Un medico dipendente di una Azienda Sanitaria campana è stato condannato dalla Corte d’Appello di Napoli per i reati di falsità ideologica, peculato e truffa, poiché autorizzato a svolgere attività lavorativa in regime di intra moenia presso il proprio studio, ha omesso di trasmettere alla ASL gli importi di sua spettanza in riferimento a talune somme incassate per le prestazioni eseguite, facendo apparire con false attestazioni incassi inferiori rispetto a quelli percepiti.

Cassazione Penale – Sez. VI; Sent. n. 33150 del 23.08.2012

OSSERVA

1- Con sentenza in data 18-2-08 il Tribunale di Napoli ha condannato X. X., previa esclusione della aggravante di cui all’art. 61, n.9, c.p. contestata sub B), e previa concessione delle attenuanti generiche e di quelle di cui all’art. 323 bis c.p. e 62 n.4 c.p. prevalenti sulle restanti aggravanti, alla pena di anni due di reclusione (con interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena e con entrambi i benefici di legge) per i reati di cui agli artt. 480, 314 e 640 c.p., a lui ascritti ai capi A), B) e C) della rubrica, unificati ex art. 81 cpv c.p.

Con la sentenza indicata in epigrafe (resa in data 11-10-11) la Corte di Appello di Napoli ha confermato la suindicata decisione.

I Giudici di merito hanno premesso che doveva ritenersi accertato in punto di fatto che X. X., medico dipendente della ASL Napoli I, era stato autorizzato con decorrenza dal 3-1-02 a svolgere attività lavorativa in regime di intra moenia presso il proprio studio di via X. in Napoli con rapporto di lavoro esclusivo e che il predetto, nell’ambito di tale rapporto, era tenuto a corrispondere alla ASL di appartenenza parte dei compensi derivanti da detta attività. Avendo il X. omesso di trasmettere alla ASL gli importi di sua spettanza in riferimento a talune somme incassate per prestazioni eseguite in tale studio, facendo apparire con false attestazioni come incassate somme per importi inferiori rispetto a quelle percepite, si era reso responsabile dei reati di falso ideologico e di peculato, contestati ai capi A) e B). Il X., poi, avendo svolto prestazioni professionali anche in altro studio in X. senza la autorizzazione della ASL e senza emettere ricevute di pagamento, aveva indotto in errore l’azienda sanitaria sulle modalità di esercizio della sua attività libero-professionale, procurandosi l’ingiusto profitto consistito nell’incassare gli importi percepiti con danno della ASL pari alla percentuale delle somme che detta azienda avrebbe percepito sui proventi della attività intramuraria e comunque con danno per lo Stato in considerazione della sottrazione alla imposizione fiscale delle somme non certificate dalla ASL in qualità di sostituto di imposta come previsto dall’art. 11 regolamento ASL Napoli 1. Da ciò la affermazione della sua responsabilità anche per il reato di truffa, contestato al capo C)

2- Avverso la suindicata sentenza dell’11-10-11 ha proposto ricorso per cassazione X. X., tramite il suo legale, chiedendone l’annullamento.

Il ricorrente deduce:

              Erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato di peculato contestato sub B). I Giudici di merito avrebbero errato nel concludere (male interpretando l’art. 15 quater D.L. n. 502/92) per la natura pubblica della attività svolta dal medico dipendente del servizio sanitario nazionale in intra moenia cd. “allargata” (in quanto svolta fuori dall’orario di lavoro e al di fuori delle strutture sanitarie). Infatti sarebbero determinanti al fine di individuare la natura privata di detta attività gli artt. 1, 3, 4, 5 e 15 del regolamento emanato dal Direttore Generale della ASL NA I il 14-4-2004, disposizioni che definirebbero tale attività come espressione di un pregresso rapporto fiduciario tra sanitario e paziente, che il primo gestirebbe in proprio e sotto la sua esclusiva responsabilità, e che qualificherebbero l’onorario corrisposto per la prestazione come il corrispettivo dovuto al sanitario per l’intervento terapeutico eseguito in favore del paziente. D’altra parte anche l’orientamento più restrittivo adottato recentemente dalla giurisprudenza di legittimità avrebbe riportato la percentuale del corrispettivo dovuto all’ente all’uso delle attrezzature ospedaliere e non sarebbe applicabile a fattispecie come quella in esame, in cui l’attività sarebbe stata svolta dal sanitario presso il proprio studio professionale e con proprie attrezzature (cd. intra moenia “allargata”). In questa ipotesi, infatti, il mancato ricorso a personale, a locali ed a materiali dell’ente da parte del sanitario non consentirebbe di individuare legittimamente somme, parte del corrispettivo conferito al medico, che siano di spettanza dell’ente. Segnatamente l’obbligo in capo al sanitario di trasferire all’ente parte del proprio compenso, dopo averlo conseguito, non varrebbe a qualificare il medesimo come pecunia pubblica.

              Violazione ed erronea applicazione dell’art. 640, comma 2, c.p. I Giudici di merito avrebbero ricompreso in questa fattispecie la condotta con la quale il X., non autorizzato dall’ente di appartenenza, aveva effettuato prestazioni sanitarie presso lo studio di via Napoli in X.. In realtà la attività posta in essere dal X. in questo caso non sarebbe in alcun modo sussumibile nel paradigma della truffa, in quanta la sua natura assolutamente clandestina avrebbe dovuto impedire di ritenere che il profitto ingiusto percepito dall’agente fosse correlato ad un atto di disposizione dell’ingannato indotto dal comportamento fraudolento altrui.

              Erronea applicazione dell’art. 480 c.p., in quanto, non potendosi, per le ragioni sopra svolte, qualificare come pubblico ufficiale il medico che svolga attività intramoenia “allargata”, non ricorrerebbe il contestato reato di falso in certificati, trattandosi di scritture private perseguite in difetto di condizione di procedibilità.

3- Il primo ed il terzo motivo di ricorso sono infondati.

Questa Corte ha già chiarito che integra il delitto di peculato la condotta del medico il quale, avendo concordato con la struttura ospedaliera lo svolgimento dell’attività libero – professionale consentita dal d.P.R. 20 maggio 1987 n. 270 (cosiddetta intra moenia), e ricevendo per consuetudine dai pazienti (anziché indirizzarli presso gli sportelli di cassa dell’ente) le somme dovute per la sua prestazione, ne ometta il successivo versamento all’azienda sanitaria. Infatti, per quanto la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio non possa essere riferita al professionista che svolga attività intramuraria (la quale è retta da un regime privatistico), detta qualità deve essere attribuita a qualunque pubblico dipendente che le prassi e le consuetudini mettano nelle condizioni di riscuotere e detenere denaro di pertinenza dell’amministrazione (Sez. 6, Sentenza n. 2969 del 06/10/2004. Rv. 231474, Moschi). Nella motivazione di questa sentenza si è, in particolare, precisato che nella specie assumeva rilevanza non già l’attività professionale, ma la virtuale sostituzione del medico ai funzionari amministrativi nell’attività pubblicistica di riscossione dei pagamenti.

Tale orientamento è stato recentemente ribadito in altre decisioni di questa Corte, nelle quali si è specificato che il medico convenzionato, pur non potendosi qualificare dipendente pubblico, riveste la qualità di pubblico ufficiale per la parte della sua attività inerente al versamento delle somme che, in base alle norme vigenti in materia di attività intra moenia, sono dovute alla azienda sanitaria, sicché bene è configurabile il reato di peculato nell’ipotesi in cui tale soggetto si appropri di tali porzioni di somme ricevute dai pazienti (Sez. 6, Sentenza n. 39695 del 17/09/2009, Rv. 245003, Russo)

Questi approdi giurisprudenziali, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, valgono anche in una fattispecie, come quella in esame, di cd. intra moenia “allargata”, in cui il sanitario ha esplicato la sua attività presso il proprio studio professionale e con proprie attrezzature senza fare ricorso a personale, a locali ed a materiali dell’ente di appartenenza.

Infatti, come è già stato chiarito nella prima delle sentenze citate, anche in questo caso la condotta che viene in considerazione non è la attività professionale intramuraria, ma il comportamento successivo ad essa, posto in essere dal medico, che, come nel caso di specie, abbia accumulato somme di denaro, una quota delle quali sicuramente spettanti all’ente pubblico, e se ne sia appropriato. In realtà il X., anche nella sua attività intra moenia “allargata”, non ha fatto altro che percepire il denaro per conto dell’ente pubblico di appartenenza, cui era poi tenuto ad effettuare il versamento, ed essendosi appropriato degli interi incassi in suo possesso, ha pienamente realizzato il reato di peculato a lui contestato, come del resto confermato dall’art. 87 del DPR 270 del 1987 che stabilisce espressamente che i proventi delle attività libero-professionali vengono riscossi dalla amministrazione di appartenenza che deve provvedere ad attribuire ai singoli medici che hanno effettuato le prestazioni la quota-parte di loro spettanza.

In definitiva, l’imputato nel momento in cui si è sostituito all’ente pubblico nel riscuotere le somme pagate dai pazienti, si trovava in possesso di denaro sicuramente (almeno in parte) pubblico e, in questa veste, era sicuramente pubblico ufficiale, trattandosi di incarico in cui egli veniva sostanzialmente a sostituirsi ai funzionari dell’economato nel ricevere i pagamenti degli assistiti, e le somme da lui incassate erano senza dubbio (almeno in parte) possedute per ragioni di ufficio, avendo questa Corte già chiarito che queste ultime devono essere intese in senso lato si da comprendere anche il possesso derivante da prassi o consuetudini invalse in un determinato ufficio (sez. 6, sent. 10-7-00, Vergine; sent. 10-4-01, La Torre).

4- Fondato è invece il secondo motivo di ricorso, anche se per ragioni parzialmente diverse da quelle prospettate dal ricorrente.

I Giudici di merito, come si è visto, hanno ritenuto che il X., avendo svolto prestazioni professionali anche in alto studio in X. senza la autorizzazione della ASL e senza emettere ricevute di pagamento, aveva commesso una truffa ai danni della ASL di appartenenza, da lui indotta in errore sulle modalità di esercizio della sua attività libero-professionale, con un danno per detta Azienda pari alla percentuale delle somme che detto ente avrebbe dovuto percepire sui proventi della attività intramuraria svolta e con danno per lo Stato per la sottrazione delle somme incassate alla imposizione fiscale.

In realtà in base alle descrizioni dei fatti contenute nelle sentenze di merito deve ritenersi accertato che l’imputato abbia svolto attività professionale anche nel suo studio di X., pur non essendovi stato autorizzato, ma nessuna attività fraudolenta risulta essere stata da lui compiuta in riferimento a tali prestazioni, che sono state da lui realmente effettuate. Eventuali falsificazioni documentali sono state poste in essere successivamente dall’imputato e non perfezionano gli artifici o raggiri richiesti dall’art. 640 c.p.

5- Si impone, pertanto, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato di truffa per insussistenza del fatto con conseguente eliminazione della relativa pena di mesi sei di reclusione, nonché il rigetto nel resto del ricorso.

Per questi motivi

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di truffa perché il fatto non sussiste ed elimina la relativa pena di mesi sei di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso.

Cosi deciso in data 29-5-2012.