In caso di illegittima revoca del rapporto convenzionale, il medico può ottenere il risarcimento del danno all’immagine. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione a seguito dell’appello proposto dalla Regione Campania avverso le precedenti sentenze di merito.

Il danno all’immagine riconosciuto in favore del professionista, ha osservato la Suprema Corte, è stato argomentato dai precedenti giudici, con accertamento di fatto plausibile, tenendo conto dell’attività svolta dal professionista, il quale operava, quale medico specializzato in cardiologia in un piccolo comune del napoletano, nonché delle vicende che condussero alla revoca della convenzione e che determinarono l’interruzione del rapporto per oltre un decennio, con conseguente pregiudizio per l’immagine professionale del sanitario, all’interno dell’ambiente di lavoro e della comunità sociale ove lo stesso operava.

Cassazione Civile – Sez. Lavoro; Sent. n. 25271 del 29.11.2011

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 13.6/8.8.2006 la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della decisione di primo grado, condannava la Regione Campania a risarcire in favore di D.C.S., già medico convenzionato con la USL n. X. , i danni conseguenti alla illegittima revoca del rapporto convenzionale, disposta con Delib. 12 febbraio 1991.

Osservava in sintesi la Corte territoriale che la domanda avanzata in giudizio non aveva quale presupposto un fatto illecito aquiliano, bensì era conseguente ad un provvedimento illegittimo adottato dalla Regione Campania, che, pertanto, sebbene terza rispetto al rapporto di convenzionamento, ma quale ente sovraordinato rispetto alla USL, datrice di lavoro, doveva considerarsi come l’autrice principale dell’inadempimento, con conseguente natura contrattuale della responsabilità sulla stessa gravante e soggezione al termine decennale della relativa prescrizione, utilmente interrotta.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la regione Campania con tre motivi.

Resiste con controricorso D.C.S., il quale ha anche proposto ricorso incidentale condizionato; resistono, altresì, con controricorso l’ASL Napoli 5 e la Gestione liquidatoria della ex USL n. X. .

Ha depositato memoria D.C.S..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la Regione Campania lamenta violazione degli artt. 1218 e 2043 c.c., ed, al riguardo, osserva che, essendosi, nei precedenti giudizi, accertato che il provvedimento di revoca della convenzione era stato adottato in situazione di assoluta carenza di potere, con l’esplicazione di mera attività materiale e non certo provvedimentale, la responsabilità ascrivibile alla regione doveva qualificarsi come extracontrattuale e che, comunque, tale doveva considerarsi la responsabilità conseguente all’induzione o alla cooperazione nell’inadempimento.

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1226 e 2697 c.c., si duole che la corte territoriale aveva liquidato il danno all’immagine professionale in assenza di alcuna prova sul punto, erroneamente supponendo che il dedotto pregiudizio fosse in re ipsa e facendo illegittimamente ricorso alla liquidazione equitativa.

Con l’ultimo motivo, infine, la ricorrente lamenta vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) con riferimento alla mancata esplicitazione dei motivi stessi posti a giustificazione del riconoscimento del pregiudizio lamentato.

Quanto, poi, al ricorso incidentale condizionato, l’intimato contesta, con un unico motivo, la decisione impugnata con riferimento al difetto di legittimazione della ASL Napoli X.  e della Gestione liquidatoria della USL n. X. .

2.1 ricorsi vanno preliminarmente riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

3. Il primo motivo del ricorso principale è infondato.

Per come, infatti, ben si avverte nella sentenza impugnata, la domanda avanzata dal D.C. risulta prospettata e giustificata non con riferimento alla sussistenza di un fatto illecito aquiliano, ma quale conseguenza della illegittima interruzione del rapporto convenzionale instauratosi fra le parti, e, quindi, quale inadempimento dei relativi obblighi contrattuali.

Ed, al riguardo, merita di essere rammentato come sia acquisita l’affermazione che i rapporti fra i medici convenzionati esterni e le unità sanitarie locali, disciplinati dalla L. n. 833 del 1978, art. 48 e dagli accordi collettivi nazionali stipulati in attuazione di tale norma, pur se costituiti allo scopo di soddisfare le finalità istituzionali del servizio sanitario nazionale, dirette a tutelare la salute pubblica, corrispondono a rapporti libero professionali, che si svolgono di norma su un piano di parità, non esercitando l’ente pubblico nei confronti del medico convenzionato alcun potere autoritativo, al di fuori di quello di sorveglianza, nè potendo incidere unilateralmente, limitandole o degradandole ad interessi legittimi, sulle posizioni di diritto soggettivo discendenti per il professionista dal rapporto di lavoro autonomo (v. ad es. Cass. SU. n. 20344/2005).

Ne deriva che i provvedimenti dell’ente pubblico che incidono sul rapporto convenzionale non sono qualificabili come provvedimenti amministrativi, ma debbono essere ricostruiti, nei limiti stabiliti dalla legge, come manifestazione di autonomia privata, valutabili e sindacabili alla stregua del regime di diritto privato, proprio dei rapporti libero professionali, e che gli stessi risultano, in ogni caso, inidonei a svolgersi, con effetti affievolitivi, sulla posizione di diritto soggettivo delle parti private interessate.

Essendo incontroverso, pertanto, che la revoca della convenzione è stata disposta dalla Regione Campania su conforme proposta dell’USL n. X. , del tutto irrilevante appare, ai fini della configurazione della responsabilità come contrattuale o extracontrattuale, che tale provvedimento fosse affetto da incompetenza relativa o assoluta (e, quindi, fosse qualificabile, alla stregua delle categorie proprie della patologia dell’atto amministrativo, come illegittimo o addirittura inesistente), dal momento che quel che rileva, sulla base della effettiva natura del rapporto, è che tale determinazione si è inserita in una sequenza procedimentale che ha visto la cooperazione tanto della Unità sanitaria locale che della Regione Campania (quale ente sovraordinato alla prima) e che ha inciso sul rapporto di convenzionamento, determinandone l’interruzione, in violazione degli obblighi e dei doveri di adempimento propri della relazione contrattuale instauratasi fra le parti, con conseguente alterazione dell’assetto di interessi dalle stesse perseguito e voluto.

Correttamente, pertanto, la corte di merito ha configurato la responsabilità della regione come di natura contrattuale ed ha assoggettato l’azione proposta al termine di prescrizione decennale.

4. Non meritevole di accoglimento è anche il secondo motivo.

Il danno all’immagine, riconosciuto in favore del professionista, non è stato ritenuto, infatti, dalla Corte di merito quale pregiudizio in re ipsa, ma è stato argomentato, con accertamento di fatto plausibile ed in questa sede non sindacabile, tenendo conto dell’ “attività svolta dal professionista” (il quale operava, quale medico specializzato in cardiologia in un piccolo comune del napoletano: v. controricorso), nonchè delle “vicende che condussero alla revoca della convenzione” (e che determinarono l’interruzione del rapporto per oltre un decennio, con conseguente pregiudizio per l’immagine professionale del sanitario, all’interno dell’ambiente di lavoro e della comunità sociale ove lo stesso operava).

Con il che resta escluso che l’intimato si sia sottratto all’onere di provare il pregiudizio sofferto, anche per ciò che riguarda gli aspetti non patrimoniali, la sua natura e le relative caratteristiche, laddove, piuttosto, va rammentato che, con riferimento ai danni non patrimoniali, l’onere probatorio può essere assolto anche a mezzo di elementi presuntivi, mentre la determinazione quantitativa può essere compiuta dal giudice di merito anche in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. (v. ad es. Cass. n. 23744/2008, la quale, fra l’altro, considera come l’art. 432 c.p.c., sembra riferirsi alle prestazioni retributive più che a quelle risarcitorie).

5. Quanto, infine, all’ultimo motivo, lo stesso ben può ritenersi assorbito in quello in precedenza esaminato e, comunque, deve ritenersi inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., ultima parte.

Con tale motivo, infatti, la regione ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti processuali controversi e decisivi per il giudizio, senza che, tuttavia, risulti, per come richiesto dalla norma indicata, un quid pluris rispetto all’illustrazione dei motivi, e cioè una autonoma e sintetica rilevazione dei fatti processuali rispetto ai quali si assume il vizio di motivazione.

Deve, infatti, confermarsi, in aderenza a quanto già ritenuto da questa Suprema Corte, come l’onere imposto in parte qua dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non solo illustrando il motivo, ma anche formulando, al termine di esso e, comunque, in una parte del motivo a ciò espressamente dedicata, una indicazione riassuntiva e sintetica che costituisca un quidpluris rispetto all’illustrazione del ricorso e valga ad evidenziare, in termini immediatamente percepibili, il vizio motivazionale prospettato, e quindi l’ammissibilità del ricorso stesso (cfr. Cass. ord. n. 8897/2008;

Cass. ord. n. 20603/2007; Cass. ord. n. 16002/2007).

6. Il ricorso principale va, pertanto, rigettato, con conseguente assorbimento di quello incidentale condizionato.

Le spese seguono la soccombenza.


P.Q.M

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale condizionato, condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in favore di ciascuna delle parti costituite in Euro 40,00 per esborsi ed in Euro 2500,00 per onorari, oltre a spese generali, I.V.A. e C.P.A..