quadro clinico del paziente con l’intervento e le cure dei medici. Insomma, gli infermieri non rivestono la posizione di garanzia come prospettata nel capo di imputazione ed e arduo configurare un nesso di causalità tra l’evento morte del D. e le condotte ascritte ai medici”, sicchè “anche per gli imputati infermieri valgono le considerazioni in ordine alla carenza di prova di un nesso causale tra la loro condotta e l’evento morte, dovendo richiamarsi in proposito tutte le considerazioni medico-legali sopra analizzate”.

La ricorrente censura la sentenza sotto il profilo della illogicità evidenziando che il comportamento colposo addebitato agli imputati era quello di avere omesso di effettuare una TAC cranio e di non avere nemmeno visitato il paziente dalle ore 12,30 fino alle ore 22,00, nonostante gli evidenti segni del trauma cranico e nonostante lo stesso presentasse episodi di nausea vomito e cefalea.

Si assume che tali sintomi erano stati riferiti al personale paramedico che non si era attivato. Si censura la sentenza, in particolare, sotto due profili: l’asserita incertezza in ordine alla sussistenza del nesso causale, alla luce delle considerazioni contenute nelle consulenze tecniche dei prof. V. e D.;

in secondo luogo per la violazione dei limiti imposti al giudizio dall’art. 425 cod. proc. pen., in base ai quali solo l’inutilità del dibattimento potrebbe giustificare la sentenza di non luogo a procedere.

Sotto il primo profilo si assume che nessuno dei consulenti aveva posto in dubbio la sussistenza del nesso causale tra il ritardo nella esecuzione della TAC (avvenuto dopo circa 16 ore) e l’evento morte;

ciò che aveva sostenuto il consulente della difesa era l’assenza di condotta colposa dei medici in presenza di quel determinato corteo sintomatologico. Manifestamente illogica era pertanto la sentenza nella misura in cui asserisce di sposare la tesi sostenuta dai consulenti tecnici che in realtà sostengono fatti e circostanze diversi. Ciò soprattutto tenuto conto degli esiti della CTU del PM che concludeva nel senso che la prognosi del trauma cranico dipende principalmente dalla rapidità con cui si pratica la cura adatta.

Quanto al secondo profilo dalla stessa parte motiva della sentenza emergeva il contrasto tra le consulenze, sanabile solo con una perizia, e la discrepanza tra le versioni dei fatti rese dal personale infermieristico e quelle rese dai familiari del paziente, circostanze queste che giustificavano o meglio rendevano necessario lo svolgimento del dibattimento.

Motivi della decisione

Il ricorso e fondato.

In via preliminare, va ricordato che l’udienza preliminare ha natura prevalentemente processuale, avendo, pur anche a seguito dell’intervenuto ampliamento dei poteri officiosi in tema di prova, lo specifico scopo di evitare dibattimenti inutili, piuttosto che quello di accertare la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. Ciò è desumibile anche dal dato normativo contenuto nel comma terzo, dell’art. 425 cod. proc. pen., secondo cui il giudice pronuncia “sentenza di non luogo a procedere” anche quando gli elementi acquisiti risultano “insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”: per l’effetto, il giudice, contemperando l’obbligo dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.) con i criteri di economia processuale imposti dall’art. 111 Cost., deve aprire all’ulteriore corso anche se si trova in presenza di elementi probatori insufficienti o contraddittori, i quali pero appaiano destinati, con ragionevole previsione, ad essere chiariti nel dibattimento; mentre deve pronunciare la sentenza di non luogo a procedere in presenza della ragionevole mancanza delle condizioni su cui fondare una prognosi favorevole all’accusa ossia laddove risulti l’impossibilita di sottoporre con successo la tesi accusatoria al vaglio dibattimentale (di recente, Sezione 2^, 3 dicembre 2009, Proc. Rep. Trib. Roma in proc. Consorte ed altri, non massimata).

L’esame della sentenza impugnata dimostra che il giudice di merito non si è attenuto in toto ai principi indicati, come emerge dalla circostanza che nella sentenza alcuna valutazione prognostica viene fatta sulla possibilità di superare, nel dibattimento, l’insufficienza e la contraddittorietà del quadro probatorio e sulla idoneità degli elementi prospettati dal PM a sostenere l’accusa in giudizio. E ciò, nella specie, avendo riguardo al contenuto diametralmente opposto dei contributi dei consulenti tecnici e del rilevato contrasto di versioni (su un punto topico quale il progressivo peggioramento delle condizioni del paziente) tra i familiari e il personale infermieristico.

Anzi, il primo punto è stata semplicisticamente risolto, in modo non consentito in ragione dei rilevati contenuti della sentenza di non doversi procedere ex art. 425 cod. proc. pen., attraverso un apodittico richiamo alle conclusioni del c.t., della difesa, neppure poste in adeguata comparazione con le diverse conclusioni del c.t. del PM. Va ricordato che, certamente, la Corte di cassazione non è giudice del sapere scientifico, giacche non detiene proprie conoscenze privilegiate: essa, in vero, è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine alla affidabilità delle informazioni che vengono utilizzate ai fini della spiegazione del fatto. La Corte di cassazione, rispetto a tale apprezzamento, quindi, non deve stabilire se la tesi accolta sia esatta, ma solo se la spiegazione fornita sia spiegata in modo razionale e logico.

Ciò significa che, in questa sede, non si può interloquire sulla maggiore o minore attendibilità scientifica degli apporti scientifici esaminati dal giudice.

In effetti, in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purchè dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicchè, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, è inibito al giudice di legittimità di procedere ad una differente valutazione, poichè si è in presenza di un accertamento in fatto come tale insindacabile dalla Corte di cassazione, se non entro i limiti del vizio motivazionale (Sezione 4^, 20 aprile 2010, Bonsignore).

E’ proprio facendo applicazione di questi principi che e immediatamente apprezzabile la manifesta illogicità, oltre che la eccessiva semplificazione motivazionale, della sentenza in esame, che non ha affatto proceduto ad un’attenta disamina comparativa tra i diversi apporti medico-legali, limitandosi a aderire ad una delle tesi scientifiche, ma eludendo del tutto le tematiche specifiche che l’altra consulenza poneva (in particolare, la questione della necessità di dover effettuare una TAC e, soprattutto, la questione dell’omesso monitoraggio delle condizioni del paziente).

Il vizio è ancora più evidente ove si consideri che la decisione e intervenuta in sede di udienza preliminare, così che il giudicante ha totalmente pretermesso di considerare che taluni elementi apparentemente contraddittori (quali il dissenso tra le versioni dei parenti e quelle degli infermieri), potevano e dovevano essere sottoposti al vaglio del dibattimento, con esiti rilevanti anche ai fini del giudizio sulla attendibilità dell’una o dell’altra tesi scientifica.

Del tutto improponibile giuridicamente, poi, è l’assunto del giudicante teso ad escludere la sussistenza di una posizione di garanzia degli infermieri, che, oltre ad essere affermazione apodittica, fraintende completamente i principi applicabili nella subiecta materia. E’ vero proprio il contrario, e cioè che, rientra nel proprium (non solo del sanitario, ma anche) dell’infermiere quello di controllare il decorso della convalescenza del paziente ricoverato in reparto, sì da poter porre le condizioni, in caso di dubbio, di un tempestivo intervento del medico. Il ragionamento del giudicante, a tacer d’altro, finisce con il mortificare le competenze professionali di tale soggetto, che, invece, svolge un compito cautelare essenziale nella salvaguardia della salute del paziente, essendo, come detto, l’infermiere onerato di vigilare sul decorso post operatorio, proprio ai fini di consentire, nel caso, l’intervento del medico. E’ evidente ancora l’equivoco del giudicante quando si sofferma sull'”autonomia valutativa” dell’infermiere, rispetto al sanitario, che dimostra, a fortiori, l’errore concettuale di giudizio: non è infatti in discussione (nè lo potrebbe essere) una comparazione tra gli spazi valutativi e decisionali dell’infermiere rispetto al medico, ma solo l’obbligo per l’infermiere, anche solo in caso di dubbio ragionevole (qui, fondabile non foss’altro che per le reiterate indicazioni dei parenti), di chiamare l’intervento del medico di turno, cui poi compete la decisione ultima.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Trani.