La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti, nonchè un danno da lesione dell’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale (ed, in quest’ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute.

Con specifico riferimento all’ipotesi di intervento eseguito correttamente, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, se compiutamente informato, avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento.

La necessità, per il paziente, di allegare nell’atto di citazione (e dimostrare) che, se correttamente informato, avrebbe scelto di non sottoporsi all’intervento è  il necessario presupposto per il risarcimento del danno alla salute (e ciò indipendentemente dal fatto che la condotta medica sia stata colposa o non colposa). ( avv. ennio grassini – www.dirittosanitario.net )

ORDINANZA

sul ricorso 6366/2019 proposto da:

D.S.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato STEFANO TERRA, rappresentata e difesa dall’avvocato UGO RONCHI;

– ricorrente –

contro

GENERALI ITALIA SPA, (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA G. MAZZINI, 27, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA RAUSO, che la rappresenta e difende;

Z.S., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE, 149, presso lo studio dell’avvocato ANDREA TONINI, rappresentato e difeso dall’avvocato MASSIMO CIPRIANI;

ISTITUTO FIORENTINO DI CURA E ASSISTENZA SPA CASA CURA ULIVELLA E GLICINI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MISURINA, 80, presso lo studio dell’avvocato MARIA ESTER BALDUINI, che lo rappresenta e difende;

GENERALI ITALIA SPA (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio dell’avvocato MICHELE ROMA, che la rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

P.L., GENERALI BUSINESS SOLUTIONS SCPA, FONDIARIA SAI ASSICURAZIONI SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 30/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 10/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 12/01/2021 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI.

Svolgimento del processo
che:

D.S.G. convenne in giudizio il Dott. P.L. (oculista) e l’Istituto Fiorentino Casa di cura e assistenza s.p.a. – Casa di Cura Ulivella e Glicini per sentirli condannare, in solido, al risarcimento dei danni conseguiti a due interventi agli occhi – consistiti nel posizionamento di lenti intraoculari (IOL)- che avevano determinato, negli anni, la cecità dell’occhio sinistro e il rischio di cecità dell’occhio destro;

i convenuti resistettero alla domanda;

il P. chiamò in causa il Dott. Z.S. (oculista che aveva effettuato un successivo intervento sull’attrice) e la propria assicuratrice della responsabilità civile Le Generali s.p.a.;

l’Istituto Fiorentino chiamò in causa, per l’eventuale manleva, la Fondiaria Assicurazioni s.p.a. (poi UnipolSai);

lo Z., a sua volta, chiamò in giudizio la Alleanza Toro s.p.a..

espletata c.t.u. medico-legale, il Tribunale di Firenze rigettò la domanda;

pronunciando sul gravame della D.S., la Corte di Appello fiorentina ha confermato integralmente la sentenza impugnata, condannando l’appellante al pagamento delle spese processuali;

ha proposto ricorso per cassazione la D.S. affidandosi a cinque motivi (gli ultimi due indicati entrambi col numero 4); hanno resistito, con distinti controricorsi, l’Istituto Fiorentino Casa di Cura e Assistenza s.p.a. – Casa di Cura “Ulivella e Glicini”, Z.S., Generali Italia s.p.a. (già Generali Italia Business Solution s.c.p.a.) e la Generali Italia s.p.a. (già Alleanza Toro s.p.a.);

hanno depositato memoria la D.S. e le due compagnie assicuratrici.

Motivi della decisione
che:

col primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 191 c.p.c. e D.P.R. n. 115 del 2002, art. 56, comma 4 e degli artt. 156 e 157 c.p.c., nonchè la “nullità della perizia Pu. del (OMISSIS) per la traslazione dell’incarico del CTU all’esperto esterno Pe.” e il “conseguente vizio processuale (denunciabile in relazione all’art. 360, n. 4, per carenza di motivazione essendosi la sentenza fondata, per decidere, unicamente sulle risultanze della CTU nulla e come tale inutilizzabile) della sentenza di 2 grado”;

reiterando analoghe censure svolte in sede di appello, la ricorrente assume la nullità della consulenza in quanto la consulente incaricata (dentista) aveva dovuto delegare ogni accertamento specialistico ad un ausiliario oculista nominato dalla stessa, determinandosi pertanto una “traslazione tout court dell’incarico giudiziario dal perito d’ufficio allo specialista”; dal che sarebbe derivata la nullità delle sentenze di primo e secondo grado che risultavano basate esclusivamente sul recepimento delle conclusioni della relazione di c.t.u.;

il motivo è, nel complesso, inammissibile e – comunque – infondato;

è inammissibile in quanto si limita sostanzialmente a reiterare le doglianze svolte in grado di appello senza contrastare adeguatamente le considerazioni svolte dalla Corte territoriale, che ha dato atto del fatto che la D.ssa Pu. era anche specialista medico-legale ed era stata autorizzata ad avvalersi di un ausiliario di sua fiducia “per ogni opportuna indagine strumentale” e ha aggiunto che l’attività dello specialista non aveva avuto autonomia rispetto a quella della c.t.u., che aveva preso direttamente visione degli atti e aveva approfondito gli aspetti specialisti con l’ausiliario oftalmologo, “rendendo, all’esito, risposta motivata ai quesiti posti dal Giudice, ordinando e sintetizzando tutto quanto emerso dall’attento esame degli atti”; nè è stata contestata l’affermazione della Corte circa il fatto che non fosse emersa alcuna violazione in concreto del diritto di difesa, neppure allegata dall’appellante;

invero, anche in questa sede, la D.S., pur prendendo atto del fatto che la D.ssa Pu. era anche specialista in medicina legale, si limita a postulare che vi sia stata una sostanziale traslazione dell’incarico dal c.t.u. nominato dal Tribunale all’esperto individuato dal consulente, ma non offre elementi univocamente idonei a sostenere l’assunto e, pur asserendo che “risulta dalla lettura della CTU che ogni questione attinente alla correttezza dell’operato del Dott. P., sub specie della correttezza delle pratiche chirurgiche applicate fu risolta solo dallo specialista oculista e risulta palese che nessuna autonoma considerazione in merito sia stata apportata dalla Dott. Pu.”, omette di trascrivere (in violazione dell’onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6) i passaggi della relazione di c.t.u. da cui tutto ciò si evincerebbe; in tal modo non consentendo di apprezzare l’assunto secondo cui la c.t.u. avrebbe operato come mero tramite delle conclusioni formulate dall’esperto, senza fare proprie e sottoporre ad autonoma valutazione gli elementi dallo stesso forniti;

il motivo è comunque infondato, giacchè l’affermazione della violazione dell’art. 56 c.p.c., comma 4 (“quando le prestazioni di carattere intellettuale o tecnico di cui al comma 3, hanno propria autonomia rispetto all’incarico affidato, il magistrato conferisce incarico autonomo”) non è suffragata dalla dimostrazione che le prestazioni effettivamente demandate allo specialista oftalmologo si siano concretizzate in accertamenti autonomi, anzichè nell’acquisizione di elementi strumentali all’espletamento dell’incarico affidato alla c.t.u.;

va escluso, peraltro, che alla consulenza di cui trattasi (effettuata nell’anno 2014) risulti applicabile ratione temporis la disciplina di cui alla L. n. 24 del 2017, art. 15, che stabilisce – al comma 1 – che “nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l’autorità giudiziaria affida l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento” e precisa – al comma 4 – che, “nei casi di cui al comma 1, l’incarico è conferito al collegio” (con ciò stabilendo l’obbligatorietà della perizia o consulenza collegiale nei giudizi di responsabilità sanitaria, alla quale il giudice non può derogare);

nè risulta concludente l’evocazione dell’art. 191 c.p.c., che prevede la “possibilità” di nomina di più consulenti (“soltanto in caso di grave necessità o quando la legge espressamente lo dispone”) senza affermare (diversamente da quanto stabilito, per la materia della responsabilità sanitaria, dal sopravvenuto L. n. 24 del 2017, art. 15) un obbligo dalla cui violazione possa farsi discendere la nullità della consulenza;

col secondo motivo, la ricorrente deduce “falsa od erronea applicazione dell’istituto della ricusazione – art. 192 c.p.c. – violazione degli artt. 156 e 157 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Vizio di errore processuale ex art. 360 c.p.c., n. 4”, censurando il passaggio della sentenza in cui la Corte ha rilevato che “l’appellante si è limitata ad allegare la sussistenza di una asserita ipotesi di dovere di astensione del CTU (…), senza però aver chiesto nei termini di legge la ricusazione dello stesso”: assume la D.S. che il richiamo del giudice di secondo grado all’istituto della ricusazione non è corretto atteso che lo stesso “attiene ad un ipotesi di conflitto di interessi” che non ricorreva nella vicenda, in cui veniva invece “in considerazione l’aspetto della competenza del perito” e si poneva pertanto una questione di opportunità “che non poteva certo essere sollevata con una ricusazione ex ante ma solo con la critica della consulenza una volta evidenziato il deficit cognitivo”;

il motivo è inammissibile, in quanto:

la censura attiene ad un rilievo argomentativo secondario (concernente il fatto che non fosse stata avanzata istanza di ricusazione) che la Corte ha svolto evidentemente ad colorandum e che non integra la ragione fondante del rigetto dell’eccezione di nullità della c.t.u.; ne consegue che difetta un concreto interesse della ricorrente alla censura; inoltre, poichè la Corte non ha pronunciato in punto di ricusazione, non risultano prospettabili errori di diritto riconducibili alla falsa o erronea applicazione dell’art. 192 c.p.c., come pure degli artt. 156 e 157 c.p.c. (errori che – invero – non sono stati effettivamente illustrati dalla ricorrente);

il terzo motivo denuncia “violazione del principio delle regole in materia di onere della prova – Violazione dell’art. 115 c.p.c. – Mancato apprezzamento di un fatto deciso e discusso: il sottodimensionamento del cristallino come primum movens dell’errore medico”: la ricorrente contesta l’affermazione della Corte circa il fatto che nessuna rilevanza poteva attribuirsi alla mancata produzione della cartella clinica da parte della casa di cura, rilevando che il P. non aveva contestato puntualmente l’affermazione dello Z. circa il sottodimensionamento della IOL impiantata dal primo e che pertanto era proprio il P. ad essere onerato del deposito della cartella da cui doveva emergere il tipo di lente impiantata, non potendo addossarsi alla parte attrice (se non con inammissibile inversione dell’onere della prova) le conseguenze del mancato rinvenimento dell’indicazione delle dimensioni nella cartella clinica della Casa di cura e in quella predisposta dalla Z.; censura, infine, come apodittica l’affermazione della Corte secondo cui il sottodimensionamento non era credibile in quanto la “dislocazione” si era verificata a distanza di anni dall’intervento;

il motivo, che cumula più rilievi, è inammissibile, in quanto:

l’affermazione circa la irrilevanza della produzione della cartella clinica è stata compiuta dalla Corte non in relazione alla prova delle dimensioni della IOL, ma in riferimento al fatto che la paziente soffrisse di uveite; rispetto a tale patologia, la sentenza ha rilevato che la stessa non era stata sottaciuta dalla clinica, facendone conseguire (“dunque”) che nessuna rilevanza poteva assumere al riguardo la circostanza della mancata produzione della cartella clinica da parte della Casa di cura;

quanto al preteso sottodimensionamento della IOL, difetta di autosufficienza l’assunto della D.S. secondo cui si sarebbe verificata una situazione di non contestazione da parte del P. che avrebbe reso processualmente non controverso il fatto: la ricorrente non ha trascritto le deduzioni svolte sul punto dallo Z., nè ha illustrato in che termini il P. sarebbe rimasto “sostanzialmente silente”, non consentendo pertanto di apprezzare se ed in quali termini si sarebbe verificata una non contestazione; ciò tanto più se si considera che la deduzione del sottodimensionamento da parte dello Z. parrebbe espressione di una valutazione soggettiva dello stesso piuttosto che di un dato dimensionale specifico, rispetto al quale soltanto avrebbe potuto eventualmente determinarsi una non contestazione;

ogni deduzione circa un’eventuale non contestazione del sottodimensionamento risulta comunque ininfluente, perchè superata, nella logica della sentenza impugnata, dal rilievo che lo stesso non era stato allegato dall’attrice e non era emerso neppure dalla relazione di ATP e dall’apprezzamento – decisivo e non sindacabile – che la circostanza del sottodimensionamento risultava “comunque poco credibile considerato che la dislocazione si era verificata dopo 9 anni dall’inserimento”;

col quarto motivo (“difetto assoluto di motivazione – motivazione solo apparente. Vizio di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e all’art. 111 Cost., comma 6”), la ricorrente censura la motivazione sotto due profili: in primo luogo, assume che “la sentenza è priva di una valida motivazione per la nullità della CTU”, alla stregua dell’indirizzo giurisprudenziale per il quale la nullità di un atto di acquisizione probatoria “pone una questione di giustificatezza o meno delle statuizioni in fatto della decisione la quale, se fondata unicamente sulla prova nulla, come tale non utilizzabile, è priva di una valida motivazione”; in secondo luogo, assume che la motivazione è solo apparente, segnatamente perchè “non dà conto del perchè si è scelto di dare precipuo valore alla CTU Pu. e nessun valore alla CTU S. (nell’ATP), nemmeno menzionata” e perchè, reiterando l’errore del Tribunale di ritenere mera argomentazione difensiva la deduzione dello Z. circa il sottodimensionamento delle lenti IOL impiantate dal P., ha disapplicato le regole in tema di relevatio dall’onere della prova in caso di mancata contestazione; aggiunge che è apodittica l’affermazione circa il lungo lasso di tempo intercorso fra l’impianto delle lenti e l’insorgenza del dislocamento e che la Corte non ha chiarito la tesi del CTU che ha ritenuto “fattibile” l’impianto in paziente affetta da iridocicliti ricorrenti e non ha tenuto conto – illegittimamente – della relazione del ctp dello Z. in quanto considerata tardiva;

quanto al primo profilo, la censura è assorbita dal rigetto del primo motivo, con cui è stata dedotta l’invalidità della CTU;

quanto al secondo profilo, si osserva che la deduzione di difetto assoluto e apparenza della motivazione è infondata, giacchè la Corte ha ampiamente e coerentemente spiegato le ragioni che l’hanno determinata a rigettare la domanda risarcitoria, senza che possa predicarsi la carenza motivazionale per il solo fatto che siano state valorizzate solo le conclusioni della consulenza svolta in corso di causa o per il fatto che non sia stata ritenuta integrata una non contestazione dei fatti in punto di sottodimensionamento delle lenti; lo stesso vale per gli altri “indici” di apparenza illustrati dalla ricorrenti, che – come i precedenti – valgono a prospettare la possibilità di una lettura alternativa delle risultanze istruttorie, ma sono del tutto inidonei a suffragare l’assunto del difetto assoluto di motivazione;

il quinto motivo (erroneamente indicato come quarto) denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 4, la “nullità della sentenza per error in procedendo in relazione all’art. 183 c.p.c., comma 6, per avere ritenuto inammissibile perchè nuova, ovvero non autonoma, la domanda di risarcimento del danno per omesso consenso informato”;

la ricorrente dichiara di censurare il seguente passaggio della sentenza impugnata: “deve altresì essere rigettato il motivo di appello proposto in relazione alla contestazione di inadempimento per mancata corretta informazione. A ben leggere le difese dell’appellante la questione era stata genericamente introdotta anche nell’atto di citazione (pag. 5) prima che nella memoria ex art. 183 c.pc.., n. 1, come invece rilevato dal Tribunale, ma la medesima non venne formulata quale domanda autonoma e senza allegazione, prima della prova, del fatto che il rischio di andare incontro a complicanze di cui lamenta l’omessa informazione l’avrebbe indotta a scelte differenti”;

la D.S. afferma che, in realtà, “ha sin dall’inizio inteso far valere anche la domanda di risarcimento del danno da violazione del consenso informato in presenza di una negligenza medica” e, richiamata Cass. n. 7284/2018, afferma di avere richiesto “il danno sub a)”, ossia il “danno alla salute sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente su cui grava il relativo onere probatorio se correttamente informato avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e subirne le conseguenze”;

il motivo è inammissibile in quanto non attinge adeguatamente ed integralmente la ratio decidendi: anche a prescindere dal profilo della contestata non autonomia della domanda correlata alla mancata informazione, non risulta censurato il rilievo della Corte circa la mancata tempestiva allegazione del fatto che l’informazione sulle possibili complicanze avrebbe indotto la D.S. a scelte differenti;

deve considerarsi, infatti, che secondo la giurisprudenza di questa Corte:

la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti, nonchè un danno da lesione dell’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale (ed, in quest’ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (Cass. n. 11950/2013 e Cass. n. 28985/2019);

con specifico riferimento all’ipotesi di intervento eseguito correttamente, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, se compiutamente informato, avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento (Cass. n. 2847/2010 e Cass. n. 2998/2016);

la necessità, per il paziente, di allegare (e dimostrare) che, se correttamente informato, avrebbe scelto di non sottoporsi all’intervento è chiaramente postulata anche da Cass. n. 7248/2018 (a pag. 7) quale necessario presupposto per il risarcimento del danno alla salute (e ciò indipendentemente dal fatto che la condotta medica sia stata colposa o non colposa);

tanto premesso, deve ritenersi che correttamente la sentenza impugnata abbia ritenuto di non poter esaminare la domanda di risarcimento del danno alla salute correlato alla deduzione dell’omessa informazione in mancanza dell’allegazione (prima ancora che della prova) che l’informazione sulle complicanze avrebbe indotto la D.S. a non sottoporsi all’intervento;

nè tale rilievo risulta superato – in fatto – dai passaggi degli atti processuali trascritti in ricorso, dai quali non emerge che vi sia stata una allegazione tempestiva della diversa scelta che la ricorrente avrebbe effettuato: invero, tale allegazione non emerge dall’atto di citazione (ove risulta formulato un generico addebito di mancata informazione sui rischi), mentre non rilevano (in quanto tardive) le deduzioni svolte con le memorie depositate in fase decisionale, nè ovviamente – le quelle compiute con l’atto di appello.

Considerato, in conclusione, che:

il ricorso dev’essere rigettato;

le spese di lite seguono la soccombenza;

sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate, per ciascun controricorrente, in Euro 2.500,00 per compensi, oltre al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00), alle spese forfettarie (nella misura del 15%) e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2021