il rapporto di lavoro con il datore pubblico è storicamente caratterizzato dal cosiddetto regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente, entro limiti ben precisi, è preclusa la possibilità di svolgere attività extralavorative. Le ragioni del divieto permangono anche in un sistema “depubblicizzato” a rimarcare la peculiarità dell’impiego presso la Pubblica Amministrazione che va rinvenuta nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico, per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della p.a., che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto. Centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico rivestito, implicanti un’attività caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, potrebbero turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e il prestigio della p.a.

La Corte dei Conti ha ritenuto poter condannare la dipendente di una Azienda Ospedaliara che si era scoperto aver svolto attività lavorativa anche in favore di strutture private, al versamento delle somme percepite dagli altri datori di lavoro come previsto dalla disciplina sanzionatoria in materia.

Nel caso specifico si era accertato di non trovarsi nell’ipotesi di attività assolutamente vietate, stante la saltuarietà e non professionalità dei lavori svolti, né nella terza propria delle attività liberalizzate che non richiedono autorizzazione, bensì nella seconda tipologia, ovvero tra quelle espletabili per la loro occasionalità e “non professionalità”, ma esclusivamente previa autorizzazione datoriale.

Corte dei Conti – Sez. Giurisdizionale Lombardia; sent. n. 54 del 16.04.2015

omissis

Svolgimento del processo

1. Con atto di citazione depositato il 28.10.2014, la Procura regionale citava in giudizio M.M., dipendente dell’azienda Ospedaliera “Ospedale di San X.” di Monza all’epoca dei fatti di causa, esponendo quanto segue:

A) che, con esposto 24.9.2013 prot.15213, il Commissario Straordinario dell’Azienda Ospedaliera cennata aveva segnalato alla Procura Regionale di questa Corte un possibile danno erariale arrecato dalla dipendente in epigrafe, per aver svolto, senza l’autorizzazione prescritta dall’art.53, co. 7, D.Lgs. n. 165 del 2001, attività retribuita presso terzi dal 2003 al 2007;

B) che, a seguito di verifiche svolte (ex art. 1, co. 56-65, L. n. 662 del 1996 e ex art. 53 e 60, D.Lgs. n. 165 del 2001) tramite la Guardia di Finanza Nucleo speciale PA gruppo Funzione Pubblica (v. relazione 5.11.2012 prot. 0156592/12) agli atti, era emerso l’espletamento da parte della M. di dette attività presso persone giuridiche (centri medici La Primavera, C.S.C.C.D.C.P. spa, I.C.Z. spa) indicate a pag.2 della citazione da intendersi qui trascritta;

C) che gli importi percepiti dalla M. per dette non autorizzate attività era pari ad Euro 37.542,20, erogati dai suddetti soggetti secondo i riparti indicati dalla istante Procura alle pagg. 2-3 della citazione da intendersi qui trascritti;

D) che la dipendente era stata resa edotta delle risultanze ispettive della GdF con nota informativa 11.2.2013 prot. 2662, con la quale l’Azienda Ospedaliera San X. le aveva richiesto la suddetta somma ai sensi dell’art. 53, co. 7, D.Lgs. n. 165 del 2001, ma la M. non aveva dato riscontro alcuno a tale nota;

E) che, a fronte dell’invito a dedurre 20.6.2014 (data di spedizione dell’avviso) notificato alla M., la stessa non aveva fatto pervenire osservazioni;

H) che la condotta della M. si poneva in evidente contrasto con l’art. 53, co. 7, D.Lgs. n. 165 del 2001 (applicabile al personale sanitario ex art. 3-bis, co. 14, D.Lgs. n. 502 del 1992) attuativo dell’art. 98 cost. e del dovere di esclusività ivi sancito per i pubblici dipendenti e che il credito non poteva ritenersi parzialmente prescritto alla luce dell’art. 2935 c.c., essendo i fatti all’origine dell’azionata pretesa stati occultati alla PA e scoperti solo a seguito di riscontri della GdF.

Tutto ciò premesso, la attrice Procura chiedeva la condanna della convenuta al pagamento della somma di Euro 37.542,20 oltre accessori e spese di lite.

2. Si costituiva la sig.ra M., difesa dagli avv. Michele ed Edvige Tumminelli, eccependo:

A) la prescrizione del credito a fronte delle date degli introiti (2003-2007) e della data del primo atto con cui è stata reclamata dall’amministrazione la refusione degli stessi (11.2.2013) e in assenza di occultamento doloso, avendo la convenuta, all’oscuro dell’obbligo di previa autorizzazione, inserito i compensi in dichiarazione dei redditi e non avendo mai negato la percezione;

B) che la M. aveva su dette somme, inserite in dichiarazione dei redditi, pagato le tasse, subendo una trattenuta alla fonte del 20% da parte dell’erogante, il cui importo andava comunque detratto dalle somme reclamate dalla Procura, ove venisse superata la preliminare eccezione;

G) che vi erano comunque i presupposti per una riduzione dell’addebito.

La difesa della convenuta chiedeva dunque, in via principale, il rigetto della domanda e, in via ulteriormente subordinata, che l’importo reclamato fosse rettamente rideterminato al netto percepito con esercizio del potere riduttivo.

All’udienza dell’11.3.2015, udita la relazione del magistrato designato, prof. Vito Tenore, la Procura insisteva nella propria pretesa, mentre per la convenuta l’avv. Tumminelli sviluppava i propri argomenti difensivi.

Quindi la causa veniva trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

1. La fattispecie al vaglio della Sezione, già oggetto di sentenze 25 novembre 2014 n. 216 e 30 dicembre 2014 n. 233 di questa Corte, attiene alla pretesa risarcitoria avanzata dalla Procura Regionale nei confronti di una dipendente pubblica che, nell’arco temporale 2003-2007, ha svolto attività retribuita presso terzi senza l’autorizzazione prescritta dall’art. 53, co. 7, D.Lgs. n. 165 del 2001.

La norma, nel testo vigente anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 42, della L. n. 190 del 2012 (c.d. legge anticorruzione) avvenuta il 28 novembre 2012, disponeva: “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.

Con l’entrata in vigore della legge anticorruzione il primo inciso è stato completato dalla previsione: “Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi”.

2. Giova premettere, sul piano sistematico, che, come già rimarcato in sentenza n. 216 del 2014 della Sezione, il rapporto di lavoro con il datore pubblico è storicamente caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d. regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente pubblico, nei limiti infraprecisati, è preclusa la possibilità di svolgere attività extralavorative. La ratio di tale divieto, che permane anche in un sistema “depubblicizzato” a rimarcare la peculiarità dell’impiego presso la p.a., va rinvenuta nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” art. 98 cost.), per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della p.a., che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto. Centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico rivestito, implicanti un’attività caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, potrebbero turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e il prestigio della p.a.

Un simile obbligo di esclusività non è rinvenibile nell’impiego privato, nel quale il codice civile si limita a vietare esclusivamente attività extralavorative del dipendente che si pongano in concorrenza con l’attività del datore (art. 2105 c.c.).

Tuttavia, nell’impiego pubblico il divieto di espletare incarichi extraistituzionali non è così assoluto. Difatti, il regime vigente, codificato dall’art. 53 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, pur individuando, al primo comma, situazioni di incompatibilità assoluta (sancite dagli artt. 60 e seguenti del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 per lo svolgimento di attività imprenditoriali, agricole, commerciali, libero-professionali, ed altri lavori pubblici o privati: su tale ipotesi da ultimo C. conti, sez. Sicilia, 24.7.2014 n. 927), il cui espletamento porta alla decadenza dall’impiego previa diffida, prevede anche, al comma 7 del cennato art. 53, attività occasionali espletabili dal dipendente pubblico previa autorizzazione datoriale ed anche attività “liberalizzate”, ovvero liberamente esercitabili senza previa autorizzazione, in quanto espressive di basilari libertà costituzionali (art. 53, co. 6, D.Lgs. n. 165 del 2001cit.).

Nel caso in esame non si verte né nella prima ipotesi (attività assolutamente vietate ex art. 53, co. 1, D.Lgs. n. 165 del 2001), stante la saltuarietà e non professionalità dei lavori svolti dalla convenuta, né nella terza (attività liberalizzate ex art. 53, co. 6), non rientrando le attività svolte dalla convenuta nel numerusclasusus di quelle che non richiedono autorizzazione.

Pertanto, nella specie, la condotta della M. rientra pacificamente nella seconda tipologia, ovvero tra quelle espletabili (ergo non vietate in assoluto) per la loro occasionalità e “non professionalità”, ma previa autorizzazione datoriale.

Tale autorizzazione è ragionevolmente prescritta dall’art. 53, co. 7 al fine di verificare in concreto:

a) se l’espletamento dell’incarico, già prima della L. n. 190 del 2012 (e del D.P.R. n. 62 del 2013, che esaltano l’antico e già preesistente problema dei conflitti di interesse) possa ingenerare, anche in via solo ipotetica o potenziale, situazione di conflittualità con gli interessi facenti capo all’amministrazione e, quindi, con le funzioni (ad essi strumentali) assegnate sia al singolo dipendente che alla struttura di appartenenza (problema particolarmente delicato nel comparto Sanità);

b) la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza (che dovrà comunque non solo essere svolto fuori dall’orario di lavoro, ma pure compatibilmente con le esigenze di servizio), nonché con le mansioni e posizioni di responsabilità attribuite al dipendente, interpellando eventualmente a tal fine il responsabile dell’ufficio di appartenenza, che dovrà esprimere il proprio parere o assenso circa la concessione dell’autorizzazione richiesta;

c) la occasionalità o saltuarietà, ovvero non prevalenza della prestazione sull’impegno derivante dall’orario di lavoro ovvero l’impegno complessivo previsto dallo specifico rapporto di lavoro, con riferimento ad un periodo determinato;

d) la materiale compatibilità dello specifico incarico con il rapporto di impiego, tenuto conto del fatto che taluni incarichi retribuiti sono caratterizzati da una particolare intensità di impegno;

e) specificità attinenti alla posizione del dipendente stesso (incarichi già autorizzati in precedenza, assenza di procedimenti disciplinari recenti o note di demerito in relazione all’insufficiente rendimento, livello culturale e professionale del dipendente);

f) corrispondenza fra il livello di professionalità posseduto dal dipendente e la natura dell’incarico esterno a lui affidato.

Questo generale regime autorizzatorio, a cui sottostanno anche le categorie di pubblici dipendenti non privatizzati (magistrati, militari, polizia, diplomatici, prefetti etc.), ha una evidente e condivisibile ratio sia civilistica-lavoristica che pubblicistica: consentire al datore di valutare la compatibilità di tale attività extralavorativa con il corretto e puntuale espletamento, in modo terzo ed imparziale, della prestazione contrattualmente dovuta dal lavoratore alla P.A., in ossequio anche al principio costituzionale di tendenziale esclusività (98 cost.) e di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 cost.).

Tali considerazioni escludono profili di possibile incostituzionalità ex artt. 97 e 98 cost., essendo indefettibile sia la richiesta di autorizzazione, sia la ragionevole discrezionalità del dirigente nel concederla alla stregua dei suddetti parametri. Il non richiederla comporta dunque ragionevoli sanzioni, disciplinari e pecuniarie, tese a tutelare proprio i sunteggiati principi costituzionali.

Tale regime pubblicistico di esclusività, osserva incidentalmente il Collegio, opera anche per il personale in part-time. Difatti, le liberalizzazioni negli incarichi esterni per il personale in part-time (ma solo per quello al 50% della prestazione lavoristica) si sono avute solo con la successiva L. 23 dicembre 1996, n. 662, il cui articolo 1, co. 56 statuisce che “le disposizioni di cui all’articolo 58, comma 1, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (oggi art. 53, ci. 1, D.Lgs. n. 165 del 2001 N.D.R.), e successive modificazioni ed integrazioni, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno”.

L’inosservanza di tale basilare precetto sulla previa doverosa autorizzazione comporta dunque per tutti i dipendenti, compresi quelli in part-time, sia sanzioni disciplinari che la sanzione pecuniaria oggetto del contendere in questa sede. Recita infatti l’art. 53, co.7, D.Lgs. n. 165 del 2001 che “il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.

Soggiunge il novello comma 7-bis del D.Lgs. n. 165 del 2001 (introdotto dalla L. n. 190 del 2012) che “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”: trattasi di norma, quest’ultima, non innovativa, ma meramente ricognitiva di un pregresso prevalente indirizzo (Cass., sez. un., 2.11.2011 n. 22688) tendente a radicare in capo alla Corte dei Conti la giurisdizione in materia nel termine prescrizionale quinquennale, escludendo quella del giudice ordinario propugnata da un minoritario indirizzo giurisprudenziale (C. conti, Sez. Lombardia, 27.1.2012 n. 31, riformata in appello da C conti, Sez. I, 13.3.2014 n. 406) sulla base di una qualificazione della pretesa in chiave civilistica-lavoristica.

Si tratta invero di una ipotesi di responsabilità tipica, in cui la sanzione (integrale riversamento di quanto percepito contra legem) è predeterminata per legge, ma la stessa soggiace comunque agli altri presupposti del giudizio di responsabilità erariale (in primis elemento soggettivo) nonché alla limitazione derivante dalla prescrizione quinquennale. Tale ultima affermazione è in linea con precedenti di questa Corte (Sez. Toscana, 8.9.2014 n. 159; Sez. Calabria 10.5.2013 n. 161; Sez. I, 13.3.2014 n. 406).

3. Tale conclusione, come già statuito dalla Sezione con sentenza n. 216 del 2014, porta ad escludere qualsiasi profilo di difetto di giurisdizione: difatti, quale che sia la sua portata temporale, il novello comma 7-bis del D.Lgs. n. 165 del 2001 introdotto dalla L. n. 190 del 2012 è meramente ricognitivo ed esplicativo della pregressa giurisdizione contabile in materia, già desumibile dai principi generali e statuita dalla giurisprudenza, per cui la fattispecie sub iudice è ben giudicabile da questa Corte.

4. Ciò chiarito sul piano sistematico, e ribadita la giurisdizione di questa Corte, va sviluppata qualche ulteriore preliminare considerazione rispetto al merito.

E’ incontestato che la sig.ra M., per sua stessa ammissione, non abbia mai richiesto al datore alcuna autorizzazione a fronte del pluriennale espletamento di occasionali attività extralavorative.

Come già segnalato in sentenza n. 216 del 2014 della Sezione, la previsione normativa alla base della pretesa della Procura, ad avviso del Collegio (che non condivide la rimessione alla Consulta operata da TAR Puglia, Sezione di Lecce in data 30 maggio 2013), non appare in primo luogo in contrasto con nessun parametro costituzionale: non certo con l’art. 36 cost, cui fa riferimento il Tar Puglia, in quanto l’art. 53, co. 7, nell’imporre la refusione di quanto introitato contra legem, non viola affatto il precetto secondo cui “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ….”, ma regola legittimamente il prevalente buon funzionamento dell’azione pubblica e del leale ed imparziale rapporto tra datore pubblico e suoi dipendenti, in ossequio all’esclusività tendenziale sancita dall’art. 98 cost. Né la norma urta con l’art. 97 cost., come parimenti adombrato dal Tar Puglia, in quanto, al contrario, ne esalta e concretizza la portata, regolando e sanzionando un profilo lavoristico dell’impiego pubblico proprio in vista del buon andamento e della imparzialità dell’azione pubblica. In buona sostanza, l’aggiunta di una sanzione amministrativa a quella disciplinare rafforza la finalità sottesa all’art. 53, co. 7 edall’art. 98 cost., ovvero prevenire e reprimere condotte che possono porsi in contrasto con il buon andamento e l’imparzialità della p.a. e dei suoi funzionari.

Pertanto la questione, pur se rilevante, si ritiene manifestamente infondata. Il presente giudizio non va dunque sospeso in attesa del pronunciamento della Corte costituzionale sul punto.

Né vengono lesi con tale norma (art. 53, co. 7 cit.) altri principi stabiliti dalla Convenzione Europea: non vi è alcuna “ingiustificata ingerenza dell’autorità pubblica nel godimento del diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU)”, ma una mera regolamentazione di esercizio di alcuni profili della prestazione lavoristica con la PA per preservarne l’integrità ed indipendenza nello svolgere attività in possibile contrasto; non vi è lesione alcuna del “rispetto del principio di legalità (art. 7 CEDU)”, essendo la sanzione amministrativa de qua rispettosa del principio nella sua formulazione ex lege; non vi è infine alcuna “arbitrarietà dell’ingerenza dello Stato e giusto equilibrio tra gli interessi generali e la salvaguardia dei diritti dell’individuo (artt. 6 – 8 e 14 CEDU)”, essendo ben ragionevole l’intervento legislativo statale nel bilanciare l’interesse pubblico al buon funzionamento e all’imparzialità della PA con le pretese del lavoratore ad agire in contesti extralavorativi.

L’art. 53, co.7, D.Lgs. n. 165 del 2001 introduce dunque una sanzione amministrativa (tra l’altro rispondente ai doverosi canoni di riserva di legge, (tipicità, tassatività, offensività), rafforzativa di quella disciplinare ed avente una ragionevole ratio preventiva e dissuasiva.

5. Venendo alle componenti strutturali dell’illecito amministrativo in esame, evidenti, riconosciuti ed incontestati appaiono la condotta ed il danno ex lege determinato dalla convenuta. Parimenti sussistente è la colpa grave della M. a fronte del chiaro precetto normativo, un tempo contenuto nell’art. 58 del D.Lgs. n. 29 del 1993 e poi nell’art. 53, co. 1,D.Lgs. n. 165 del 2001. La limpida formulazione, unita al noto principio ignorantialegis non excusat (nella specie l’ignoranza è ingiustificabile per la chiarezza testuale), rende non ipotizzabile una buona fede della convenuta (per mancata divulgazione dei precetti in materia da parte del datore di lavoro, opportuna ma non certo doverosa). Né assume rilievo la eccellente resa della prestazione di lavoro presso l’Azienda San X. della M. nel periodo di espletamento, in orari extralavorativi, di altre attività, in quanto tale circostanza non ha alcun valore ai fini della previa autorizzazione datoriale, la cui ratio, come sopra rimarcato, non attiene solo alla valutazione (ex ante e non certo ex post come implicitamente vorrebbe la difesa) sulla fisica compatibilità tra attività lavorativa e extralavorativa, ma anche alla sussistenza di conflitti, anche potenziali, di interesse (che nel comparto Sanità vanno valutati con particolare rigore).

6. Venendo dunque al danno ed alla sua quantificazione, va preliminarmente individuata la pretesa risarcitoria azionata, essendo stata eccepita la prescrizione quinquennale dalla difesa della convenuta, secondo la quale, a fronte delle date degli introiti (2003-2007), il primo atto con cui è stata reclamata dall’amministrazione la refusione degli stessi risale all’11.2.2013.

Tuttavia, nella specie è da ritenere inapplicabile la regola della decorrenza della prescrizione dalla scoperta del fatto in caso di doloso occultamento (art. 1, co. 2, L. n. 20 del 1994), in quanto, come statuito da questa Corte “Il doloso occultamento non coincide con la commissione dolosa del fatto dannoso ma richiede un’ulteriore condotta indirizzata a impedire la conoscenza del fatto e che, comunque, perché di occultamento doloso si possa parlare, occorre un comportamento che, pur se può comprendere la causazione del fatto dannoso, deve tuttavia includere atti specificamente volti a prevenire il disvelamento di un danno ancora in fieri oppure a nascondere un danno ormai prodotto” “un comportamento volto al raggiro, callido, teso con atti commissivi al nascondimento, di cui deve lasciar baluginare l’intenzionalità” (Sez. III, 20 dicembre 2012 n. 830). Come già statuito con la già citata sentenza n. 216 del 2014, perché di occultamento doloso si possa parlare, occorre un comportamento che, pur se può comprendere la causazione del fatto dannoso, deve tuttavia includere atti specificamente volti a prevenire il disvelamento di un danno ancora in fieri oppure a nascondere un danno ormai prodotto (Sez. Liguria, 2 luglio 2014 n. 85; Sez. Lombardia, 29 gennaio 2014 n. 23;Sez. III n. 830/2012; Sez. I n. 85/2012; Sez. Sicilia n. 1/2012; Sez. II n. 27/2009; Sez. III n. 32/2002; Sez. I, n. 40/2009; Sez. III n. 474 del 2006, Sez. Liguria 11.6.2009, n. 287; Sez. Veneto, 7.7.2005, n. 992; Sez. Lombardia, 12.12.2005, n. 728). In sintesi, l’occultamento doloso del danno non può considerarsi provato dal solo silenzio serbato dal dipendente sulle attività extralavorative prestate.

Nella specie è invece applicabile la regola della decorrenza della prescrizione da quando il fatto dannoso diviene conoscibile secondo ordinari criteri di diligenza (c.d. conoscibilità obiettiva). In altre parole, pur non vertendosi in materia di doloso occultamento del danno da parte della convenuta, non riscontrandosi condotte maliziose tese a celare i proventi aliunde percepiti, appare ben evidente, alla luce del basilare parametro dell’art.2935 c.c., alla cui stregua va letto l’art. 1, co. 2 della L. 14 gennaio 1994, n. 20 (“il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in 5 anni decorrenti dalla data in cui è stata realizzata la condotta produttiva del danno”), che la percepibilità, intesa come “conoscibilità obiettiva” (e non certo soggettiva, ancorata cioè a possibili indolenti riscontri subiettivi tardivi) del danno erariale arrecato dalla convenuta da parte dell’amministrazione danneggiata, va individuata nella data dell’ispezione svolta dalla Guardia di Finanza nel 2012.

Nella specie, a fronte del non palesato (in quanto non autorizzato) espletamento di dette prestazioni extralavorative da parte della M. non risulta provata una pregressa conoscenza da parte del datore di lavoro (come avvenuto invece in analoga fattispecie vagliata da questa Sezione con sentenza 216/214) prima della formale messa in mora aziendale inoltrata con nota informativa 11.2.2013 prot. 2662, inviata alla convenuta sulla base della comunicazione 17.12.2012 n. 2276 alla Azienda San X. degli esiti della suddetta verifica ispettiva della Guardia di Finanza 5.11.2012 n. 0156592/12, momento della “conoscibilità” del fatto dannoso.

E’ incontestato dunque che le prestazioni extralavorative della convenuta si siano svolte in un arco temporale dal 2003 al 2007 e chi siano state rese conoscibili solo nel 2012: l’azione della Procura è dunque tempestiva.

Ciò chiarito, l’importo introitato contra legem dalla convenuta, e che andava riversato all’amministrazione ex art. 53, co. 7, D.Lgs. n. 165 del 2001, va dunque determinato in Euro 37.542,20 lordi indicati dalla Procura a seguiti di analitici conteggi della Guardia di Finanza agli atti.

Circa il suo computo al netto o al lordo della tassazione, ritiene il Collegio, in consapevole contrasto con minoritari indirizzi di questa Corte (Sez. Campania n. 14 del 14 gennaio 2010; Sez. Liguria n. 50 del 29 marzo 2013; Sez. Puglia n. 1558 del 27 novembre 2013), e in sintonia con un prevalente e più ragionevole indirizzo giurisprudenziale (v. Cons. Stato, Sez. III, 4 luglio 2011 n. 3984; Cons .Stato, Sez. VI, 2 marzo 2009 n. 1164; TAR Lombardia, Sez. IV, 7 marzo 2013 n. 614; C. conti, Sez. III, 27.3.2014 n. 167, e n. 273 del 6 maggio 2014; Sez. Toscana, 8.9.2014 n. 159; Sez. Lazio n. 897 del 16 dicembre 2013; Sez. Lombardia 25 novembre 2014 n. 216 e 30 dicembre 2014 n. 233), che l’interpretazione dell’art. 53, co. 7 D.Lgs. n. 165 del 2001 deve essere nel senso che la somma da recuperare è quella al netto delle imposte già corrisposte dalla convenuta a titolo di ritenuta d’acconto, ovvero l’importo effettivamente entrato nella sfera patrimoniale del dipendente. Pertanto, dall’importo lordo di Euro 37.542,20 reclamato dalla Procura, va detratta la ritenuta d’acconto del venti per cento già operata dall’erogatore, come rettamente richiesto dalla difesa, con conseguente riduzione ad Euro 30.033,76 netti l’importo dovuto al datore.

Tale importo non può essere ulteriormente ridotto, a seguito della tassazione sul reddito imponibile, non risultando depositate le dichiarazioni dei redditi della convenuta tese ad evidenziare tasse ulteriori eventualmente pagate dalla convenuta nel periodo 2003-207 a seguito degli introiti extralavorativi de quibus.

In ogni caso la convenuta, ove ritenga, sulla base di questa sentenza dagli effetti restitutori, di aver versato al Fisco, per gli anni tributari pertinenti, somme in più, in quanto derivanti da redditi da lavori extra poi versati al proprio datore ex art. 53, co. 7, D.Lgs. n. 165 del 2001, potrà reclamarne la refusione nelle pertinenti sedi tributarie.

Peraltro, tenuto conto dell’ineccepibile curriculum professionale, del suo leale riconoscimento della condotta contra legem, della qualifica non apicale della M., che può comportare una non adeguata conoscenza della applicazione concreta del regime delle incompatibilità (sul quale la Azienda sanitaria non ha inopportunamente svolto attività formativa/divulgativa), l’importo può equitativamente essere ridotto, nell’esercizio ragionevole del potere riduttivo dell’addebito, ad Euro 22.500,00, ad oggi già rivalutati, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al saldo effettivo.

Alla refusione del predetto danno all’Azienda Ospedaliera “Ospedale di San X.” di Monza va dunque condanna la convenuta.

La convenuta va altresì condannata al pagamento delle spese di giudizio, liquidate come da dispositivo.

7. Da ultimo osserva il Collegio incidentalmente, per mera chiarezza sull’istituto oggetto di causa, circa una ipotetica preventiva escussione dei soggetti terzi eroganti compensi extralavorativi alla M., la quale avrebbe potuto rispondere in questa sede solo in via subordinata, che tale tesi è smentita da una lettura testuale e logica dell’art. 53, co. 7, D.Lgs. n. 165 del 2001. Tale norma va infatti intesa nel senso che il datore-creditore della somma può reclamarla dall’erogatore esterno soltanto qualora la stessa non sia stata ancora versata al lavoratore autore di prestazione non autorizzata, oppure da quest’ultimo se la somma sia stata già corrisposta, come nel caso di specie.

Pertanto, la Sezione ritiene di aderire all’univoco indirizzo secondo cui assume un rilievo dirimente l’avvenuto pagamento o meno delle prestazioni lavorative espletate dal pubblico dipendente, in assenza della prescritta autorizzazione, consentendo in quest’ultimo caso alla Amministrazione di appartenenza di agire direttamente nei confronti del proprio dipendente, avendo questi disatteso l’obbligo di esclusività del rapporto di pubblico impiego (in terminis cfr. T.A.R. Lombardia, Milano Sez. IV, 7 marzo 2013 n. 614; C. conti, Sez. Lombardia, 30 dicembre 2014 n. 233).

P.Q.M.

La Corte, definitivamente pronunciando,

– condanna M.M., nata a M. C. (C.) il (…) e ivi residente in via P. X n. 9, cf. (…), al pagamento a favore dell’Azienda Ospedaliera “Ospedale di San X.” di Monza, della somma di Euro 22.500,00 (ventiduemilacinquecento/00) già rivalutati, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al saldo effettivo. Condanna la convenuta al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in complessivi Euro 263,05 ( duecentosessantatre/05 )

Così deciso in Milano l’11 marzo 2015.

Depositata in Cancelleria 16 aprile 2015