Ad un medico di medicina generale era stato addebitato di aver prescritto a un proprio assistito, in ragione di alcune patologie sopravvenute, di procedere alla sospensione dei farmaci antiaggreganti che stava assumendo a seguito delle operazioni di impianto di stent medicato e di stent metallico.

Secondo l’imputazione il paziente era stato colpito da una trombosi acuta intracoronarica che ne aveva determinato il decesso. Il MMG è stato assolto in primo e secondo grado per insussistenza del fatto .

Cassazione Penale – Sez. IV; Sent. n. 10626 del 07.03.201

Svolgimento del processo

M.A., nella qualità di parte civile, ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, ha assolto l’imputato MO.Ma. dal reato di omicidio colposo in danno di R.D., X. anni al momento del decesso (condotta tenuta in X., decesso del R. il X.).

All’imputato era stato addebitato, nella qualità di medico di medicina generale, di avere prescritto al paziente R. D. di sospendere l’assunzione di farmaci antiaggreganti che il medesimo stava assumendo a seguito delle operazioni di impianto di stent medicato e di impianto di stent metallico cui era stato sottoposto, in ragione di alcune problematiche patologiche sopravvenute (sanguinamento conseguente ad una cistite acuta).

Per l’effetto, secondo l’imputazione, il paziente era stato colpito da una trombosi acuta intracoronarica che l’aveva condotto alla morte.

In primo grado, il MO. era stato assolto con ampia formula liberatoria (insussistenza del fatto).

Secondo il giudicante non era stata neppure raggiunta la prova del fatto che il medico avesse prescritto al paziente di sospendere a tempo indeterminato l’assunzione di farmaci antiaggreganti.

In ogni caso, con il conforto dei contributi tecnici acquisiti, neppure si poteva affermare come sussistente il nesso causale, sul rilievo che la terapia antiaggregante diminuiva il rischio di morte, ma non lo annullava, cosicchè non poteva sostenersi – con giudizio di adeguata probabilità- cosa sarebbe successo al paziente laddove non avesse sospeso la terapia antiaggregante.

Il giudice di appello confermava la conclusione liberatoria, pur ritenendo dimostrato che vi fosse stata l’indicazione terapeutica del medico di sospendere la terapia anticoagulante.

Tale indicazione, sicuramente colposa, non poteva ritenersi decisivamente rilevante ai fini del decesso, perchè l’indicazione di sospensione era stata data e motivata come eccezionale e contingente ed era stata accompagnata dalla richiesta di invio (su apposito modulo del SSN) del paziente in pronto soccorso. Mentre tale accompagnamento e verifica presso il pronto soccorso non erano seguiti per scelta autonoma del paziente e dei familiari, senza che il medico ne fosse stato informato.

Proprio tale situazione fattuale, secondo il giudice di appello, era intervenuta nella vicenda ponendosi come idonea ad interrompere il rapporto di causalità tra la condotta colposa (il consiglio di sospendere temporaneamente i farmaci anticoagulanti) e il decesso.

Di qui la conferma della conclusione liberatoria, avverso la quale ricorre la parte civile, sostenendo la contraddittorietà e manifesta illogicità della pronuncia. L’indicazione di sospendere i farmaci anticoagulanti, pur accompagnata dall’invito a recarsi al pronto soccorso, doveva ritenersi dimostrativa della responsabilità del medico, che non si sarebbe neppure premurato di fissare un nuovo controllo a distanza di pochi giorni per decidere se sussistevano ancora i presupposti per la sospensione della terapia.

E’ stata depositata ritualmente memoria difensiva nell’interesse dell’imputato con la quale, in primo luogo, si rileva inammissibilità del ricorso sul rilevo che le parti civili non avevano impugnato la sentenza nella parte in cui, in conformità alle conclusioni svolte dal perito d’ufficio, aveva evidenziato che il paziente era deceduto a causa di una trombosi acuta intercoronarica extra stent rispetto alla quale la condotta del Mo. non aveva avuto alcuna incidenza causale. Si evidenzia inoltre la manifesta infondatezza della censura svolta nel ricorso, risolventesi in una diversa interpretazione delle risultanze processuali.

 

Motivi della decisione

 

Il ricorso non può trovare accoglimento a fronte di una decisione satisfattivamente motivata, che risulta in linea con i principi applicabili in materia, sia con riferimento ai poteri coercitivi del medico nei confronti del paziente, sia con riferimento ai principi applicabili in tema di nesso di causalità.

Sotto il primo motivo, risulta indicato e dimostrato in sentenza (e sul punto non può procedersi a rinnovata valutazione) il fatto che il medico abbia indicato in data 9.9.2005 l’invio del paziente al pronto soccorso, compilando l’apposito modulo.

E risulta che il mancato ricorso all’approfondimento specialistico è dipeso da una scelta volontaria del paziente e dei familiari (anche su questo punto è preclusa una rinnovata disamina in punto di fatto).

Si tratta di indicazione precisa che risolve gli obblighi cui il medico di base era tenuto, nel momento in cui, dopo avere disposto la sospensione temporanea e contingente dei farmaci, aveva prevista la necessità dell’intervento di uno specialista e di esami più mirati.

Al medico non si può infatti imporre l’obbligo di pretendere la effettiva verifica di quanto prescritto. Non si può infatti imporre al medico il potere-dovere di procedere ad un’azione impositiva nei confronti di un ammalato capace di intendere e di volere e, qui, (anche) di parenti in grado di intervenire a supporto (cfr. per riferimenti, Sezione 4, 4 luglio 2005, Proc. Rep. Trib. Pordenone in proc. Da Re).

I casi di trattamento sanitario obbligatorio sono tipici e tassativi (cfr. la L. 13 maggio 1978, n. 180, art. 2; cfr., del resto, anche la L. 23 dicembre 1978, n. 833, artt. 33 e 34), discendendone, in modo coerente, che l’indicazione del medico di seguire un determinato percorso terapeutico, in assenza di tali tassative condizioni, è rimessa alla scelta libera del paziente.

Non censurabile è anche l’apprezzamento sulla valenza interruttiva della scelta del paziente di non recarsi al pronto soccorso.

Come è noto, ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l’evento (art. 41 c.p., comma 2), il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento non si riferisce solo al caso di un processo causale del tutto autonomo, giacchè, allora, la disposizione sarebbe pressochè inutile, in quanto all’esclusione del rapporto causale si perverrebbe comunque sulla base del principio condizionalistico o dell’equivalenza delle cause di cui all’art. 41 c.p., comma 1.

La norma, invece, si applica anche nel caso di un processo non completamente avulso dall’antecedente, ma “sufficiente” a determinare l’evento, nel senso che, in tal caso, la condotta dell’agente degrada da causa a mera occasione dell’evento: ciò che si verifica allorquando ci si trova in presenza di una causa sopravvenuta che, pur ricollegandosi causalmente all’azione o all’omissione dell’agente, si presenta con carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia come un fattore che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.

L’apprezzamento sulla natura eccezionale ed imprevedibile del fatto sopravvenuto è accertamento devoluto al giudice di merito che deve logicamente motivare il suo convincimento sul punto (v. Sezione 4, 11 luglio 2007, Tamborini, rv. 237659, e, di recente, Sezione 4, 20 settembre 2012, Montanaro, non massimata).

Qui, il ragionamento del giudice circa la valenza interruttiva rappresentata dalla mancata determinazione di recarsi in pronto soccorso riconducibile al paziente è in linea con questo principio.

A ciò dovendosi aggiungere il rilievo, valorizzato dal giudice di primo grado, che neppure risultava dimostrato, con adeguata certezza probatoria, il collegamento tra la sospensione del farmaco e la patologia che aveva portato al decesso del paziente.

Per l’effetto, certamente non poteva articolarsi l’addebito a carico del sanitario, proprio per l’assenza di elementi certi in grado di ricollegare il comportamento del sanitario all’evento dannoso per il paziente.

Al rigetto del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali