È sufficiente la prova che il veicolo sia stato guidato poco tempo prima. La Corte di Cassazione respingendo il ricorso di un uomo sanzionato, ex articolo 187, comma 7, del Cds , per non essersi sottoposto all’alcol test dopo che una videoregistrazione lo aveva immortalato alla guida di un veicolo parcheggiato pochi minuti prima della richiesta da parte degli agenti. Il fatto di aver parcheggiato la vettura non consente di ritenere il conducente un semplice pedone.

Cassazione penale sez. VI, 12/09/2019 n.41457

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Trieste, in accoglimento dell’impugnazione del Pubblico Ministero, riformava parzialmente la pronuncia di primo grado aumentando la pena irrogata all’imputato e, decidendo anche sull’impugnazione di quest’ultimo, confermava nel resto la medesima pronuncia del 06/04/2016 con la quale il Tribunale della stessa città aveva condannato C.M. in relazione ai reati di cui all’art. 186 C.d.S., comma 7, (capo a), artt. 81 e 341 bis c.p. (capo b), per essersi rifiutato, il 22 aprile 2013, di sottoporsi all’accertamento alcolimetrico richiesto dagli agenti della polizia di Stato che lo avevano fermato dopo che lo stesso era stato visto alla guida di un motociclo ape, nonchè per avere offeso, in presenza di più persone, il prestigio dei due poliziotti che lo avevano fermato, G.N. e B.A..

2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il C., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti due motivi.

2.1. Violazione di legge, in relazione al contestato art. 186 C.d.S., comma 7, per avere la Corte territoriale confermato la condanna dell’imputato in relazione al reato di cui al capo d’imputazione a), benchè fosse risultato che lo stesso era stato fermato dopo aver parcheggiato la sua ape, essere entrato in un bar ed essere poi uscito dal locale, dunque quando doveva essere considerato un mero pedone e non un conducente di un veicolo.

2.2. Violazione di legge, in relazione all’art. 341 bis c.p., per avere la Corte distrettuale confermato la sentenza di condanna di primo grado, nonostante non fosse risultato provato che le persone presenti avessero percepito le frasi oltraggiose pronunciate dal C., peraltro rivolte all’indirizzo non dei due agenti di polizia ma degli ignoti autori dell’imbrattamento di un monumento.

3. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell’interesse di C.M. vada rigettato.

3.1. Il primo motivo è infondato.

L’art. 186 C.d.S., comma 7, sanziona la condotta del “conducente” di un mezzo che rifiuta di sottoporsi all’esame alcolimetrico richiesto dagli agenti della polizia in caso di incidente stradale ovvero “quando si abbia altrimenti motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione psicofisica derivante dall’influenza dell’alcool”. E’ di tutta evidenza che il termine “conducente” si riferisca a colui che guida o che ha guidato – fino a poco prima della richiesta degli agenti di polizia – un veicolo, come si desume, oltre che dal significato letterale della norma incriminatrice, anche dal divieto, fissato dal comma 1 dello stesso articolo, di guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche, che indica chiaramente come sia genericamente vietata qualsivoglia conduzione di veicoli nella fase in cui le capacità percettive e reattive possono essere negativamente condizionate da una precedente assunzione di quelle bevande.

In questo senso si è espressa anche la giurisprudenza di questa Corte, per la quale, ai fini del reato di guida in stato di ebbrezza, rientra nella “nozione di guida” la condotta di chi si trovi all’interno del veicolo (nella specie, in stato di alterazione, nell’atto di dormire con le mani e la testa poste sul volante) quando sia accertato che egli abbia, in precedenza, deliberatamente movimentato il mezzo in area pubblica o quantomeno destinata al pubblico (Sez. 7, n. 10476 del 20/01/2010, Ongaro, Rv. 246198). In senso conforme si è sostenuto che, in materia di circolazione stradale, deve ritenersi che la “fermata” costituisca una fase della circolazione, talchè è del tutto irrilevante, ai fini della contestazione del reato di guida in stato di ebbrezza, se il veicolo condotto dall’imputato risultato positivo all’alcoltest fosse, al momento dell’effettuazione del controllo, fermo ovvero in moto (Sez. 4, n. 37631 del 25/09/2007, Savoia, Rv. 237882).

Alla luce di tali criteri ermeneutici deve escludersi la configurabilità della denunciata violazione di legge, avendo la Corte di appello di Trieste evidenziato nella sentenza oggetto di impugnazione che – come videoregistrato da una camera posta nelle vicinanze – il C. era stato fermato dagli agenti di polizia la notte del 22 aprile 2013 verso le 22.57, dopo che lo stesso, alle 22.55, era stato videoripreso alla guida del suo motociclo ape in movimento nella piazza, ove il mezzo era stato poi parcheggiato con le quattro luci accese. Solo con un inammissibile salto logico è possibile affermare – così come fatto nell’atto di impugnazione – che, dopo aver parcheggiato, il veicolo il C. avesse perso la sua qualità di conducente, diventando mero pedone della strada, posto che era stato visto alla guida dell’ape pochi attimi prima di essere stato fermato dai poliziotti, che lo aveva così notato in evidente stato di ebbrezza alcolica e che, perciò, avevano deciso di sottoporlo all’alcoltest.

Invero, solamente con il ricorso per cassazione l’imputato ha prospettato di essere stato fermato dagli agenti poco dopo essere uscito dal bar dove aveva consumato un bicchiere di vino, quasi a voler rappresentare (invero, per la prima volta) che lo stato di ebbrezza fosse sopravvenuto rispetto al momento della guida del veicolo: ma questa soluzione ricostruttiva dei fatti è stata offerta dall’impugnante in maniera solo congetturale, il che rende la relativa doglianza non ammissibile, considerato che l’imputato non ha dedotto alcun vizio di motivazione e che tale diversa ricostruzione dei fatti è stata fornita come eventuale, senza alcun concreto aggancio ad emergenze processuali, della cui mancata valutazione da parte dei giudici di merito il ricorrente non si era neppure lamentato.

3.2. Inammissibile è, invece, il secondo motivo del ricorso perchè presentato per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge, posto che l’imputato ha formulato una serie di doglianze che, al di là del dato enunciativo, si risolvono in non consentite censure in fatto all’apparato argomentativo su cui fonda la sentenza gravata, prospettando una diversa e alternativa lettura degli acquisiti elementi informativi, cosa che non è consentita in sede di legittimità.

Con una convincente motivazione, nella quale non è riconoscibile alcun vizio di illogicità, la Corte territoriale ha spiegato come il reato di oltraggio a pubblici ufficiali fosse nella fattispecie configurabile atteso che era stato dimostrato che le frasi offensive e minacciose erano state rivolte dal C. proprio all’indirizzo dei due agenti di polizia, come desunto dal fatto di essersi egli rivolto con la formula voi ai pubblici ufficiali presenti, ai quali era stato intimato di non “toccare l’ape”, senza l’impiego della terza persona plurale che avrebbe avuto senso se l’offesa fosse stata indirizzata agli imbrattatori del monumento: parole che, come confermate anche dal teste V., presente sul luogo, erano state pronunciate dinanzi a “un sacco di gente”. Ricostruzione, questa, che non è frutto di alcun travisamento delle prove, e rispetto alla quale l’imputato con il ricorso si è limitato a fornire, peraltro in termini molto generici, una versione meramente alternativa.

Nè è altrimenti configurabile alcuna violazione di legge in ordine alla riconosciuta percepibilità delle offese da parte dei presenti, in quanto è pacifico negli orientamenti interpretativi di questa Corte che, ai fini della configurabilità del reato di oltraggio di cui all’art. 341-bis c.p., è sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale possano essere udite dai presenti, poichè già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione, disturbandolo mentre compie un atto del suo ufficio, facendogli avvertire condizioni avverse, per lui e per la P.A. di cui fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie (così Sez. 6, n. 19010 del 28/03/2017, Trombetta, Rv. 269828; Sez. 6, n. 15440 del 17/03/2016, Saad, Rv. 266546).

4. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 12 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2019