Un medico di medicina generale convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, oltre ad esercitare la propria attività nell’immobile di sua proprietà,condivideva lo studio con altri colleghi anch’essi convenzionati e, saltuariamente, su richiesta degli interessati e a seguito di prenotazione di visita, con altri specialisti tutti appartenenti all’Area medica non chirurgica con attività di carattere non rischioso nè invasivo per i pazienti. A seguito di ispezione,  la ASL adottava un atto di diffida sul presupposto che lo studio medico fosse un ambulatorio polispecialistico, per la cui apertura sono necessarie speciali autorizzazioni mancanti nella caso concreto.

TAR Lazio – Sez. III quater – Sent. n. 4282 del 17.05.2011

FATTO

1. Con ricorso notificato in data 28 gennaio 2011 e depositato il successivo 1 febbraio il sig. S.  M.  ha impugnato, tra gli altri, la diffida, n. 72015 del 7 dicembre 2010 della Azienda U.S.l. Roma C – Dipartimento di Prevenzione U.O.C. Servizio Igiene e Sanità Pubblica, “dal proseguire l’attività ambulatoriale”.

Espone, in fatto, di svolgere attività di medicina generale convenzionata con la Regione Lazio all’interno dello Studio medico sito in Roma, via P.  V.  n. 36, in un immobile di sua proprietà. Tale studio è condiviso con i dott.ri A. M. V. , P. I. e A. La P., tutti medici convenzionati con il Servizio sanitario nazionale. Oltre a questi operano saltuariamente, solo su richiesta dell’interessato e a seguito di prenotazione di visita, altri specialisti, tutti appartenenti all’Area medica non chirurgica. Nessuna delle attività svolta da questi medici ha carattere invasivo ed è rischiosa per i pazienti.

A seguito di ispezione della A.S.L. Roma C è stato adottata l’impugnata diffida sull’erroneo assunto che lo studio medico fosse un ambulatorio polispecialistico, per la cui apertura sono necessarie speciali autorizzazioni nella specie non richieste.

2. Avverso i predetti provvedimenti il ricorrente è insorto deducendone l’illegittimità sotto diversi profili.

In primo luogo i provvedimenti impugnati sono viziati per difetto di motivazione e perché non indicano i termini e l’autorità da adire in sede di impugnazione. Aggiungasi che è stata omessa la fase partecipativa, non essendo stata data comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. n. 241 del 1990. Infine, è erroneo il presupposto che ha dato luogo alla diffida, e cioè che lo studio medico sarebbe stato trasformato in un ambulatorio polispecialistico atteso che tutte le specialità mediche erogate nella struttura afferiscono all’Area medica non chirurgica.

3. Il ricorrente chiede altresì la condanna al risarcimento dei danni subiti per effetto dell’illegittimo provvedimento adottato.

4. Si è costituita in giudizio l’Azienda U.S.L. Roma C, che ha sostenuto l’infondatezza del ricorso.

5. Si è costituita in giudizio la Regione Lazio, che ha preliminarmente eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, mentre nel merito ha sostenuto l’infondatezza del ricorso.

6. Con memorie depositate alla vigilia dell’udienza di discussione le parti costituite hanno ribadito le rispettive tesi difensive.

7. Alla Camera di consiglio del 9 marzo 2011, sull’accordo delle parti, l’esame dell’istanza di sospensione cautelare è stato abbinato al merito.

8. All’udienza del 20 aprile 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. Deve preliminarmente essere esaminata l’eccezione, sollevata dalla Regione Lazio, di difetto di legittimazione passiva, non essendo essa parte necessaria dell’odierno gravame.

L’eccezione non è suscettibile di positiva valutazione atteso che, riportando la carta usata per il provvedimento impugnato il logo sia dell’Azienda sanitaria che della Regione Lazio, correttamente il ricorrente ha ritenuto che anche a quest’ultima fosse riconducibile la decisione di inibire la prosecuzione dell’attività ambulatoriale. D’altro canto detta Regione, a difesa dell’impugnato provvedimento, alla vigilia dell’udienza di discussione ha depositato documentazione (di cui peraltro non si terrà conto perché presentata oltre il termine di cui all’art. 73 c.p.a.), con ciò dimostrando di avere un diretto e concreto interesse alla definizione della vertenza.

2. In via preliminare, onde ricondurre nei suoi esatti confini la vicenda contenziosa sottoposta all’esame del Collegio, occorre chiarire che, come ripetutamente affermato dall’Azienda sanitaria nella discussione tenutasi nella camera di consiglio del 23 febbraio 2011 per l’esame della domanda cautelare (poi rinviata al 9 marzo 2011 e in quella sede riunita al merito), la diffida a cessare l’attività ambulatoriale non si estende all’attività convenzionale esercitata dal ricorrente nella qualità di medico di base e dagli altri sanitari che operano nello studio allo stesso titolo.

Altra precisazione va fatta con riferimento ai macchinari rinvenuti dagli ispettori nello studio del ricorrente e riportati nel verbale del 6 dicembre 2006, che non è stato dagli stessi annullato, come è invece accaduto per quelli del successivo 7 dicembre. Detto verbale è il solo a far fede fino a querela di falso ai sensi dell’art. 2700 cod. civ. (Cons. Stato, V Sez. 27 aprile 2006 n. 2372; T.A.R. Napoli, sez. III, 17 settembre 2010 n. 17438; T.A.R. Pescara 7 gennaio 2005 n. 5; T.A.R. Lazio, II Sez., 2 settembre 2005 n. 6527) e il suo contenuto non può essere implementato, come pretende la difesa dell’A.S.L. nei suoi scritti, con riferimento ai dati emergenti da un messaggio pubblicitario inserito dal ricorrente in un sito. I macchinari da valutare ai fini della verifica della qualifica da assegnare allo studio del ricorrente sono quindi i soli riscontrati in loco dagli ispettori e rientranti fra quelli usuali utilizzati dal medico oculista per l’esercizio della sua specifica attività professionale (una tabella di misurazione della vista e tre apparecchi per la misurazione dell’astigmatismo, la pressione oculare e un rifrattometro) e del tutto privi di pericolosità per il paziente.

3. Ciò chiarito, il regime delle autorizzazioni è dettato, nella Regione Lazio, dall’art. 4, commi 1 e 2, L. reg. Lazio 3 marzo 2003, n. 4, modificato dall’art. 27, commi 1 e 2, L. reg. 28 dicembre 2006, n. 27, secondo cui sono soggetti ad autorizzazione all’esercizio gli studi medici che erogano prestazioni di particolare complessità, che possono comportare rischi per il paziente.

Tale norma è stata interpretata dalla Giunta regionale Lazio con la deliberazione 8 febbraio 2008, n. 73, avente natura regolamentare, che ha approvato le “Linee guida propedeutiche al rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività sanitaria in favore degli studi medici di cui all’art. 4, comma 2, legge regionale n. 4 del 2003 nonché all’esercizio dell’attività sanitaria per le ulteriori tipologie di studi medici non riconducibili a predetta fattispecie”. Ha chiarito che con il passare del tempo e l’evolversi della tecnologia in campo sanitario il termine “ambulatorio polispecialistico” è stato esteso ad attività molto diverse da quelle di carattere prettamente diagnostico, improntate sul rapporto professionista-utente e senza necessità di utilizzo di particolari attrezzature, e cioè a quelle di carattere più complesso, riguardanti, ad esempio, l’utilizzo di tecniche chirurgiche. Ha quindi dichiarato sottoposta a specifica autorizzazione all’esercizio dell’attività sanitaria ogni struttura che eserciti prestazioni di chirurgia ambulatoriale ovvero procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità, che comportino un rischio per la sicurezza del paziente; e ciò indipendentemente dalla circostanza che tale attività sia svolta dal singolo professionista medico o da più professionisti associati. Ha quindi escluso dal regime autorizzatorio lo studio medico nel quale il professionista o “più professionisti medici associati della stessa area medica non chirurgica” esercitano – ciascuno in forma autonoma e sotto la propria responsabilità – l’attività professionale senza l’utilizzo di procedure invasive o apparecchiature elettromedicali a scopo terapeutico.

Dall’esame delle predette “Linee guida” è dunque evidente che la necessità di acquisire la previa autorizzazione è legata al tipo di attività sanitaria svolta, ove presenti elementi di pericolosità per il paziente, anche per i macchinari utilizzati.

4. E’ ben vero, come affermano le parti resistenti a difesa della legittimità degli atti impugnati, che successivamente alle “Linee guida” la stessa Regione Lazio, il 16 luglio 2009, ha emanato una circolare a firma di due dirigenti dell’Assessorato alla sanità che (punto 10) revoca “ogni indicazione eventualmente contenuta in precedenti circolari emanate da questa Direzione che dovesse contrastare con i presenti chiarimenti”, ma si tratta di richiamo privo di pregio al fine del decidere.

Ed invero, contrariamente a quanto mostra di ritenere l’A.S.L. nel suo scritto difensivo, è da escludere, sulla base di principi noti ad ogni operatore di diritto, che tale documento possa aver implicitamente abrogato, in parte qua, la normativa regolamentare dettata dalla Giunta regionale con le sue “Linee guida” e, quindi, ininfluenti al fine del decidere sono eventuali prescrizioni di segno contrario emanate da soggetti (i due firmatari della circolare) sprovvisti di qualsiasi competenza a modificare o anche solo a integrare i requisiti previsti dalla normativa primaria (l’emendato art. 4 L. reg. n. 4 del 2003) e regolamentare (la cit. delibera di Giunta n. 73 dell’8 febbraio 2008).

Aggiungasi che detta circolare espressamente limita (punto 10) il suo intervento revocatorio alle sole pregresse circolari aventi il medesimo oggetto, e fra queste ovviamente non rientrano, per la loro qualificazione giuridica, le “Linee guida”, che conseguentemente devono ritenersi pienamente operative e vincolanti per le Amministrazioni alle quali si riferiscono.

5. Né sarebbe ipotizzabile un onere impugnatorio della stessa a carico del ricorrente, né in effetti le parti resistenti l’hanno eccepito, atteso che la circolare in questione non è richiamata negli atti impugnati, ma è da esse utilizzata negli scritti difensivi come argomento rafforzativo della tesi svolta, alla quale il ricorrente ha ampiamente controdedotto. Nella dialettica fra le parti in causa alle argomentazioni dell’una si oppongono le controdeduzioni dell’altra, ma né l’una né le altre sono suscettive ex sé di ampliare la materia del contendere, che resta definita dall’atto introduttivo del giudizio e dalle eccezioni formalmente proposte dai resistenti.

6. Segue da ciò che manca qualsiasi giustificazione, sia logica che giuridica, per qualificare lo studio medico del ricorrente un poliambulatorio specialistico solo perché in esso sono stati ritrovati gli strumenti indispensabili per l’esercizio dell’attività di oculista, essendo gli stessi privi di qualsiasi pericolosità per il cliente. Aggiungasi, ma solo a fini meramente chiarificatori e non per ampliare la materia del contendere oltre i limiti derivanti dalla verifica effettuata in loco dagli ispettori – atteso che in un processo di parti non è consentito al giudice ampliare il thema decidendum dalle stesse fissato – che non esiste norma primaria o regolamentare che faccia divieto al titolare dello studio medico di ospitare occasionalmente, su richiesta dell’utente e previo appuntamento, sanitari esperti nella diagnosi e cura di patologie estranee al suo bagaglio professionale.

7. Segue da ciò che il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, devono essere annullati gli atti impugnati.

Deve essere invece respinta la richiesta di risarcimento danni, per mancato guadagno e lesione all’immagine.

A prescindere dall’assorbente rilievo che il ricorrente non ha provato di aver ricevuto un danno economico dall’impugnato provvedimento sul piano professionale, occorre precisare che lo stesso ha ripetutamente affermato che alcun guadagno percepisce dall’attività svolta dai colleghi nell’ambulatorio, salvo un limitato rimborso spese.

Ma neanche un danno all’immagine è configurabile atteso che, come chiarito dall’Azienda sanitaria nella discussione tenutasi nella camera di consiglio per l’esame della domanda cautelare, la diffida a cessare l’attività ambulatoriale non si estende all’attività convenzionale esercitata dal ricorrente nella qualità di medico di base. Dunque, poiché questi continua a prestare la propria attività ai suoi pazienti, il danno all’immagine potrebbero, al più, averla subita gli altri medici che sono stati costretti a cessare l’attività (saltuaria) presso lo studio del dott. M.  nelle more della decisione del ricorso. Ma questi si sono astenuti dall’esperire qualsiasi attività giudiziaria.

Quanto alle spese di giudizio, sussistono giusti motivi per disporre l’integrale compensazione fra le parti costituite.