Confermata la condanna nei confronti di una dottoressa dipendente dell’Asl, operante in regime di attività di libero professionista intramuraria autorizzata presso il suo studio privato, che una volta ricevuti i compensi dalle pazienti, non aveva corrisposto all’ente gli importi previsti, cioè il 25% delle somme percepite e non fatturate.

Quelle visite mediche furono eseguite in ragione di un titolo che trovava origine nel rapporto tra l’imputata e la Asl; un rapporto, un titolo, che condusse la Asl ad indirizzare le pazienti all’imputata e la circostanza che la prestazione fu eseguita in uno studio diverso rispetto a quello oggetto dell’autorizzazione non incide sulla ragione giustificativa di quelle prestazioni, che furono eseguite non in un contesto evidentemente abusivo, ma trovavano la loro ragione giustificativa in un affidamento legittimo delle pazienti.

Cassazione penale sez. VI, 10/03/2022, , n.23792

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FIDELBO Giorgio – Presidente –
Dott. COSTANZO Angelo – Consigliere –
Dott. CALVANESE Ersilia – Consigliere –
Dott. SILVESTRI Pietro – rel. Consigliere –
Dott. D’ARCANGELO Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente: SENTENZA
sul ricorso proposto da: N.O., nata a (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Lecce il 14/12/2020;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere, Pietro Silvestri;
sentito il Sostituto Procuratore Generale, Dott. VENEGONI Andrea, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
sentito l’avv. Luca Cococcia, sostituto dell’avv. Alfredo Cacciapaglia, in difesa della costituita parte civile Asl (OMISSIS), che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; sentita l’avv.ssa Sabrina Conte, difensore dell’imputata, che ha concluso insistendo nell’accoglimento dei motivi di ricorso;

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di (OMISSIS) ha sostanzialmente confermato la sentenza con cui N.O. è stata condannata per il reato di peculato.

All’imputata, medico dipendente dell’AsI di (OMISSIS) in servizio presso l’ospedale di Scorrano, operante in regime di attività libero professionista intramuraria (c.d. intramoenia allargata) autorizzata presso il suo studio professionale privato, è contestato di essersi appropriata della somma di 1.250 Euro corrispondere al 15,93 della somma ricevuta da alcune pazienti.

2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputata articolando sei motivi.

2.1. Con i primi tre motivi si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità.

Il presupposto fattuale da cui muove il ricorso è che nel giudizio sarebbe stato accertato che tutte le prestazioni mediche poste a fondamento del reato contestato sono state eseguite in uno studio diverso rispetto a quello per il quale era stata rilasciata l’autorizzazione; il dibattimento, si aggiunge, non avrebbe peraltro chiarito se le visite siano state eseguite nei giorni e negli orari indicati nel provvedimento autorizzatorio.

Il tema attiene alla illiceità del modo con cui sarebbe stato conseguito da parte dell’imputata il possesso o la disponibilità del denaro e, quindi, alla interpretazione del sintagma “in ragione dell’ufficio o del servizio” di cui all’art. 314 c.p..

Secondo la ricorrente, che richiama giurisprudenza di questa Corte relativa a casi ritenuti sovrapponibili, la condotta sarebbe lecita o al più riconducibile al reato di truffa in danno della Asl, non delle pazienti; l’artificio e il raggiro sarebbe costituito nella mancata fatturazione e nella mancata comunicazione alla Asl del mutamento dello studio in cui le visite erano state eseguite e la Asl sarebbe stata indotta in errore sul rispetto del vincolo e sulla spettanza dei benefici economici: l’omesso versamento costituirebbe l’effetto di una pregressa condotta illecita (a tal fine si richiama testualmente la motivazione di Sez. 2, n. 30798 del 2012 (dove si fa riferimento alla indennità esclusiva e di posizione) di Sez. 6, n. 33150 del 2012).

Ai fini della configurazione del reato di peculato, si argomenta, il possesso deve essere conseguito nell’ambito di un’attività lecita, atteso che, diversamente, cioè quando esso consegua da un’attività che si ponga in contrasto con la legge, il rapporto d’ufficio sarebbe interrotto e dunque non sussisterebbe il reato.

La violazione posta in essere dall’imputata, si aggiunge, sarebbe grave al punto da legittimare la sospensione del sanitario- ai sensi del regolamento per l’attività libero-professionale intramuraria del personale dipendente della dirigenza medica approvato con delibera n. 3755 del 25.11.2009- e dunque ci sarebbe stata una condotta interruttiva del nesso funzionale tra l’incarico ricevuto e la prestazione eseguita.

Secondo il ricorrente, che richiama anche in tal caso precedenti pronunce della Corte, nei casi come quello in esame non sarebbe ravvisabile nemmeno il delitto di truffa per assenza di una condotta decettiva.

2.2.Con il quarto motivo si lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva quanto al giudizio di responsabilità; il peculato non sarebbe configurabile, oltre che nel caso di appropriazione scaturita da una situazione contra legem, anche nei casi di affidamento intuitu personae, cioè quando un paziente scelga un medico prescindendo totalmente dal rapporto di questi con la struttura pubblica.

Nel caso di specie, non vi sarebbe prova che le pazienti si fossero rivolte all’imputata sulla base del rapporto pubblicistico, ma anzi vi sarebbe prova del contrario.

Dunque sarebbe errata l’affermazione del Tribunale secondo cui le pazienti sarebbero state indirizzate dalla Asl al medico e che avessero la convinzione di corrispondere quanto dovuto in ragione della esecuzione di una prestazione pubblica; la Corte sul punto sarebbe silente e si sarebbe limitata ad affermare che il ragionamento difensivo sarebbe inconferente in ragione della non occasionalità della condotta posta in essere dall’imputata.

Si tratterebbe di un criterio errato.

2.3. Con il quinto motivo si deduce vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 6, per non essere stato integralmente risarcito il danno integrale, avendo l’imputata solo restituito la somma illecitamente trattenuta.

2.4. Con il sesto motivo si lamenta vizio di motivazione quanto all’aumento di pena inflitto per continuazione.

3. E’ pervenuta una memoria difensiva della parte civile Asl (OMISSIS) con cui si ripercorre lo stato della giurisprudenza e si chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato limitatamente al quinto ed al sesto motivo di ricorso.

2. Sono infondati i primi quattro motivi, relativi alla responsabilità penale ed alla configurabilità nella specie del reato di peculato.

2.1. In punto di fatto dalle sentenze di merito emerge che:

– l’imputata, ginecologa ospedaliera con funzioni dirigenziali, era stata autorizzata il 28.2.2001 dalla Asl di (OMISSIS) allo svolgimento di attività di libero professionista intramuraria (cd. intramoenia allargata) presso il proprio studio privato in (OMISSIS);

– a seguito di controlli fu accertato che N. negli anni 2010, 2011, 2012 aveva emesso 39 fatture a fronte di un numero di visite superiore;

– la ricorrente, ricevuti i compensi, non aveva corrisposto all’ente di appartenenza gli importi previsti, cioè il 25% delle somme incassate e non fatturate ad alcune pazienti;

– le pazienti, escusse in giudizio, avrebbero tutte riferito di essere state visitate dall’imputata in uno studio, quello situato in (OMISSIS) alla (OMISSIS), diverso rispetto a quello in relazione al quale l’autorizzazione era stata rilasciata;

– le visite erano state tutte occasionate da un contatto pubblico qualificato “atteso che era la Asl, a cui le donne a diverso titolo si erano rivolte per l’esecuzione di prestazioni sanitarie, ad affidare le pazienti alla cure della Dott.ssa N…. “(così testualmente la sentenza di primo grado a pag. 3, richiamata dalla Corte che aggiunge ulteriori considerazioni che, diversamente dagli assunti difensivi, non consentono affatto di ritenere smentita l’affermazione del Tribunale).

2.2. In tale contesto i motivi sono inammissibili nella parte in cui si ritiene che i Giudici di merito non avrebbero considerato che le visite furono compiute dall’imputata in ragione di rapporti del tutto privatistici e personali con le pazienti ed in modo del tutto scisso dal contatto di queste con la struttura pubblica che le aveva a lei indirizzate.

Sul punto, l’imputata sollecita una diversa ricostruzione fattuale e si limita a riportare stralci delle dichiarazioni delle pazienti senza confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata in cui la Corte ha chiarito, richiamando la sentenza di primo grado, come la prova del previo contatto tra le pazienti e la struttura pubblica sia derivata non solo dalle dichiarazioni assunte ma anche dalla documentazione acquisita.

2.3. Escluso dunque il tema del rapporto fra le visite compiute dall’imputata e il rapporto pubblicistico alla fonte, la questione attiene a se possa assumere rilievo ai fini della configurabilità della fattispecie di reato contestata la circostanza che la prestazione medica sia eseguita in uno studio diverso da quello in relazione al quale l’autorizzazione era stata rilasciata.

Il tema attiene cioè e a se la parziale violazione da parte dell’imputata delle condizioni in ragione delle quali era stata autorizzata allo svolgimento di attività c.d. intra moenia allargata interrompa il nesso funzionale tra l’attività medica e la funzione pubblicistica per la quale quelle pazienti si erano rivolte alla Asl e da questa erano state indirizzate alla N..

2.4. Secondo un consolidato orientamento di legittimità, in tema di peculato, nella nozione di possesso o di detenzione qualificati dalla ragione dell’ufficio o del servizio è ricompreso non solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525; Sez. 6, n. 9660 del 12/02/2015, Zonca, Rv. 262458; Sez. 6, n. 12368 dei 17/10/2012, Medugno, Rv. 255998).

Il possesso qualificato dalla ragione di ufficio o di servizio non sarebbe cioè solo quello che rientra nella specifica competenza funzionale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, perché le “ragioni di ufficio o di servizio” avrebbero come riferimento un rapporto – fondato anche sulla prassi o su consuetudini invalse in un determinato ufficio- che consenta ai soggetti indicati negli artt. 357 e 358 c.p. di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità materiale della cosa, trovando nella loro pubblica funzione o servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, n. 9890 dell’08/04/1994, Palladini, Rv. 199153).

Dunque, si assume, sarebbe irrilevante per la consumazione del reato che l’agente sia entrato nel possesso del bene nel rispetto o meno delle disposizioni organizzative dell’ufficio, potendo detto possesso derivare anche dall’esercizio di fatto o arbitrario di funzioni, dovendosi escludere il peculato solo quando la disponibilità sia meramente occasionale, ovvero dipendente da evento fortuito o legato al caso. (Sez.6, n. 18015 del 24/02/2015, Ambrosio, Rv. 263278).

Non vi è dubbio che, ove si ritenesse di fare riferimento all’impostazione in esame, l’imputata conseguì la disponibilità del denaro in ragione dell’ufficio nonostante la violazione delle disposizioni organizzative ricevute.

2.5. Secondo altro più convincente indirizzo, la ragione dell’ufficio o di servizio, che qualifica il possesso o la disponibilità del denaro, presuppone che tra l’agente ed il possesso vi sia non un semplice collegamento di fatto o occasionale, ma un nesso giuridico funzionale, un nesso di dipendenza tra il possesso e l’ufficio o il servizio esercitato.

Perché possa integrarsi il delitto di peculato, occorre che il possesso abbia un titolo di legittimazione che rinvenga la propria causa nella ragione funzionale, in quanto il possesso non deve derivare da un affidamento contrario ad un espresso divieto di legge,

o da un atto illecito, atteso che, se così fosse, le condotte appropriative non troverebbero più la loro “causa” nella ragione funzionale, ma ne rappresenterebbero una palese violazione di essa.

Ai fini della integrazione del delitto di peculato, il pubblico ufficiale, ovvero l’incaricato di pubblico servizio, deve appropriarsi del denaro o della cosa mobile di cui dispone per una ragione legata all’esercizio di poteri o doveri funzionali, in un contesto che consenta al soggetto di tenere nei confronti della cosa quei comportamenti uti dominus in cui consiste l’appropriazione, dovendosi ritenere invece incompatibile con la presenza della ragione funzionale un possesso proveniente da un affidamento devoluto solo intuitu personae, ovvero scaturito da una situazione contra legem o evidentemente abusiva, cioè un affidamento senza alcuna relazione legittima con l’oggetto materiale della condotta. (Sez. 6, n. 45084 el 19/01/2021, Genazzani, Rv. 282290; Sez. 6, n. 35988 del 21/05/2015, Berti, Rv. 264578; Sez. 6, n. 34884 del 07/03/2007, dep. 14/09/2007, Rv. 237693).

E tuttavia, anche seguendo detta impostazione, il reato contestato sussiste, atteso che la disponibilità del denaro non fu originato né, come detto, da un affidamento intuitu personae e neppure da una situazione contra legem o evidentemente abusiva, cioè un affidamento senza alcuna relazione legittima con l’oggetto materiale della condotta.

Quelle visite mediche furono eseguite in ragione di un titolo che trovava origine nel rapporto tra l’imputata e la Asl; un rapporto, un titolo, che condusse la Asl ad indirizzare le pazienti all’imputata e la circostanza che la prestazione fu eseguita in uno studio diverso rispetto a quello oggetto dell’autorizzazione non incide sul senso, sulla causa, sulla ragione giustificativa di quelle prestazioni, che furono eseguite non in un contesto evidentemente abusivo, ma trovavano la loro ragione giustificativa in un affidamento legittimo delle pazienti.

2.6. Ne’ è fondato l’assunto difensivo secondo cui nella specie sarebbero configurabili gli estremi del delitto di truffa.

Non vi è dubbio che nel peculato esista “di per sé” un profilo propriamente “giuridico” di rilevanza del rapporto tra l’agente e la res.

Già in epoca precedente la riforma introdotta con la L. 26 aprile 1990, n. 86, la giurisprudenza di legittimità aveva interpretato la nozione di possesso assunta dall’art. 314 c.p. attribuendole un significato più ampio di quello civilistico.

Si è ritenuto, infatti, non necessario che il pubblico ufficiale abbia la materiale detenzione o la diretta disponibilità del denaro, essendo sufficiente la disponibilità giuridica, ossia la possibilità di disporne – mediante un atto di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio – e di conseguire quanto poi costituisca oggetto di appropriazione (ex plurimis: Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013, Orsi, Rv. 257385; Sez. 6, n. 7492 del 18/10/2012, Bartolotta, Rv. 255529; Sez. 6, n. 11633 del 22/01/2007, Guida, Rv. 236146; Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, Finocchi, Rv. 211008).

I principi in questione devono essere posti in connessione con la elaborazione giurisprudenziale relativa ai rapporti tra il delitto di peculato e quello di truffa, aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, c.p..

Nel peculato, la rilevanza penale della condotta appropriativa del denaro o della cosa mobile altrui presuppone il possesso o comunque la disponibilità, nel senso appena indicato, di tali beni da parte del pubblico ufficiale “per ragione del suo ufficio o servizio”.

Entro tale prospettiva, dunque, l’appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui, di cui si abbia il possesso, si traduce sostanzialmente nell’atteggiarsi uti dominus da pane del pubblico ufficiale nei confronti di tali beni, mediante il compimento di atti incompatibili con il titolo per cui si possiede, così da realizzare l’interversio possessionis e l’interruzione della relazione funzionale tra il bene e il suo legittimo proprietario.

Il delitto di truffa aggravata dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione postula, invece, che l’agente, inducendo taluno in errore attraverso artifizi o raggiri, consegua per sé o per altri “un ingiusto profitto”, rappresentato anche dall’impossessamento di un determinato bene, di cui in precedenza non aveva l’autonoma disponibilità.

E’ al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall’altra, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata.

Ciò che rileva è il modo con il quale si acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato (sul tema, tra le tante, Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, Pieretti, Rv. 274282; Sez. 6, n. 10569 del 05/12/2017, dep. 2018, Alfieri, Rv. 273395; Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154; Sez. 6, n. 35852 del 06/07/2008, Savorgnano, Rv. 241186).

Nel caso di specie, in cui si contesta il mancato versamento delle somme incassate non il conseguimento di ulteriori somme da parte dell’ente, la ricorrente si appropriò di denaro che avrebbe dovuto riversare all’Asl e di cui aveva la diretta ed immediata disponibilità giuridica e materiale; somme di denaro che a lei erano state corrisposte, come detto, in ragione dell’ufficio da lei ricoperto.

Rispetto alla contestazione, non è configurabile nessuna condotta decettiva volta ad indurre in errore l’ente ed a conseguire la disponibilità di somme (indennità, erogazioni ulteriori) che altrimenti non si sarebbe ottenuta; nessuna condotta fraudolenta, nessuna azione volta alla collaborazione viziata di altri soggetti vittima di induzione in errore; l’imputata si appropriò di somme di cui aveva la disponibilità per ragioni d’ufficio.

3. Sono invece fondati il quinto ed il sesto motivo di ricorso, non essendo chiare, da una parte, perché la restituzione della somma illecitamente trattenuta non potrebbe ritenersi integralmente risarcitoria e, dall’altra, le ragioni poste fondamento della quantificazione della pena inflitta a titolo di continuazione.

Su tali punti la sentenza deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio.

4. Per effetto della irrevocabilità dell’accertamento della responsabilità penale, l’imputata deve essere condannata alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio in favore della costituita parte civile. ASL di (OMISSIS), che si liquida in complessive Euro m3.510,00 oltre accessori.

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con riferimento all’attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 6 c.p. e alla continuazione, rinviando per nuovo giudizio su tali punti ad altra Sezione della Corte di appello di Lecce.

Rigetta nel resto il ricorso e dichiara irrevocabile la sentenza in ordine alla responsabilità della ricorrente che condanna alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio in favore della parte civile, Asl di (OMISSIS), che liquida in complessive Euro 3.510,00 oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2022

Fonte: Dirittosanitario.Net