Gli eredi di un paziente ottenevano con sentenza il risarcimento dei danni loro derivati dalla morte del congiunto causata, secondo la loro tesi, dalla somministrazione in dosi eccessive di un farmaco anticoagulante che aveva determinato l’insorgere di un’emorragia interna rivelatasi fatale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 26-05-2014, n. 11637

Svolgimento del processo

1. Gli eredi del defunto C.A. convenivano in giudizio, davanti al Tribunale di Milano, il dott. M.G., chiedendo che fosse condannato al risarcimento dei danni loro derivati dalla morte del congiunto causata, secondo l’assunto degli attori, dalla somministrazione in dosi eccessive di un farmaco anticoagulante (Coumadin) che aveva determinato l’insorgere di un’emorragia interna rivelatasi poi fatale.

Si costituiva in giudizio il professionista, sostenendo, fra l’altro, che il C. doveva aver assunto dosi del farmaco diverse da quelle da lui prescritte, con conseguente inesistenza di ogni responsabilità medica.

Il Tribunale, svolta istruttoria per testi ed espletata una c.t.u., riconosceva la responsabilità professionale del dott. M. nella misura di due terzi e, ponendo il residuo terzo a carico del C., condannava il medico al pagamento in favore della vedova D.G. della somma di Euro 140.000, nonchè della somma di Euro 100.000 a favore di ciascuno dei figli ( C.R. e M.), con interessi, rivalutazione e con il carico delle spese.

2. La sentenza veniva appellata dal dott. M. in via principale e dagli eredi del C. in via incidentale.

La Corte d’appello di Milano, con pronuncia del 29 giugno 2009, respingeva l’appello principale, accoglieva quello incidentale e condannava il dott. M. al pagamento delle maggiori somme di Euro 200.000 a favore della D. e di Euro 150.000 a favore di ciascuno dei figli, con l’ulteriore carico delle spese del grado.

Osservava la Corte territoriale che il dott. M. aveva fondatamente lamentato il fatto che il Tribunale avesse pronunciato la sentenza di condanna sulla base di una causa petendi diversa da quella originaria; mentre gli attori avevano individuato in citazione la colpa professionale nell’erronea prescrizione del Coumadin, il Tribunale era pervenuto alla condanna sulla base del fatto – completamente diverso – che il medico non aveva fornito adeguate informazioni al paziente su come seguire le sue prescrizioni ed aveva poi omesso di seguire il C. con l’attenzione e la precisione che la delicatezza del caso richiedeva.

Tuttavia, nonostante la fondatezza di tale doglianza, la condanna del dott. M. doveva essere confermata, per di più per una somma maggiore, in integrale accoglimento della domanda originariamente proposta.

Secondo la Corte di merito, il Tribunale, facendo corretta applicazione dei principi in tema di onere della prova, avrebbe dovuto trarre “le inevitabili conseguenze del mancato assolvimento dell’onere probatorio incombente sul professionista”. Infatti, una volta allegato l’inadempimento consistente nell’errata prescrizione del farmaco, era onere del convenuto “dimostrare di avere invece tenuto una prestazione corretta”, cosa che non era avvenuta. Doveva ritenersi pacifico che il C., dopo una precedente operazione, era stato dimesso con prescrizione di terapia anticoagulante; che era stato seguito dal suo medico, il dott. M., dal 1 giugno 2000 al 4 luglio 2000, e che la morte del paziente, avvenuta il 7 luglio 2000, era da ricondurre ad emorragia conseguente al sovradosaggio del Coumadin. Richiamando, quindi, ampi stralci della relazione del c.t.u., la Corte milanese perveniva alla conclusione che non era possibile accertare con sicurezza se fosse credibile la tesi dei familiari del C. o quella – in larga misura opposta – fornita dal medico. Ma proprio tale incertezza avrebbe dovuto condurre il Tribunale a fare applicazione delle regole generali in tema di onere della prova;

sicchè era il dott. M. a dover dimostrare – trattandosi di responsabilità contrattuale – di aver correttamente adempiuto la propria prestazione. E tale prova era, nella specie, mancata, non avendo il professionista dimostrato la correttezza delle prescrizioni da lui consegnate al paziente o ai familiari dello stesso. Non vi era, poi, la possibilità di diminuire la responsabilità del dott. M. per un’ipotetica colpa concorrente del C., “stante l’assoluta prevalenza ed autonomia causale del comportamento commissivo del dott. M. nella produzione dell’evento letale”.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Milano propone ricorso principale il dott. M.G., con atto affidato a tre motivi.

Resistono con controricorso D.G. e C.R. C., con un unico atto contenente ricorso incidentale condizionato su un motivo.

Il dott. M. resiste con controricorso al ricorso incidentale.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione alla condotta del dott. M. nel corso della terapia e, dunque, f, nell’adempimento dell’obbligazione professionale; nonchè violazione di legge, in relazione agliartt. 1218 e 2697 c.c..

Rileva il ricorrente che la sentenza impugnata ha riconosciuto la sua responsabilità sulla base di un fatto commissivo e non di un fatto omissivo; ciò in quanto la morte del C. sarebbe stata determinata da un sovradosaggio del farmaco Coumadin. Tale ricostruzione, però, non consentirebbe di comprendere i motivi sui quali la Corte d’appello fonda la propria decisione. In particolare, la sentenza non avrebbe riconosciuto alcun valore probatorio al diario clinico prodotto dal dott. M. a supporto della propria attività; non avrebbe considerato che il paziente non si era sottoposto a tutti i controlli che gli erano stati consigliati; non avrebbe valutato il fatto che il medico, dopo aver avuto notizia che il valore ematico dell’INR era elevato, aveva disposto il dimezzamento della dose giornaliera del farmaco; nè avrebbe considerato il fatto che il dott. M. aveva disposto, in data 5 luglio 2000, il ricovero del C. presso il centro di coagulazione dell’ospedale (OMISSIS).

La sentenza, inoltre, avrebbe fatto un’applicazione assurda del principio dell’onere della prova, finendo per condannare il medico “per non essere riuscito a provare che le circostanze poste dagli eredi del C. a fondamento della loro domanda fossero del tutto infondate e non provate”.

1.2. Il motivo non è fondato.

Occorre innanzitutto rilevare che esso si compone di due censure, una di violazione di legge e l’altra di vizio di motivazione. La prima censura, però, è in realtà sviluppata solo attraverso la seconda, perchè la violazione delle regole in tema di onere della prova nella responsabilità contrattuale dovrebbe emergere – secondo il ragionamento del ricorrente – dalla diversa valutazione da attribuire a tutta una serie di circostanze di fatto.

Dalla lettura della sentenza impugnata emerge che il giudice d’appello ha dato per pacifico che il decesso del paziente si fosse verificato per sovradosaggio del farmaco anticoagulante (colpa commissiva) ed ha individuato il punto decisivo nel dilemma relativo all’onere della prova, osservando che si trattava di stabilire se il sovradosaggio fosse ascrivibile a colpa del medico o se questi, viceversa, avesse dimostrato che non era a lui imputabile. E poichè, anche dall’esame della c.t.u., permanevano dubbi sull’effettivo svolgimento dei fatti, essendo opposte ed inconciliabili le versioni fornite dalle parti, la Corte milanese ha fatto applicazione pura e semplice delle regole sull’onere della prova.

Tale scelta si presenta giuridicamente corretta alla luce della giurisprudenza di questa Corte (v., di recente, la sentenza 9 ottobre 2012, n. 17143); il che comporta l’infondatezza della censura di violazione di legge ed impone di verificare solo se sussistano i vizi di motivazione lamentati dal ricorrente.

E’ appena il caso di ricordare che, per pacifica giurisprudenza di questa Corte, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (sentenza 16 dicembre 2011, n. 27197). Ne consegue che il vizio di omessa o insufficiente motivazione deducibile in sede di legittimità sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa (sentenze 23 dicembre 2009, n. 27162, 18 marzo 2011, n. 6288, e 7 febbraio 2013, n. 2947).

Nel caso di specie la Corte d’appello, con una valutazione delle prove che, per quanto si è detto, non è sindacabile in questa sede, in quanto sorretta da adeguata motivazione, ha ritenuto che il dott. M. non avesse fornito una prova adeguata a dimostrare di aver adempiuto con diligenza la propria prestazione professionale; ed è pervenuta a simile conclusione valutando alcuni degli elementi sottolineati nel ricorso (come il contenuto delle testimonianze assunte) e ponendo in evidenza, per gli altri, l’impossibilità di pervenire ad una lettura univoca.

Ciò comporta, in definitiva, che le regole sull’onere della prova sono state applicate correttamente, che nel ragionamento della Corte d’appello non ci sono omissioni e che non sussiste, quindi, alcun vizio di motivazione, perchè tutti i fatti a disposizione sono stati valutati.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione al concorso di colpa a carico del paziente poi deceduto.

Osserva il ricorrente che la motivazione posta dalla Corte d’appello per respingere la possibilità di riconoscere un concorso di colpa a carico del paziente sarebbe al limite dell’inesistenza; in particolare, la sentenza avrebbe omesso di considerare che il C., dopo aver controllato l’INR in data 7 giugno 2000, effettuò un secondo controllo solo in data 19 giugno 2000, nonostante il dott. M. avesse prescritto il controllo dopo quattro giorni.

2.1. Il motivo è fondato.

La sentenza impugnata, infatti, contiene un evidente salto logico in ordine al problema del concorso di colpa. Fermo restando che la Corte d’appello – come si è visto – è pervenuta alla condanna del professionista seguendo un iter logico giuridico diverso da quello del Tribunale, essa avrebbe comunque dovuto affrontare anche il profilo della responsabilità concorrente del defunto paziente. La sentenza di primo grado, secondo quanto risulta dalla stessa pronuncia d’appello, aveva accertato che il C. era da ritenere corresponsabile nell’evento letale, avendo effettuato i prescritti controlli ematici ad intervalli temporali ben più ampi rispetto a quelli consigliati dal tipo di terapia in corso di svolgimento, ossia in data 19 e 28 giugno. A fronte di una pronuncia di primo grado che aveva indicato le ragioni per le quali il paziente era stato ritenuto responsabile, nella misura di un terzo, ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., la sentenza oggi in esame è, in sostanza, priva di motivazione sul punto, limitandosi ad osservare che non vi era possibilità di diminuire la responsabilità del dott. M. a causa della “assoluta prevalenza ed autonomia causale” del suo comportamento. Il che è, all’evidenza, una motivazione tautologica del tutto insufficiente, per non dire assente, perchè il riconoscimento della sussistenza della responsabilità professionale del medico non implica, per ciò solo, l’automatica esclusione di un’eventuale responsabilità del paziente, rilevante ai sensi del citato art. 1227.

Alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione personale, spetterà dunque il compito di riesaminare il profilo del concorso di responsabilità, fornendo adeguata motivazione sul punto.

3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2236 cod. civ. in materia di responsabilità professionale.

Si osserva, in proposito, che la sentenza impugnata avrebbe omesso di indicare le ragioni per le quali ha applicato al caso in esame la norma dell’art. 1176 cod. civ. anzichè quella del citato art. 2236.

3.1. Il motivo non è fondato.

A prescindere dal fatto che la censura proposta avrebbe dovuto essere prospettata come violazione di legge, in termini di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., assume decisiva rilevanza il fatto che la sentenza impugnata, nel risolvere la causa facendo applicazione rigorosa ed esclusiva delle regole in tema di onere della prova, ha deciso in modo implicito anche la questione relativa all’applicabilità dell’art. 2236 cod. civ., non potendosi affrontare un caso di responsabilità professionale che richiede il dolo o la colpa grave con una applicazione delle regole generali sull’onere della prova. E, d’altra parte, la decisione implicita di rigetto implica l’impossibilità di configurare il vizio di omessa pronuncia (sentenza 4 ottobre 2011, n. 20311, in linea con un consolidato orientamento).

4. Con il motivo di ricorso incidentale condizionato gli eredi C. lamentano violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per omesso esame di una documentazione medico-legale allegata all’atto di citazione. In particolare, la Corte di merito non avrebbe valutato, a sostegno della responsabilità del dott. M., anche il fatto che egli, dopo aver constatato l’accresciuto valore dell’INR, non era immediatamente intervenuto somministrando la vitamina K, che avrebbe probabilmente evitato la successiva emorragia mortale.

4.1. L’esame del ricorso incidentale rimane assorbito dall’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale, involgendo detta impugnazione questioni di fatto comunque precluse a questa Corte.

5. In conclusione, sono rigettati il primo ed il terzo motivo del ricorso principale, mentre è accolto il secondo, con assorbimento del ricorso incidentale.

La sentenza impugnata è cassata nei limiti del motivo accolto ed il giudizio rinviato alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione personale, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta il primo ed il terzo motivo del ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione personale, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 18 febbraio 2014.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2014