La mancanza di consenso può assumere rilievo, a fini risarcitori, benché non sussista lesione della salute o se la lesione della salute non sia causalmente collegabile alla lesione di quel diritto, nella ipotesi in cui siano configurabili conseguenze pregiudizievoli di apprezzabile gravità, derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso considerato.

Qualora il paziente non sia stato adeguatamente informato, infatti, si ingenerano manifestazioni di turbamento di intensità proporzionali alla gravità delle conseguenze verificatesi e non prospettate che configurano danno non patrimoniale che, nella prevalenza dei casi, costituisce l’effetto del mancato rispetto dell’obbligo di informare. Anche in caso di sola violazione del diritto all’autodeterminazione senza che sia configurabile lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato l’intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito, può sussistere uno spazio risarcitorio e il relativo onere probatorio, che grava sul paziente, è suscettibile di essere soddisfatto anche mediante presunzioni.

Tribunale di Roma – Sez. XIII; Sent. n. 17769 del 03.09.2013

Assumeva parte attrice.

L.M., madre di B.S. e P.V., la seconda avuta dalla relazione con P.B., a seguito di sanguinamento nasale e forte emicrania, il 6 dicembre 2002, si era recata presso il pronto soccorso dell’Ospedale S. Eugenio, in Roma.

Ricevuta diagnosi di “flogosi purulenta con necrosi parcellare del setto nasale e cartilaginea del turbinato inferiore”, eseguita visita specialistica e accertamenti strumentali, per l’insorgenza di arrossamenti cutanei a livello del collo e dell’emivolto sinistro, di edema palpebrale con dolore e offuscamento di visus, era tornata presso il pronto soccorso dell’Ospedale S. Eugenio, dove le era stata diagnosticata possibile reazione allergica ai mezzi di contrasto applicati in occasione degli accertamenti diagnostici eseguiti presso diverso nosocomio, quindi, in data 25 dicembre 2002, ricoverata presso detto ospedale, nell’aggravarsi delle condizioni di salute(nonostante la somministrazione di terapia antibiotica e cortisonica) e nella incertezza della diagnosti 13 febbraio 2003 era stata, comunque, dimessa.

Nonostante la terapia domiciliare, le condizioni continuavano ad aggravarsi pertanto veniva ricoverata presso il Policlinico Umberto I di Roma, il 20 marzo 2003;sottoposta a numerosi accertamenti e dimessa il 4 aprile 2003, con diagnosi di “granulomatosi di Wegener” e prescrizione di terapia domiciliare.

Nel peggiorare delle condizioni, era nuovamente ricoverata;sottoposta a valutazione e cura, senza esito alcuno quindi, presso l’Ospedale di Niguarda, riceveva diversa diagnosi di Cusching iatrogeno.

Ciò detto, aggiunto che l’errato trattamento ricevuto aveva determinato, oltre a considerevoli disagi dal prolungarsi della cura e da necessità di essere sottoposta, la L.M., a numerose accertamenti diagnostici nonché intossicazione da farmaci, conseguenti crisi di astinenza e sensibile aumento ponderale che aveva richiesto la esecuzione di intervento chirurgico di addomino plastica, concludeva per l’accertamento della errata prestazione professionale con riguardo alla errata diagnosi alla conseguita errata cura (sovradimensionata e invasiva);alla sottoposizione a indagini invasive e alla mancata rappresentazione dei rischi della prestazione; della responsabilità dei convenuti, A.L., quale direttore della II divisione di Medicina dell’ospedale S. Eugenio, e il V.G., quale direttore del Dipartimento di Clinica e Terapia Medica Applicata, Cattedra di Reumatologia del Policlinico Umberto I di Roma e per la condanna, degli stessi al risarcimento dei danni non patrimoniali, conseguiti anche ai familiari patrimoniali, con favore delle spese di lite.

Si costituiva l’A.L..

Contestava, in fatto e in diritto, la domanda attorea, di cui chiedeva il rigetto, con favore delle spese di lite.

In particolare.

Eccepiva la intervenuta prescrizione.

Deduceva la correttezza della prestazione professionale il cui esito assumeva essere stato compromesso dalla reticenza, della paziente, in ordine al pregresso e importante quadro patologico dal quale era affettai dalla volontaria interruzione della cura, da parte della medesima pazienterà quale, nonostante il quadro clinico in netto miglioramento, aveva ritenuto di non sottoporsi ai prescritti controlli e di non comunicare l’esito dei disposti ulteriori accertamenti, con conseguente interruzione, di qualsivoglia nesso causale, tra la prestazione professionale ricevuta e le lamentate lesioni.

Chiedeva, e in tal senso era autorizzatoci chiamare in causa la Zurich Insurance Company S.p.a., che Io garantiva per la responsabilità civile nei confronti di terzi e, nei confronti della quale, proponeva domanda di garanzia impropria.

Si costituiva il V.G..

Contestava, in fatto e in diritto, la domanda attorea, di cui chiedeva il rigetto, con favore delle spese di lite.

In particolare deduceva.

La diagnosi resa alla paziente, era confortata dalla diagnosi già ricevuta presso l’Ospedale S. Eugenio e presso la Divisione di Ematologia dello stesso Policlinico Umberto I; in ragione del quadro clinico evidenziato, non era possibile diagnosi alternativa;la cura prescritta aveva visto parziale remissione della sintomatologia e parziale successo terapeutico, le informazioni circa la prestazione professionale, erano complete.

Chiedeva, e in tal senso era autorizzatoci chiamare in causa Aurora Assicurazioni S.p.a. che, per polizza n. 64497622, in data 24 dicembre 2002, lo garantiva dal rischio per responsabilità civile verso terzi e nei confronti della quale proponeva domanda di garanzia impropria.

Si costituiva l’Azienda Unità Sanitaria Locale Roma C.

Contestava, in fatto e in diritto, la domanda attorea, di cui chiedeva il rigetto, con favore delle spese di lite.

In particolare deduceva.

La diagnosi di granulomatosi di Wegener, sulla quale fondava la domanda, era stata espressa sia dal Policlinico Umberto I che nel corso del ricovero presso l’Ospedale S. Eugenio; all’epoca della prestazione professionale, non avrebbe potuto essere fatta diagnosi diversa, in ragione del complicato quadro clinico che presentava la paziente (reduce da una Tac eseguita presso diverso nosocomio) ed essendosi limitato, l’A.L., ad assumere un orientamento terapeutico che per altro aveva portato a buoni risultati clinici.

Contestava, poi, la misura di danno azionata.

Chiedeva, e in tal senso era autorizzataci chiamare in giudizio Ina Assitalia S.p.a., nei confronti della quale, proponeva domanda di garanzia impropria.

Si costituiva l’Azienda Policlinico Umberto I.

Contestava, in fatto e in diritto la domanda attorea, di cui chiedeva il rigetto.

In particolare deduceva la correttezza della diagnosi e della cura che non poteva ritenersi in contrasto con quella ricevuta presso l’ospedale milanese, a dire della parte attrice “corretta” 4, e che aveva determinato un miglioramento del complesso quadro clinico presentato dalla paziente allorquando, il 7 giugno 2006, la paziente aveva interrotto, unilateralmente prestazione professionale.

Assumeva la completezza della informazione prestata al fine della acquisizione del consenso alla terapia e alle indagini.

Richiamava principi generali in punto di onere della prova anche in ordine al lamentato danno.

Su chiamata dell’A.L., si costituiva Zurich Insurance Company S.A., Rappresentanza Generale per l’Italia.

Eccepiva la tardività della istanza di chiamata.

Eccepiva la inoperatività della polizza con riguardo ai seguenti profili:

Sinistro verificatosi al di fuori della copertura assicurativa.

Mancata copertura per la responsabilità da omessa informazione sui rischi della prestazione.

Mancata copertura delle spese legali.

Operatività a secondo rischio.

I subordine escludeva la copertura per obblighi solidali e chiedeva accertarsi, in concretala quota di responsabilità gravante sull’assicurato.

Eccepiva la prescrizione degli obblighi risarcitoli per decorrenza del termine quinquennale di cui all’art. 2947 c.c.

Contestava la censurabilità della prestazione professionale ricevuta dalla paziente per altro invalida civile al 100% proprio per diagnosi di Granulomatosi di Wegener.

Su chiamata del V.G., si costituiva UGF.

Assumeva la copertura a secondo rischio rispetto alla assicurazione stipulata dall’azienda ospedaliera per CCNL dei medici .

Eccepiva la mancata copertura dei danni di natura estetica e fisiognomica.

Contestava la censurabilità della prestazione professionale dell’assicurato e la misura di danno azionata.

Su chiamata della azienda sanitaria Roma C, si costituiva Ina Assitalia S.p.a..

Contestava la configurabilità di qualsivoglia responsabilità a carico della propria assicurata e la misura di danno azionata da parte attrice.

Quanto al contratto assicurativo, polizza n. …omissis…

Eccepiva la partecipazione a rischio di Assitalia (50%), Ras (25%) e Generali Assicurazioni (25%) e la esclusione della solidarietà anche per le quote di responsabilità riferibili a diversi soggetti ritenuti responsabili.

Richiamava il massimale di polizza e la clausola “Claims Made”

Concessi i termini di cui all’ art.183 VI comma c.p.a. ed espletata la istruttoria, le parti costituite, all’udienza del 4 aprile 2013 precisavano le rispettive conclusioni quindi il Giudice, previa concessione dei termini per le memorie conclusionali e di replica, tratteneva in decisione la causa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Oggetto dell’odierno decidere è la responsabilità professionale medica dei convenuti, dedotta, da parte attrice, per le prestazioni di cui alle premesse in fatto, sotto il profilo della errata diagnosi, errata cura e mancata preventiva rappresentazione dei rischi connessi alla prestazione eseguita nonché i conseguenti obblighi risarcitola carico dei professionisti e delle strutture ospedaliere nelle quali erano strutturati all’epoca dei fatti.

L’accoglimento della domanda impone la prova delle seguenti circostanze:

la prova del contratto professionale;

l’inesattezza dell’adempimento;

l’aggravamento della situazione preesistente (o l’insorgenza di una nuova patologia), quale conseguenza dell’azione (o omissione) del sanitario .

Quanto alla distribuzione dell’onere della prova tra il danneggiato ed il danneggiante, trattandosi di responsabilità contrattuale, in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c., deve ritenersi essere a carico del danneggiato la prova dell’esistenza del contratto e dell’inesattezza dell’adempimento (come aggravamento della situazione patologica o come insorgenza di nuove patologie) nonché del nesso di causalità con l’azione o l’omissione del sanitario , restando a carico del sanitario la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile (cfr. C. Cass. sez. Ili sent. n. 12362 del 24 maggio 2006).

Nel concreto, parte attrice non ha assolto al proprio onere di provare i fatti posti a fondamento della propria domanda.

Seppure la esistenza del rapporto contrattuale, non è in contestazione tra le parti e, in ogni caso, emerge dalla documentazione in atti, la inesattezza della prestazione ed il nesso di causalità tra i danni lamentati da L.M. e le cure, alla medesima prestate dall’A.L. e dal V.G., presso l’Ospedale S. Eugenio di Roma e il Policlinico Umberto I di Roma, non trovano sostegno probatorio nelle argomentazioni e nelle conclusioni della CTU e dei chiarimenti resi su note tecniche trasmesse dalle parti, CTU e note di chiarimento che, immuni da vizi logici e/o giuridici, devono recepirsi, integralmente, nelle argomentazioni e conclusioni.

Come da CTU, la vicenda va ricostruita come di seguito.

Il 6 dicembre 2002, la L.M. si recava, per una infiammazione nasale, presso. l’Ospedale S. Eugenio, dove riceveva diagnosi di dimissione di “flogosi purulenta con necrosi parcellare del setto nasale cartilagineo e del turbinato inferiore”.

Il 24 dicembre 2002, si sottoponeva, presso diverso nosocomio, a studio TC delle cavità nasali, con somministrazione di mezzo di contrasto, in esito al quale, comparsi prurito al collo, dolore all’orbita destra e offuscamento del visus, si recava, di nuovo, presso il pronto soccorso dell’Ospedale S. Eugenio che, in un primo momento lasciava (rifiutando le cure) e dove si recava nuovamente, dopo poco nel, persistere dei sintomi, venendo ricoverata presso la Unità Ospedaliera Complessa di Medicina Indiretta dall’A.L., sottoposta a numerosi accertamenti e dalla quale era dimessaci 13 febbraio 2003, con diagnosi di “episodio vasculitico indotto verosimilmente da somministrazione di mezzo di contrasto iodato in paziente affetta da infezione cronica necrotizzante delle prime vie respiratorie” con prescrizione di terapia e controllo ambulatoriale a distanza di sei giorni, al quale, la paziente, non risulta essersi presentata.

Alla successiva comparsa di edema agli arti inferiori, cianosi e vescicola acquosa alla caviglia destra, si ricoverava presso l’Istituto di Ematologia della Università La Sapienza di Roma (Policlinico Umberto I), dal quale era dimessaci 27 febbraio 2003, con prescrizione di terapia alla quale conseguiva un beneficio iniziale.

Alla ricomparsa della riduzione del visus atralgie diffuse e lesioni eritematose puntiformi degli arti, il 20 marzo 2003, si ricoverava presso l’Istituto di Reumatologia della Università La Sapienza (Policlinico Umberto Indiretto dal V.G., per sospetta vasculite sistemica.

In occasione di tale ultimo ricovero, sulla paziente, all’esame obbiettivo, si rilevava “lesione crostosa sovrammalleolare dx e lesioni vasculitiche degli arti inferiori e delle avambracci, dolorabilità delle ginocchia e delle caviglie”.

Sottoposta, nel corso del ricovero, a numerose indagini, il 4 aprile 2003, era dimessa con diagnosi “granulomatosi dì Wegener”, prescrizione di terapia, invito a recarsi in reparto per prendere conoscenza dell’esito degli esami alla quale era stata sottoposta e appuntamento per nuova somministrazione.

Il 14 aprile 2004, nell’aggravamento del quadro clinico per comparsa di lesioni tipo porpora sul tronco e sugli arti, per la ricomparsa di rinorrea, atralgie, edema delle caviglie e discromia delle mani, si sottoponeva a nuovo ricovero presso detto Istituto di Reumatologia, nel corso del quale era sottoposta a terapia medica e dal quale era dimessa il 15 maggio 2003. Nel corso di ulteriore ricovero presso il medesimo Istituto, (da 5 al 6 giugno 2003), era sottoposta a indagini strumentali che risultavano nella norma e, alla dimissione, era programmato, per il 13 giugno successivo, nuovo ciclo terapeutico.

Il 19 settembre 2003, la L.M. era ricoverata presso l’Ospedale Niguarda Cà Granda, di Milano, dove veniva diagnosticata comparsa di Cushing e incremento ponderale di circa 50 kg, persistenza di dolori osteo articolari diffusi, necessità di assunzione di antidolorifici e sottoposta a nuove indagini.

In sede di valutazione dermatologica riceveva diagnosi di “Malattia di Wegener difficilmente supportabile in base ai reperti istologici, lesioni cutanee eritematose bollose ad evoluzione ulcerativa, rotondeggianti con esito cicatriziale compatibili con vasculite necrotizzante secondaria” e, il 4 ottobre 2003, era dimessa con diagnosi di “M.di Cushing iatrogeno, vasculite cutanea e mucosa in accertamento e con terapia steroidea a scalare con previsione di nuovo ricovero a breve distanza”, nuovo ricovero, di fatto, avvenuto, dal 16 al 31 ottobre 2010, nel corso del quale veniva segnalata evoluzione del quadro clinico e presenza di nuove lesioni vescicolo bollose, in fase di escara, al torace, e più piccole agli arti inferiori ed era sottoposta a biopsia osteomidollare e cutanea che evidenziò “vasculite necrotizzante” e in esito al quale era dimessa con diagnosi di “vasculite cutanea in corso di accertamenti. Morbo di Cusching iatrogeno. Sindrome ansioso depressiva. Infezione delle vie urinarie” e prescrizione farmacologica.

Ciò detto.

Come da CTU, deve ritenersi che, al dicembre 2002 (epoca del ricovero presso l’Ospedale S. Eugenio, prima, e presso il Policlinico Umberto I, dopo), la L.M. presentava un quadro clinico da considerarsi, per andamento ed evoluzione, “vasculite” panca che, per le sue caratteristiche cliniche, potrebbe essere classificata come M. di Wegener, Sindrome Cusbing o poliangite microscopica.

La scarsa tipicità del quadro clinico, in associazione ai dati emersi dai numerosissimi accertamenti espletati nel corso dei ricoveri, deve ritenersi che non consentisse una specificazione del sottotipo.

La diagnosi di Granulomatosi di Wegener, dunque, è una delle possibili nell’ambito della vasculite pANCA-associata, da cui la L.M. era affetta, e deve ritenersi corretta, anche nella impossibilità di stabilire se, nel concreto, si trattasse di Granulomatosi di Wegener (diagnosticata) o altra vasculite pANCA correlata.

Dunque non va ritenuto il dedotto “errore diagnostico” ma solo una carenza di specificazione del sottotipo di vasculite pANCA associata, non consentita dai dati in possesso dei medici .

In ogni caso, la terapia delle vasculiti pANCA associate, è univoca, con conseguente sostanziale irrilevanza della classificazione.

Il trattamento a base di cortisonici, immuno-depressori, sulfametossazolo-trimetoprim, al quale la L.M. è stata sottopostala l’unico possibile.

I tempi medi di rimessione, sono di dodici mesi e non erano intercorsi, tenuto conto dell’epoca del primo ricovero presso l’Ospedale S. Eugenio e il mese di settembre 2003 nel quale, a dire della stessa L.M., si è riscontrato un miglioramento delle condizioni generali la conseguenza che una remissione della patologia, non era richiedibile quale esito della prestazione, nel limitato arco temporale nel corso del quale la L.M. è stata trattata dal S. Eugenio prima e dal Policlinico Umberto I poi.

L’uso dei farmaci, come accertato, ripetesi, è giustificato ed è associato ad un rischio elevato che si sviluppi il morbo di Cushing, dal quale la L.M. è risultata essere affetta.

Gli effetti collaterali, pur accertati, non erano evitabili da parte dei sanitari .

I sanitari , erano in possesso delle competenze specifiche per trattare il caso.

Per altro verso.

Al trattamento, non sono derivati postumi diversi da quelli normalmente riconducibili alla patologia da cui era affetta la L.M., neppure come tempi di rimessione della patologia che, ripetesi, sono stati pienamente rispettati nel complesso del trattamento eseguito.

Ciò detto, la prestazione professionale non è censurabile, in maniera significativa e rilevante (al di là della mancata tipizzazione della vasculite pAnca) né con riguardo alla diagnosi né con riguardo al trattamento della malattia.

Quanto alle censure mosse alla prestazione e aventi ad oggetto la mancata informazione sulla cura e sulle possibili conseguenze della stessa.

La responsabilità, sotto questo profilo, è stata argomentata, genericamente, come violazione del diritto alla autodeterminazione e come causa di grave danno riportato dalla paziente.

A tal fine, si osserva.

La mancanza di consenso può assumere rilievo, a fini risarcitori, benché non sussista lesione della salute (ipotesi astrattamente ricorrente) o se la lesione della salute non sia causalmente collegabile alla lesione di quel diritto, nella ipotesi in cui siano configurabili conseguenze pregiudizievoli (di apprezzabile gravità, se integranti un danno non patrimoniale), derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso considerato.

Qualora il paziente non sia stato adeguatamente informato, infatti, si ingenerano manifestazioni di turbamento di intensità, proporzionali alla gravità delle conseguente verificatesi e non prospettate come possibili tale turbamento, configura il danno non patrimoniale che, nella prevalenza dei casi, costituisce l’effetto del mancato rispetto dell’obbligo di informare il paziente.

Anche in caso di sola violazione del diritto all’autodeterminazione (dunque senza che sia configurabile lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato l’intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito) può sussistere uno spazio risarcitorio e il relativo onere probatorio, che grava sul paziente, è suscettibile di essere soddisfatto anche mediante presunzioni.

Tale onere trova la propria giustificazione, nelle seguenti considerazioni:

a) la prova di nesso causale tra inadempimento e danno compete alla parte che alleghi l’inadempimento altrui e pretenda, per questori risarcimento;

b) il fatto positivo da provare, è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico e trattandosi di stabilire in quale senso si sarebbe orientata la scelta soggettiva del paziente, il criterio di distribuzione dell’onere probatorio, risente del principio generale della “vicinanza”;

c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di opportunità del medico , costituisce una eccezione rispetto al quod plerumque, accidit.

Nel concreto, e vertendosi in ipotesi in cui, alla prestazione professionale, non è esitato un peggioramento delle condizioni psico fisiche della paziente rispetto a quelle riconducibili alla patologia di cui ella era affetta.

Che la cura e le indagini diagnostiche sarebbero state rifiutate dalla paziente ove i medici le avessero puntualmente rappresentato le modalità e le sue possibili conseguenze, non è stato dedotto dalla parte e, in ogni caso, non è stato accertato in esito alla istruttoria.

In tal senso, le seguenti considerazioni.

Non esisteva una alternativa terapeutica a quella prescritta.

Il quadro clinico si evidenziava ingravescente.

La L.M. si è sottoposta alla cura prescritta dall’ospedale milanese basata, sostanzialmente, sui medesimi principi attivi (cortisonici, antibiotici, antidolorifici, antiinfiammatori e altro) sui quali era fondata la cura prescritta dai medici che la ebbero in cura presso 1′ Ospedale S. Eugenio prima, e presso il Policlinico Umberto I, poi, seppure con dosaggi diversi come da protocolli per le assunzione di cortisonici e legati ai diverso stadio del quadro clinico (in miglioramento).

Ciò detto, anche tale ulteriore profilo di responsabilità va disatteso.

Si compensano, tra le parta le spese di lite, in ragione della mancata prova della adeguata informazione preventiva in ordine alle possibili conseguenze della cura, alla mancata classificazione della vasculite accertata che pure può aver sostenuto il convincimento della L.M. della responsabilità dei convenuti nonché all’interesse autonomo, delle imprese di assicurazione, di prendere parte al giudizio di accertamento di responsabilità a carico dell’assicurato.

Le spese di CTU seguono la soccombenza e si liquidano in euro 1.200,00 complessivi, come da acconto.

P.Q.M.

Il giudice, definitivamente pronunciando sulle domande come in atti proposte, ogni diversa istanza disattesa, così provvede.

1) Rigetta la domanda di L.M. e P.B., entrambi in proprio e n.q. di esercente la potestà sulla minore P.V. nonché di B.S., nei confronti di A.L., V.G., Azienda Unità Sanitaria Locale Roma C, in persona del l.r.p.t. e Azienda Policlinico Umberto I di Roma, in persona del l.r.p.t;

2) Compensa tra le parti le spese di lite.

3) Le spese di CTU si liquidano in euro 1.200, 00 complessivi e vanno poste a carico della parte attrice.

Roma li 15 luglio 2013