Il conducente di un’autovettura veniva riconosciuto colpevole di omicidio e lesioni personali colpose gravi perché alla guida della propria autovettura, nell’effettuare un sorpasso in un tratto con linea continua, si scontrava con altro veicolo cagionando la morte di una delle persone a bordo e, appunto, le lesioni fisiche di altre due.

La difesa del conducente insisteva sulla riconduzione del decesso al cambiamento di terapia posto in esssere dai sanitari della struttura di ricovero, tale da interrompere il nesso causale tra l’evento morte e incidente stradale.

Cassazione Penale – Sez. IV; sent. n. 22165 del 16.03.2011

FATTO E DIRITTO

S.O. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, lo ha riconosciuto colpevole di omicidio e lesioni personali colpose gravi plurimi aggravati dalla violazione della normativa in tema di circolazione stradale, perchè alla guida della propria autovettura, nell’effettuare un sorpasso in un tratto con linea continua, si scontrava frontalmente con altra autovettura, sulla quale si trovavano Z.Z. (che decedeva), B.J. e B.Z. (che riportavano lesioni).

Vengono presentati due distinti ricorsi che meritano di essere trattati congiuntamente, anche perchè articolano motivi in parte sostanzialmente identici.

Si censura il giudizio di responsabilità per il decesso della Z., non condividendosi la ritenuta irrilevanza, per interrompere il nesso causale, del comportamento dei sanitari che ebbero a curare, in patria, la donna. Secondo la difesa erroneamente la Corte, recependo altra consulenza tecnica acquisita in atti che aveva concluso per la sussistenza del nesso causale tra la morte e l’incidente stradale, aveva invece disatteso le conclusioni del consulente di ufficio che aveva sostenuto di ricondurre la morte al cambiamento di terapia effettuato dai medici nella Repubblica Ceca:

tale cambiamento doveva invece ritenersi un caso di decorso causale atipico tale da interrompere il nesso causale tra l’evento morte e l’incidente stradale.

Si censura l’affermazione di responsabilità per le lesioni gravi riportate dalle B. (dimesse dall’ospedale con prognosi di soli gg. 28 e gg. 4) sul rilievo che difettava un accertamento tecnico sull’entità effettiva delle lesioni, che la Corte non aveva inteso effettuare, sul rilievo che si trattasse di accertamento “inutile e gravoso”, limitandosi a recepire la documentazione del risarcimento del danno (ove si faceva riferimento ad una durata degli esiti compatibile con la contestazione) e le sit rese dalla B.J., costituitasi parte civile.

Si sostiene l’irritualità della condanna per le lesioni subite dalla B.J., sul rilievo che sarebbe difettata rituale querela, giacchè la delega rilasciata in proposito al marito per la presentazione della querela sarebbe stata, appunto, irrituale.

Infatti sarebbe stata direttamente consegnata ad un ufficiale di p.g.

e non invece presentata ad un agente consolare all’estero, secondo il disposto dell’art. 337 c.p.p.. Per l’effetto, il giudice avrebbe dovuto pronunciare sentenza di non luogo a procedere per difetto di querela relativamente alla posizione della B.J..

Si censura la sentenza per l’erronea applicazione dell’art. 122 c.p. sul presupposto che, in assenza di una valida querela, non era utilmente invocabile l’applicazione della norma citata che si assume inapplicabile nell’ipotesi di concorso formale di reati, come configurabile nel caso in esame.

Si censura il diniego dell’attenuante del risarcimento del danno (art. 62 c.p., n. 6), negata sul rilievo che il risarcimento sarebbe stato effettuato dalla compagnia di assicurazione.

E’ stata depositata una memoria difensiva nell’interesse delle parti civili costituite con la quale sono stati analiticamente contestati i motivi di ricorso, del quale è stato chiesto il rigetto. E’ stata depositata memoria difensiva nell’interesse dell’imputato a sostegno del ricorso con motivi aggiunti. In particolare, con riferimento al terzo motivo di ricorso, afferente la ritualità della querela, si sostiene che la “delega” agli atti, tradotta dall’interprete all’udienza dell’11 marzo 2010, non era un titolo idoneo ex art. 122 c.p.p. ad autorizzare il B. a sporgere querela in nome e per conto della moglie.

Il ricorso è infondato.

Infondata è la censura che prospetta l’interruzione del nesso di causalità tra l’incidente e la morte della Z..

La Corte ha fatto corretta applicazione del principio in forza del quale, nel caso di lesioni personali (nella specie, provocate da incidente stradale) cui sia seguito il decesso della vittima, la colpa dei medici, anche se grave, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente – tale da interrompere il nesso causale ex art. 41 c.p., comma 2, – rispetto al comportamento dell’agente, perchè questi, provocando tale evento (le lesioni), ha reso necessario l’intervento dei sanitari, la cui imperizia o negligenza non costituisce un fatto imprevedibile ed atipico, ma un’ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale (cfr. tra le tante, Sezione 4, 4 ottobre 2006, Lestingi ed altro; cfr. anche Sezione 4, 15 novembre 2007, Magnarelli).

Del resto, con accertamento di fatto supportato da idonea motivazione, la Corte ha ritenuto di recepire quella consulenza tecnica che ha concluso per la positiva sussistenza del nesso causale, spiegando come il decesso della donna fosse dipeso proprio dall’immobilizzazione cui era stata costretta per le lesioni subite che aveva così provocato la patologia (l’embolia) che l’aveva portata alla morte; spiegando, quindi, l’irrilevanza, sotto questo profilo, ai fini del preteso atto interruttivo, della terapia somministrata alla donna in patria.

La censura allora diventa di merito, perchè si risolve, a ben vedere, in una opinabile contestazione sull’apprezzamento valutativo (sulle diverse consulenze mediche) del giudice di merito, che non può essere censurato perchè supportato da adeguata spiegazione razionale.

Anche l’inquadramento delle lesioni come gravi è stato spiegato in modo corretto, attraverso una coerente applicazione del principio del libero convincimento: il giudice ha ritenuto dimostrata l’entità delle lesioni dalle prove documentali e dichiarative acquisite (documentazione dell’assicurazione; dichiarazioni della p.o.), spiegando la ragione per cui non potesse ritenersi satisfattiva la più modesta prognosi formulata in ospedale, che, appunto, come “prognosi”, meritava di essere verificata apprezzando il momento dell’effettiva guarigione. Corretta, allora, la scelta di non effettuare la perizia, che, quale mezzo di prova neutro, è sottratto alla disponibilità delle parti: è noto, infatti, il principio in forza del quale la perizia è mezzo di prova neutro ed è sottratta al potere dispositivo delle parti, che possono attuare il diritto alla prova anche attraverso proprie consulenze, onde la sua assunzione è pertanto rimessa al potere discrezionale del giudice e non è riconducile al concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, anche ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (tra le tante, Sezione 6, 25 novembre 2008, Bretoni, non massimata).

Strettamente connessa alla questione sulla ritualità della querela, è quella pregiudiziale afferente la validità della “delega” “al compimento di tutti gli atti connessi con la querela” rilasciata all’estero da B.J. al marito Ba.Ja., sollevata con i motivi aggiunti e ritenuta fondata dal Procuratore generale in udienza.

Le deduzioni del ricorrente partono dal presupposto che la delega all’estero debba essere legalizzata da parte dell’autorità consolare italiana all’estero o comunque essere conferita a mezzo di notaio in paese aderente alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, formalità non adempiute nel caso in esame. Si sostiene, inoltre, che, pur volendo ritenere che la formalità della legalizzazione dei documenti presso le autorità consolari sia stata superata dalla cosiddetta a postille – introdotta dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 – la delega conferita al marito non risultava essere stata verificata nell’apposizione della apostille dagli unici organi a ciò autorizzati nella Repubblica ceca, ossia il Ministero della Giustizia e/o il Ministero degli Affari esteri.

Sul punto osserva il Collegio che la necessità di apporre la c.d.

apostille alle firme di atti da e per l’estero è stata espressamente esclusa dalla Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1997, resa esecutiva in Italia con L. 24 aprile 1990, n. 106. La convenzione di Bruxelles ha sostituito tra gli stati contraenti le disposizioni degli altri trattati, convenzioni o accordi, relativi alla semplificazione o alla soppressione della legalizzazioni di atti ed ha fatto riferimento specifico agli atti pubblici che, redatti sul territorio di uno Stato contraente, devono essere esibiti sul territorio di un altro Stato contraente; ha precisato (art. 1, comma 2, lett. d) che, per atti pubblici, devono intendersi ai sensi della convenzione anche “le dichiarazioni ufficiali, quali attestati di registrazione, visti per convalida di data ed autenticazioni di sottoscrizioni, apposte su una scrittura privata”; ha aggiunto (art. 3) che la legalizzazione, ai sensi della convenzione, non concerne che la formalità con cui viene attestata l’autenticità della firma, la legale qualità del firmatario dell’atto e, se necessario, l’identità del sigillo o del timbro apposto sull’atto (v. in tema, Sezione 4, 18 febbraio 2009, n.14413, P.C.. in proc. Dafermos, rv.

243880).

In conclusione, per effetto di tale disciplina normativa, da ritenersi vigente ad ogni effetto anche in Italia, non è più necessaria, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, la formalità della c.d. “apostille”, che la citata Convenzione dell’Aja del 1961 all’art. 3, comma 1, prevedeva, come formalità, residua, da apporsi sui documenti da valere fuori dallo Stato in cui sono formati. Tale semplificazione si concreta, pertanto, nell’esonero da qualsiasi forma di legalizzazione o da qualsiasi altra formalità equivalente o analoga.

Tale regime giuridico è applicabile anche al caso in esame giacchè la Repubblica Ceca è uno Stato membro dell’Unione europea e, pertanto, la “delega” in esame deve ritenersi legalmente conferita anche in assenza dell’apostille.

Ciò detto, anche alla luce di quanto in fatto riscontrato dal giudice di merito, che ha proceduto alla traduzione della “delega”, non vi è motivo di dubitare della ritualità della stessa, non risultando, del resto, che le modalità di confezionamento dell’atto (in cui l’autenticità della firma e la legale qualità del firmatario è stata attestata da un funzionario del locale Comune) in quello Stato risultino in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano nella subiecta materia, che consistono, per la scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo accertamento dell’identità del sottoscrittore.

Ciò premesso, nessun vizio è apprezzabile a proposito della ritenuta ritualità della querela (il cui contenuto non è in contestazione, ed è comunque rimesso al giudice di merito): la censura proposta infatti attiene solo alla modalità di presentazione e si basa su una inesatta lettura dell’art. 337 c.p.p..

Al riguardo, non può sostenersi che il soggetto all’estero sia obbligato a presentare la querela presso l’agente consolare, trattandosi di una mera modalità alternativa (basata su un’esigenza di comodità che il legislatore ha voluto soddisfare), ma che non esclude il ricorso alle altre modalità codificate nel codice di rito (come nella specie, a quanto consta, con la presentazione ad un ufficiale di p.g.).

L’accertata ritualità della querela esclude la fondatezza del motivo di ricorso con il quale si censura la violazione dell’art. 122 c.p..

Anche l’ultimo motivo afferente il risarcimento del danno è infondato, pur dovendosi dare atto che la motivazione sul punto è solo parzialmente corretta.

Infatti, contrariamente a quanto affermato in sentenza, è da ritenere che, alla luce dell’interpretazione adeguatrice dell’art. 63 c.p., n. 6, fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 138 del 1998, detta attenuante (da riguardarsi come soggettiva solo relativamente agli effetti mentre, quanto al suo contenuto, è qualificabile come essenzialmente oggettiva), sia riconoscibile anche nel caso in cui il risarcimento sia stato effettuato da un istinto o un’impresa di assicurazione (cfr. Sez. 4, 4 ottobre 2004, n. 46557, Albrizzi, rv. 230195).

Il predetto vizio motivazione non incide però sulla statuizione giacchè per beneficiare dell’attenuante del risarcimento del danno, la riparazione deve essere integrale (v. Sez. 2, 24 marzo 2010, n. 12366, Sola, rv. 246673), e la Corte di merito, con valutazione qui insindacabile, ha escluso la configurabilità di questo presupposto nel caso in esame.

Al rigetto del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite in questo giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè alla rifusione in favore delle parti civili costituite delle spese sostenute per questo giudizio di Cassazione e liquidate in favore di B.J. in Euro 2.000,00, oltre accessori come per legge e per B.Z. e Za.To.

in Euro 3.000,00 oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 1 giugno 2011