Due medici venivano sottoposti a giudizio per rispondere del reato di lesioni personali colpose in relazione alla amputazione di parte della falange distale del quinto dito della mano destra subita da un paziente il quale, mentre era intento a riparare il cavo metallico dell’acceleratore di una vespa, riportava una grave ferita da taglio; recatosi presso l’ospedale, veniva sottoposto ad intervento chirurgico di sutura e cucitura del tendine, ricevendo, all’atto delle dimissioni la prescrizione di presentarsi a distanza di 10 giorni per un controllo. Al primo controllo veniva invitato a ritornare dopo altri 10 giorni; a questo secondo controllo veniva informato che avrebbe dovuto presentarsi tutti i giorni per effettuare delle medicazioni.

Così fece per un mese, fino a quando, su consiglio di un altro medico dello stesso ospedale, si recava al reparto di chirurgia plastica dell’ospedale dove purtroppo apprendeva che il dito era andato in necrosi e doveva essere praticata l’amputazione della falange.

Si contestava ai due medici di aver reso necessaria tale amputazione per non aver posto in essere una condotta diligente specie nel decorso postoperatorio, omettendo di prescrivere la terapia antibiotica e di effettuare gli opportuni controlli e medicazioni sulla ferita, comportando così il ritardato accertamento della infezione insorta e l’impossibilità di contrastare efficacemente il processo necrotico.

Cassazione Penale – Sez. IV; Sent. n. 25653 del 27.06.2011

Svolgimento del processo

1. C.M. e O.M. sono stati tratti a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 590 c.p. in relazione alla amputazione di parte della falange distale del quinto dito della mano destra subita da D.P.S..

Assolti dal Tribunale di Enna perchè il fatto non sussiste, su impugnazione della sola parte civile, i medesimi venivano ritenuti responsabili dalla Corte di appello.

In fatto è risultato che il 7 novembre 1997 D.P.S., mentre era intento a riparare il cavo metallico dell’acceleratore di una vespa, riportava una grave ferita da taglio; recatosi presso l’ospedale X. , veniva sottoposto ad intervento chirurgico di sutura e cucitura del tendine (tenoraffia) dal dottor C.M., ricevendo, all’atto delle dimissioni la prescrizione di presentarsi a distanza di 10 giorni per un controllo;

in tale occasione il C. e il dottor O., medico addetto alle medicazioni, lo invitavano a ritornare dopo altri 10 giorni; a questo secondo controllo il D.P. veniva informato che avrebbe dovuto presentarsi tutti i giorni per effettuare delle medicazioni;

così fece per un mese, fino a quando, su consiglio di un altro medico dello stesso ospedale, egli si recava al reparto di chirurgia plastica dell’ospedale X.  dove apprendeva che il dito era andato in necrosi e doveva essere operata l’amputazione della falange. Si contestava ai due medici di aver reso necessaria tale amputazione per non aver posto in essere una condotta diligente specie nel decorso postoperatorio, omettendo di prescrivere la terapia antibiotica e di effettuare gli opportuni controlli e medicazioni sulla ferita per 20 giorni, comportando così il ritardato accertamento della infezione insorta e l’impossibilità di contrastare efficacemente il processo necrotico.

Il primo giudice riteneva non sufficientemente provato il nesso di causalità essendo emerso che l’intervento operatorio effettuato dal C. era stato regolarmente compiuto ed avendo la stessa parte offesa riferito differenti versioni dei fatti relativi al post operatorio, ammettendo in particolare che le medicazioni erano state regolarmente effettuate per circa un mese. La Corte di appello disponeva la riapertura dell’istruzione dibattimentale e l’epletamento di perizia medico legale volta ad accertare se le lesioni riportate dalla persona offesa fossero riconducibili alla condotta colposa degli imputati. Secondo la Corte di appello alla amputazione del dito si era pervenuti a causa della condotta negligente tenuta dagli imputati che avevano omesso di prescrivere al D.P. una adeguata terapia farmacologica, invitando semplicemente il paziente a ritornare in ospedale dopo 10 giorni per un controllo e, quando si era ripresentato, non avevano ispezionato e medicato la ferita, rimuovendo le garze, ma si erano limitati ad un esame esterno e a sollecitare il D.P. a tornare dopo altri 10 giorni; solo in tale occasione i due medici constatavano il processo infettivo e prescrivevano al paziente medicazioni giornaliere dicendogli che poi avrebbe avuto bisogno di una chirurgia plastica.

I due medici avrebbero invece dovuto sottoporre il paziente a terapia antibiotica prima e dopo l’intervento e controllare direttamente e con maggiore tempestività lo stato della ferita, senza attendere 20 giorni, ciò che avrebbe consentito di diminuire considerevolmente il rischio di infezione e comunque di rendersi conto tempestivamente dello stato infettivo in atto e di porre in essere le misure del caso, al fine della completa guarigione del dito, tanto più possibile quanto prima si scopriva l’infezione.

2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso per cassazione il difensore degli imputati, con separati ricorsi di identico contenuto.

Con unico, articolato motivo deduce illogicità, contradditorietà e insufficienza della motivazione ed erronea applicazione dell’art. 590 c.p. in relazione all’art. 40 c.p.. Sostiene che la Corte di appello ha compiuto una erronea valutazione delle dichiarazione dei consulenti medici sentiti in giudizio e non ha tenuto conto delle differenti versioni rese dalla stessa persona offesa; in particolare proprio il mancato controllo della ferita per 20 giorni, che è stato posto alla base del giudizio di responsabilità, è smentito da quanto riferito dalla parte offesa in sede di querela, dove la medesima riferisce che quando egli tornò in reparto per il primo controllo, dopo 10 giorni dall’intervento, il dott. C. “verificava la ferita” espressione che chiaramente presuppone la rimozione della garza.

La Corte, sulla scorta di letteratura scientifica, ha ritenuto che l’adozione di corrette misure preventive avrebbe ridotto dal 24 al 35 % l’incidenza di infezioni; ma le linee guida cui si è fatto riferimento per esprimere tale giudizio sono solo del 1999, come pure del 2006 è il protocollo di gestione ospedaliera delle ferite chirurgiche prodotto in causa, si tratta cioè di documenti successivi ai fatti che si sono verificati nel 1997; il comportamento omissivo degli imputati è stato giudicato sulla base di protocolli e linee guida emerse solo successivamente e che comunque non stabiliscono una precisa cadenza temporale per effettuare le medicazioni.

Sostengono poi i ricorrenti che la necrosi della falange ben poteva essere stata determinata da una causa diversa della presunta infezione post operatoria, infezione che è stata data per pacifica, ma che in realtà è meramente ipotetica non risultando accertata da nessun atto di causa; ben poteva essersi trattato di un fatto ischemico derivato dalla lesione dei vasi al momento dell’incidente.

Del tutto ipotetica è l’affermazione che considera fatto notorio il dato che u vaso reciso non è suscettibile di autonoma riparazione.

Da tali osservazione deriverebbe che il nesso causale non è stato accertato con la necessaria certezza. Si chiede dunque l’annullamento delle rese statuizioni civili.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non merita accoglimento essendo prevalentemente fondato su motivi non consentiti e manifestamente infondati, o comunque infondati. Osserva infatti il Collegio che le questioni poste con il presente ricorso hanno trovato già puntuale e precisa risposta nella sentenza della Corte di appello di Caltanisetta.

In primo luogo sono state attentamente e dettagliatamente esaminate le dichiarazioni della persona offesa per chiarire come fosse evidentemente frutto di un errato ricordo, scusabile dato il lungo tempo trascorso dai fatti nel momento dell’esame dibattimentale della medesima, l’indicazione di intervalli di 20 giorni (e non di 10 come effettivamente accertato) per le due visite di controllo; indicazione priva in ogni caso di rilevanza, dal momento che la successione temporale degli eventi,ed in particolare dei controlli, risultava oggettivamente accertata sulla base dei documenti acquisiti al giudizio ed in particolare delle prescrizioni scritte che erano state impartite al paziente; viceversa era stato sempre confermato dal D. P. che i due medici all’atto del primo controllo non avevano rimosso le garze delle ferita e si erano limitati ad un controllo dall’esterno, dicendogli di ripresentarsi dopo altri 10 giorni. Anche la questione attinente alla causa della necrosi ha già trovato spiegazione, corretta e logica, nella sentenza impugnata. La Corte di appello infatti ha osservato che non poteva condividersi la tesi, sostenuta in particolare dal dottor C., secondo cui la necrosi della falange ben poteva essere stata determinata dallo stesso infortunio occorso al D.P., che poteva avere interessato anche il vaso sanguigno, recidendolo; in tal caso il processo di necrosi si sarebbe verificato al massimo entro 10 giorni e il medico, al controllo effettuato al ventesimo giorno, avrebbe senz’altro dovuto accorgersene ed informare il paziente, anzichè prescrivere medicazioni, inutili, per 30 giorni e poi indirizzare lo stesso a un intervento di ricostruzione plastica; la tesi era da ritenersi pertanto del tutto inverosimile.

Deve da ultimo rilevarsi che infondato è anche il rilievo secondo cui non sarebbe corretto giudicare l’operato di un medico sulla base di linee guida e protocolli successivi all’epoca della contestazione di cui deve rispondere.

Il rilievo evoca principi assolutamente pacifici in tema di responsabilità per colpa essendo comunemente riconosciuto che in tema di delitti colposi, l’essenza della condotta colposa va ravvisata nell’oggettivo contrasto tra la condotta concretamente tenuta dal soggetto agente e quella prescritta dall’ordinamento, sempre che risulti la prevedibilità dell’evento, ovvero la possibilità di riconoscere il pericolo che ad una data condotta possa conseguire la realizzazione di un fatto; e con riguardo alla prevedibilità dell’evento è stato poi precisato che l’accertamento deve avvenire con valutazione “ex ante”, giacchè non può essere addebitato all’agente modello (Phomo ejusdem professionis et condicionis”) di non avere previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere, finendosi, diversamente opinando, con il costruire una forma di responsabilità oggettiva.

Tali principi non sono contraddetti nel presente caso atteso che la mancanza di diligenza degli imputati nel controllare le possibili e ben note infezioni derivanti dall’intervento è risultata pacificamente accertata in entrambi i gradi di giudizio, sia in relazione alla assenza di prescrizione di ogni trattamento antibiotico, sia in relazione all’omesso controllo diretto della ferita del D.P. per i 20 giorni successivi all’intervento stesso.

Si tratta di comportamenti improntati ad evidente superficialità, chiaramente evidenziata dal consulente del pubblico ministro e dal perito di ufficio che hanno sottolineato come dopo interventi del genere di quello effettuato sia necessario un corretto controllo post operatorio, essendo le infezioni delle ferite chirurgiche una complicanza frequente dell’intervento chirurgico, e particolarmente di quello posto in essere atteso che la ferita del D.P. era da considerarsi “sporca” e dunque soggetta ad una più alta probabilità di infettarsi. Ben prevedibile, alla luce di comuni nozioni della professione medica, era dunque il verificarsi della complicanza rappresentata dalla infezione, poi effettivamente verficatasi, e senza necessità di fare riferimento al riguardo alle linee guida del 1999 ed al protocollo operativo dell’ospedale X. .

Tali documenti, con le percentuali dai medesimi indicati, sono stati introdotti ai fini di fornire utili indicazioni in tema di dimostrazione del nesso di causalità, fornendo il necessario substrato di certezza, e traducono evidentemente in cifre la esperienza pregressa. Nè può seriamente dubitarsi della ricorrenza del nesso eziologico tra la condotta omissiva degli imputati e l’evento lesivo (amputazione della falange distale) che si è verificato, se solo si ha riguardo ai fatti come avvenuti e alle osservazioni svolte dal perito. Quest’ultimo ha, infatti, evidenziato nella propria relazione che l’infezione della ferita chirurgica costituisce una delle complicanze più frequenti e prevedibili del post-operatorio, soprattutto nel caso di ferite c.d. sporche, rilevando che l’adozione di misure preventive appropriate porta ad una significativa riduzione di complicanze infettive ed ha aggiunto che, se gli imputati avessero messo in atto, come prescritto dalla lex artis, un adeguato programma di controllo clinico e medicazione della ferita, non soltanto si sarebbero ridotte le possibilità di insorgenza della infezione, ma la stessa sarebbe stata tempestivamente diagnosticata con un correlativo incremento, sia pure non percentualmente qualificabile, delle possibilità di completa guarigione dei dito.

2. Conclusivamente i ricorsi devono essere rigettati con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè in solido alla rifusione in favore della costituita parte civile delle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 2800,00, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

– Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè in solido alla rifusione in favore della costituita parte civile delle spese di questo giudizio che liquida in Euro 2800,00, oltre accessori come per legge