I congiunti di una donna affetta dal morbo di Alzheimer hanno chiesto la restituzione delle somme versate al Comune per il suo ricovero presso un istituto privato disposto direttamente dall’Ente. Con la sentenza che ha definito il giudizio innanzi al Tribunale, il giudice ha rigettato la loro domanda ed ha accolto la richiesta del Comune di rivalsa per una ulteriore somma vantata in relazione all’assistenza prestata.

Avverso tale decisione è stato proposto appello, all’esito del quale la Corte ha accolto la richiesta dei parenti di restituzione delle somme versate ed ha respinto la pretesa economica avanzata dal Comune nei loro confronti.

 Cassazione Civile – Sez. I; Sent. n. 4558 del 22.03.2012

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Con sentenza depositata in data 8 novembre 2001 II Tribunale di Treviso rigettava la domanda proposta da A., L., G. ed T.I. e tendente alla restituzione di quanto versato al Comune di X. in relazione al ricovero, richiesto da tale ente, di Z.G., affetta dal morbo di Alzheimer, presso l’Istituto X. X. di X. Veneto. Con la stessa decisione veniva altresì accolta la domanda del predetto Comune relativa alla rivalsa, anche ai sensi dell’art. 443 c.c., dell’ulteriore somma di lire 49.677.585, vantata in virtù del medesimo titolo.

Tale decisione si fondava sul rilievo che le prestazioni eseguite nei confronti della Z. avevano carattere sia sanitario che assistenziale e che, in relazione al secondo aspetto, esse gravavano sul Comune solo nell’ipotesi di indigenza della persona assistita:

per tale ragioni, avuto riguardo alla posizione economica dei congiunti, l’ente aveva diritto a surrogarsi in luogo dell’alimentanda e ad agire nei confronti degli obbligati. Tale profilo veniva considerato assorbente rispetto alla questione relativa alla nullità o meno dell’impegno assunto in data 29 giugno 1992 dal sig. T.A. di contribuire in una determinata misura al pagamento della retta nei confronti del Comune, che, avendo richiesto il ricovero della Z., era direttamente tenuto nei confronti dell’I.P.A.B. G.C. al versamento della stessa.

1.1 – La Corte di appello di Venezia, con la decisione indicata in epigrafe, accoglieva l’appello proposto dai T., ritenendo quindi fondata la domanda di ripetizione dagli stessi avanzata e, al contempo, immeritevole di accoglimento la pretesa esercitata in via riconvenzionale dal Comune. Veniva posta in evidenza, alla stregua delle norme contenuta nella L. n. 730 del 1983, art. 30 e del D.P.C.M. 8 agosto 1985, la natura di carattere sanitario delle prestazioni eseguite nei confronti della Z., gravemente affetta dal morbo di Alzheimer e sottoposta a terapie continue, a fronte delle quali le prestazioni di natura non sanitaria assumevano un carattere marginale e accessorio.

1.2 – Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il Comune di X., affidato a quattro motivi, cui le pareti intimate resistono con controricorso.

Sono state presentate memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

2 – Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L.R. Veneto 15 dicembre 1982, n. 55, art. 3, comma 7, (come modificato dalla L.R. Veneto 11 marzo 1986, n. 8), nonchè della L 27 dicembre 1983, n. 730, art. 30, e della L. 3 dicembre 1931, n. 1580, art. 1, commi 1 e 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

omesso esame, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, del D.P.C.M. 8 agosto 1985, art. 6, u.c..

2.1 – Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver la corte di appello considerato la valenza della delibera della Giunta comunale in cui si dava atto della determinazione, da parte della Regione Veneto, delle quote giornaliere di rilievo sanitario, nonchè della comunicazione dell’istituto G.C. in merito alla detrazione dall’ammontare della retta della quota sanitaria stessa.

2.2 – Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 c.c., comma 2 e art. 1325 c.c., n. 2 e art. 1324 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, con riferimento alla ritenuta nullità, per difetto di causa, dell’obbligazione assunta dal T. in data 29 giugno 1992.

2.3 – Con il quarto motivo il Comune lamenta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in merito all’apprezzamento delle risultanze cliniche deponenti nel senso della natura prettamente sanitaria delle prestazioni eseguite nei confronti della Z..

3 – Gli esposti motivi, che, in quanto intimamente connessi sotto il profilo logico-giuridico, vanno esaminati congiuntamente, sono infondati. La pretesa dell’ente territoriale a ben vedere si fonda principalmente sulla scindibilità delle prestazioni di natura sanitaria effettuata nei confronti della paziente ricoverata da quelle, poste a carico del Comune e quindi, di natura meramente assistenziale, virtualmente recuperabili mediante azioni di rivalsa.

Sotto tale profilo viene allegata un’erronea interpretazione della L. n. 730 del 1983, art. 30, alla luce del D.P.C.M. 8 agosto 1985, art. 6, u.c., anche alla luce della L.R. Veneto 15 dicembre 1982, n. 55, come successivamente modificata, che all’art. 3, comma 7, dispone la determinazione annuale, e per singola struttura, delle quote di spesa di rilievo sanitario fornite alle persone non autosufficienti.

3.1 – Non può sottacersi, in primo luogo, l’esigenza di un’interpretazione che tenga conto del nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana: (Corte cost., nn. 455 del 1990; 267 del 1998; 309 del 1999; 509 del 2000; 252 del 2001; 432 del 2005). In tale quadro, ed alla luce del principio affermato, in linea generale, dalla legge di riforma sanitaria, che prevede la erogazione gratuita delle prestazioni a tutti i cittadini, da parte del servizio sanitario nazionale, entro i livelli di assistenza uniformi definiti con il piano sanitario nazionale (L. n. 833 del 1978, artt. 1, 3, 19, 53 e 63), di per sè ostativa a qualsiasi azione di rivalsa (Cass., 26 marzo 2003, n. 4460), la lettura della norma contenuta nella L. n. 730 del 1983, art. 30 deve effettuarsi, per altro in maniera conforme al tenore letterale della disposizione, nel senso di ritenere che gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio assistenziali sono a carico del fondo sanitario nazionale. In tale prospettiva si è consolidato un indirizzo interpretativo del tutto omogeneo, tale da costituire diritto vivente, nel senso che, nel caso in cui oltre alle prestazioni socio assistenziali siano erogate prestazioni sanitarie, l’attività va considerata comunque di rilievo sanitario e, pertanto, di competenza del Servizio Sanitario Nazionale (Cass., Sez. un., 27 gennaio 1993, n. 1003; Cass., 20 novembre 1996, n. 10150; Cass., 25 agosto 1998, n. 8436, proprio in tema di rapporti con la legislazione del Veneto; Cons. St., 31 luglio 2006, n. 4695;

Cons. St., 29 novembre 2004, n. 7766; Cons. St., 16 giugno 2003, n. 3377, TAR Piemonte, 29 aprile 2010, n. 2101).

3.2 – Tale interpretazione, che il collegio condivide ed alla quale intendo dare continuità, è corroborata dalla precisazione fornita nel D.P.C.M. 8 agosto 1985, soprattutto laddove, all’art. 1, definisce attività di rilievo sanitario quelle “che richiedono personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio- assistenziali, purchè siano diretti immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino e si estrinsechino in interventi a sostegno dell’attività sanitaria di cura e/o riabilitazione fisica e psichica del medesimo”.

3.3 – Appare quindi evidente che, ove sussista quella stretta correlazione, nel senso sopra evidenziato, fra prestazioni sanitarie e assistenziali, tale da determinare la totale competenza del servizio sanitario nazionale, non vi sia luogo per una determinazione di quote, nel senso invocato dal Comune ricorrente (con riferimento al citato D.P.C.M. 8 agosto 1985, art. 6, u.c., e della L.R. Veneto n. 55 del 1982, art. 3), che presuppongono una scindibilità delle prestazioni, non ricorrente in ipotesi, come quella in esame, di stretta correlazione con netta prevalenza degli aspetti di natura sanitaria.

3.4 – Alla luce delle superiori considerazioni l’omesso esame dei documenti indicati nel secondo motivo di ricorso (attinenti, per l’appunto, alla determinazione in concreto delle quote suddette) appare affatto privo di decisività.

4 – Quanto alla promessa di pagamento sottoscritta dal sig. T.A. in data 29 giugno 1992, ritiene la Corte che, dovendosi il dispositivo considerare corretto, debba, tuttavia, procedersi a una integrazione – In parte qua – della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c..

Nel documento in questione, come emerge dal ricorso, il predetto, “in relazione al ricovero presso l’istituto C. X. di X. Veneto della moglie Z.G., nata a (OMISSIS), con la presente si impegna a corrispondere al Comune di X., a partire dal 29 luglio 1992, la somma di L. 2.471.130 mensili in conto retta e qualsiasi altra variazione si dovesse verificare in seguito da parte dell’Istituto C. X.”. La Corte di appello, in maniera estremamente sintetica, si è limitata a rilevare che detta “dichiarazione di impegno” ..”proprio in conseguenza di quel disposto di legge manca di causa ed è dunque nulla”.

L’ente ricorrente, con riferimento all’ipotesi dell’integrale ricaduta dell’onere delle prestazioni sul Servizio sanitario nazionale, ha osservato che la fattispecie negozialo in esame non sarebbe comunque priva di causa, essendo comunque l’interesse del dichiarante:’ ad assumere l’altrui obbligazione, mediante – si sostiene – un atto unilaterale, idoneo “ad integrare una meritevole giustificazione economica sociale”.

Il tema viene incentrato sulla ormai desueta nozione di causa come funzione economico-sociale del negozio, omettendosi di considerare che, qualificato il suddetto impegno – come sembra di comprendere – come promessa unilaterale, la stessa, al pari della ricognizione di debito, determina un’astrazione processuale della causa debendi, comportante una relevatio ab onere probandi, per la quale il destinatario della promessa è dispensato dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (Cass., sez. lav., 8 agosto 2007, n. 17423; Cass., sez. 3^, 9 maggio 2007, n. 10574), mentre resta a carico del promittente l’onere di provare l’inesistenza o la invalidità o l’estinzione di detto rapporto (Cass., sez. 3^, 29 settembre 2005, n. 19165; Cass., sez. 11 novembre 2005, n. 22898; Cass., sez. 3, 1 dicembre 2003, n. 18311). Con riferimento a tale impostazione, l’insussistenza del rapporto obbligatorio risulta pacificamente acquisita, trattandosi di prestazioni totalmente a carico del Servizio sanitario nazionale.

Volendo poi accedere, in maniera maggiormente aderente alla fattispecie prospettata e sulla base dei dati emergenti dalla decisione impugnata e dagli scritti difensivi, a una qualificazione giuridica dell’atto – pur consentita in questa sede (Cass. 17 aprile 2007, n. 9143) – in termini di accollo non liberatorio, conclusosi ai sensi dell’art. 1333 c.c., non potrebbe omettersi di rilevare la totale assenza di una reale funzione economica del negozio, vale a dire un difetto genetico della causa intesa come ragione giustificativa, in concreto, del contratto, stante la evidente irrealizzabilità dell’assunzione della obbligazione altrui che risulti, per le considerazioni esposte, assolutamente insussistente (per casi analoghi in tema di causa intesa quale funzione concreta della specifica convenzione negoziale conclusa dai privati, cfr.

Cass. 8 maggio 2006, n. 10490; Cass., 12 novembre 2009, n. 23941).

5 – La questione inerente alla natura sanitaria delle cure complessivamente apprestate alla Z., benchè prospettata sotto il profilo dell’erronea interpretazione delle risultanze processuali e del vizio motivazionale in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, attiene evidentemente al merito della vicenda, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità. Giova in proposito ricordare il principio secondo cui, qualora siano denunciati vizi di motivazione della sentenza oggetto di ricorso per cassazione, la Corte non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. Il controllo di logicità del giudizio di fatto consentito dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quindi, non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice di merito a una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Deriva da quanto precede, pertanto, che è del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere a un nuovo giudizio di merito, attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass., 17 giugno 2009, n. 14098).

Tanto premesso, non può omettersi di rilevare che la sentenza impugnata ha proceduto ad accurata analisi delle patologie che affliggevano la Z., affetta dal morbo di Alzheimer, “con gravissimo deterioramento mentale, disorientamento temporo-spaziale ed assenza di qualsiasi autonomia personale” , ponendo in evidenza, attraverso l’esame della cartella clinica, l’esigenza di un monitoraggio quasi giornaliero per l’accertamento delle sue condizioni e per la definizione della terapia, avuto riguardo anche alla perdita della capacità di deglutizione e alla necessità di nutrizione attraverso un sondino naso-gastrico; alla X. necessità di prevenzione delle piaghe da decubito, ad episodi di fibrillazione atriale e alle compromesse condizioni polmonari:

l’accertamento del carattere prevalentemente sanitario delle prestazioni si sottrae, quindi, a qualsiasi censura sotto il profilo logico-giuridico.

6 – In definitiva, il ricorso deve essere rigettato, ricorrendo giusti motivi, avuto riguardo alla complessità dei temi trattati, per l’integrale compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa interamente fra le parti le spese processuali.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 12 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2012